Presentazione del piano di lavoro
Indubitabilmente, il tema proposto si caratterizza per la sua vastità e complessità: ogni manifestazione della vita umana esprime un bisogno di comunicazione, dalle più minute circostanze quotidiane alle più profonde e meditate esperienze espresse nell’arte. All’interno di una problematica più varia ha stimolato la nostra riflessione un pensiero contenuto nella presentazione del Convegno UNIV : "accedere sempre più velocemente a fonti di informazioni può portare alla grottesca e penosa ignoranza di colui che dispone di moltissimi dati ma non sa che farsene". Il risultato di tale inquietante paradosso è frutto di una mitizzazione della scienza, che ha offerto e continua ad offrire la possibilità di ampliare ad infinitum il patrimonio di conoscenze dell’uomo, privilegiando però solo una dimensione dell’esistenza, ossia quella squisitamente empirico-materiale e tralasciando l’aspetto insito nelle radici stesse del nostro essere uomini: il bisogno di una risposta capace di dare senso alle incognite ineludibili dell’esistere, la morte e il dolore.
É sintomatico notare come lo svilupparsi su vasta scala della scienza moderna, collocabile nel XVIII secolo, sia accompagnato dall’affiorare di un senso di inadeguatezza della scienza stessa a dare risposte ultimative all’uomo. Gli stessi Illuministi si rendono conto del pericolo insito nella scienza fine a stessa: accanto ai possibili progressi che può far conseguire all’umanità, presenta il rischio di quella "grave epidemia di incomunicabilità", che affligge l’umanità contemporanea, della quale già Montesquieu si era reso conto in pieno Settecento.
Tale crisi si acuisce in epoca romantica: l’uomo si rende conto che conoscere molto non significa, di per sé, comunicare con gli altri e ottenere risposte alle grandi domande che lo tormentano. E’ in questo periodo che si va delineando una nuova figura di artista, caratterizzata da un intenso travaglio e da una profonda inquietudine: emerge, con questi tratti, il bisogno di trovare una forma di comunicazione in grado di placare questo tormento e di rompere il cerchio di isolamento e di solitudine nel quale è imprigionato l’intellettuale romantico; la massima espressione letteraria di tale bisogno di comunicare si trova nella figura del Faust goethiano . Questa insoddisfazione presenta due possibili vie d’uscita: una, in negativo, che porta all’autodistruzione, al suicidio, inteso come atto supremo di rivolta e tragica ricerca di autoaffermazione; l’altra, in positivo, si risolve in una tensione verso l’infinito. I critici identificano tale stato con il verbo tedesco streben, un anelare verso una realtà non definita né definibile che, per sua stessa natura, determina un sentimento di "struggimento", espresso col vocabolo sehnsucht (per la differenza tra questi due concetti, si veda: G.REALE - D.ANTISERI, Il pensiero occidentale dalle origini a oggi , III, La Scuola, Brescia, 1983, pp. 7-8). E’ possibile riscontrare questo atteggiamento nei massimi rappresentanti del romanticismo europeo, quali Hölderlin e Leopardi. L’arte, la parola poetica diviene l’estrema risorsa per soddisfare questo bisogno di dialogo, come nota Goethe in un suo aforisma, nel quale afferma: "il modo più sicuro per entrare in contatto col mondo è l’arte", e consente di cercare un interlocutore, per dare un senso alla vita. Nella seconda metà dell’Ottocento, questo ruolo nella poesia va sgretolandosi e la parola poetica perde la sua forza e la sua capacità comunicativa. A questa crisi corrisponde, in continuità con la situazione del Romanticismo, l’acuirsi della difficoltà comunicativa nella quale si dibatte l’intellettuale. Un autore che evidenzia quasi in forma simbolica la separazione fra poeta e uomo comune è Thomas Mann. In Tonio Kröger vengono delineati due personaggi che assurgono a simboli di due opposte realtà: il giovane Tonio incarna il tormento dell’arte ed il conseguente isolamento; l’amico Hans è il modello della spensierata normalità borghese .
Per l’artista decadente, viene meno la possibilità di comunicare con l’umanità: perché, allora, la poesia continua ad essere creata? Essa può ancora consentire una forma di comunicazione, ma del tutto particolare: la chiave per tentare di comprendere la realtà diventa il simbolo, una via di conoscenza non logico-razionale ma intuitivo-fantastica.
Una seconda possibilità che rimane alla poesia è quella di essere espressione di un tormento che il poeta manifesta, ma con la consapevolezza di non avere più un pubblico che lo ascolti: la parola poetica diviene "i lunghi singulti dei violini d’autunno" di Verlaine e la mera registrazione della propria tragica angoscia, della propria condizione di poeta, divenuto, da vate divino, uomo in crisi fra uomini in crisi, in grado soltanto di sentire più di altri l’incapacità di comunicare, il non senso dell’esistere, la disperazione montaliana del continuo seguire un muro invalicabile, che è segno di chiusura e privazione di autentico contatto umano .
L’origine di questa incapacità è diagnosticata con lucida freddezza nello Spleen di Baudelaire: il poeta tratta il tema del Tedio, del disgusto del vivere, come principale ostacolo alla possibilità di instaurare un’autentica comunicazione.
Nel panorama della poesia novecentesca, pur all’interno di posizioni di desolato pessimismo, è possibile imbattersi in un autore che presenta l’opportunità di un superamento della barriera di indifferenza e silenzio che divide gli uomini. Il poeta-soldato Ungaretti ritrova, nell’abbandono e nel fango delle trincee della I Guerra Mondiale, la capacità di dialogare con i propri simili, chiamandoli fratelli, grazie ad una semplice ma profondissima intuizione: la consapevolezza di essere unito agli altri uomini dalla stessa esperienza di dolore che, lungi dal portarlo ad uno sterile ripiegamento su se stesso e ad una piatta registrazione del proprio male, lo rende pronto a identificarsi con ogni fibra dell’universo e ad aprirsi al dolore del proprio simile.
Ungaretti arriva a tale intuizione senza il supporto di una fede positiva, almeno in una prima fase; una seconda alternativa, proponibile all’uomo del Novecento, è quella del romanziere francese Georges Bernanos; in un memorabile colloquio del Diario di un curato di campagna, si incontrano una ricca nobildonna della provincia francese, chiusa nel silenzio del suo tormentato orgoglio e della sua inconfessata sfida a Dio, e la semplice figura di un giovane curato, incapace di abili disquisizioni filosofiche e di discorsi retoricamente calibrati, ma possessore di un’arma decisiva: la sua "povertà e nullità", che mettono in crisi la nobildonna. Il giovane curato porta pian piano la contessa a comprendere la natura della sua colpa, con una frase di lapidaria chiarezza: "l’inferno è non amare più"; ciò che la nobildonna aveva rifiutato per anni era stata la speranza, premessa imprescindibile per ogni capacità di progettare la propria vita, trovandole un senso e dando ad essa il dono di aprirsi agli altri .
É significativo notare come, in questo passo, il vero elemento capace di rompere il muro di incomunicabilità, dietro il quale si era chiusa la contessa, sia l’immagine concreta di questo personaggio che, giudicato secondo un parametro umano, è un "fallito": riesce a farle comprendere che vivere significa amare e comunicare questo amore.
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