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CHARLES MONTESQUIEU

Le "Lettere Persiane"

E’ una satira violenta dei costumi francesi, analizzati dal punto di vista di due viaggiatori persiani. I sarcasmi delle lettere non risparmiano né le istituzioni, né gli uomini del tempo. Con la figura di Luigi XIV il Montesquieu vuole colpire il regime monarchico, delineando la sua concezione politica in netto contrasto con l’assolutismo di Hobbes (1588, 1679). Per ciò che trattano, le lettere preannunciano lo spirito critico proprio dello "Spirito delle leggi", volto ad analizzare le caratteristiche, appunto, dello "spirito" che accomuna tutte le leggi umane. Lo stile di quest’opera è contraddistinto da due mode letterarie allora in voga: la descrizione di tipo documentaristico dei paesi stranieri e le impressioni di stranieri ignoranti sugli usi e costumi della società occidentale.

Lettera n° 105:

Redi, uno dei due amici protagonisti di questa immaginaria corrispondenza, sta compiendo un viaggio in Europa per istruirsi. La sua condizione, rispetto ad un uomo occidentale del tempo, è, come dice lui stesso, di "barbaro"(1). La sua lettera è colma di inquietudine; esordisce infatti esprimendo un dubbio che ha maturato lungo il suo peregrinare(2): "non so se l’utile che se ne ricava [dalla scienza] risarcisce gli uomini del cattivo uso che se ne fa tutti i giorni". Non dobbiamo dimenticare che Redi incarna qui il pensiero di Montesquieu, filosofo illuminista, figlio di un’età ciecamente fiduciosa nei progressi della scienza e dell’ampliamento della conoscenza; è quindi singolare che uno scritto del 1721 abbia come inizio un’affermazione del genere. Ciò di cui si è accorto Redi è il pericolo che la scienza possa portare, oltre a benefici, anche svantaggi non da poco: con la scoperta degli esplosivi (3), per esempio, si sono inaspriti i rapporti tra le varie popolazioni e le possibilità che un principe possa opprimere i suoi sudditi sono aumentate. Ecco quindi il primo timore di Montesquieu (4): "Temo sempre che si giunga alla fine a scoprire qualche segreto che fornisca una via più breve per far perire gli uomini, distruggere i popoli e le nazioni intere". Non vi è quindi nel filosofo la fiducia totale nel progresso scientifico tipica del ‘700. Anche la chimica (5), scienza in pieno sviluppo, può divenire un flagello per la popolazione europea paragonabile a quelli della guerra, della carestia e della peste. "A che ci è servita quindi l’invenzione della bussola e la scoperta di molti popoli" (6), è la domanda che si fa Redi, "se non a trasmetterci le loro malattie piuttosto che le loro ricchezze?". La convenzione della moneta (7), poi, è molto utile e comoda per stabilire il prezzo delle merci e garantirne il loro valore, ma, d’altro canto (8), "Nazioni intere sono state distrutte e gli uomini che sono sfuggiti alla morte sono stati ridotti ad una così dura schiavitù che il racconto ne ha fatto fremere i musulmani". Dopo questo quadro di inquietudine e sfiducia, si può quindi arrivare alla paradossale esclamazione che chiude questa lettera (9): "Felice l’ignoranza dei figli di Maometto!"; l’unico rimedio ad un futuro incerto diventa di conseguenza l’ingenua saggezza che era presente nei tranquilli animi "dei nostri primi padri".

Questa lettera è il simbolo di un atteggiamento che sta cambiando nei confronti della scienza: ci si rende conto che coll’aver riposto tutta la fiducia dell’uomo nel progredire della conoscenza umana attraverso i progressi della scienza, non si è più data risposta ad interrogativi fondamentali della natura umana. L’esistenza quindi perde il suo significato se non vengono riprese le questioni e gli interrogativi tralasciati dopo aver dato un ruolo predominante alla scienza rispetto alla metafisica.

Perplessità sulla tecnica / fiducia nel valore della tecnica

Se l’autore che abbiamo ricordato manifesta qualche perplessità sulla capacità della scienza di divenire di per sé elemento di progresso, compare altrove una posizione antitetica, degna di una breve analisi: la fiducia illimitata nelle potenzialità del sapere illuministico è chiaramente visibile nel romanzo Robinson Crusoe: in questo testo trova compiuta realizzazione il modello dell’homo artifex, fiducioso nelle possibilità che la tecnica offre all’uomo di progettare il proprio futuro attraverso conoscenza meramente empiriche. Il naufrago Robinson viene a trovarsi su un’isola deserta, quasi simbolo universale di solitudine e di mancanza di contatto con il resto dell’umanità; la permanenza nell’isola non spinge Robinson a porsi romanticamente domande sulla sua condizione, sul suo destino di uomo, instaurando un dialogo con l’arcano e primitivo fascino della natura circostante; ciò che il naufrago fa è calcolare, con asettica precisione, i vantaggi e gli svantaggi presentati dalla sua nuova situazione: "e così stabilii nel seguente modo, con assoluta imparzialità, quasi fossero il dare e l’avere di un libro contabile, le consolazioni di cui godevo e le afflizioni di cui avevo sofferto".

Il naufrago giunge con immediata chiarezza a fare esperienza della condizione di non-comunicazione, nella quale è venuto a trovarsi, registrando nel suo diario: "Non ho nessuno con cui parlare e dal quale avere conforto". Ci pare significativa la seconda parte di questa affermazione: Robinson sembra quasi inserire il bisogno dell’altro, la necessità di instaurare una comunicazione in un’ottica utilitaristica, in quanto dal proprio simile si attende esclusivamente un conforto del suo dolore, senza lasciar trasparire la capacità di portare e dare, in questo incontro, qualcosa di sé.

Proseguendo la sua riflessione, è sintomatico che il naufrago ponga all’attivo il fatto che la barca sia "andata ad arenarsi a breve distanza dalla riva", cosicché Robinson ha potuto "cavarne tante cose utilissime, che mi serviranno per soddisfare le mie necessità o per mettermi in grado di soddisfarne finché avrò vita": nel corso del romanzo il protagonista non cambia interiormente, non dà consigli né svolge riflessioni di carattere etico, ma trova il suo compimento esclusivamente nella capacità di manipolare la realtà selvaggia in cui è venuto a trovarsi, sottomettendola con le procedure e le tecniche dell’empirìa, con le abilità pratico-operative dell’uomo meccanico.

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