LA STRUTTURA |
I Promessi Sposi
hanno una struttura complessa, che risponde ad un alto grado di
evoluzione del genere romanzesco.
Manzoni crea una pluralità di piani narrativi, che gli consente
di effettuare frequenti variazioni nello stile.
Inoltre contrappone i personaggi in modo da poter descrivere
numerosi punti di vista.
Contribuisce a rendere interessante la pluralità di
visuale un effetto di straniamento dalla narrazione cui Manzoni
giunge grazie all'artificio del manoscritto: fingendo di
trascrivere in forma moderna il documento di un anonimo
seicentesco, riesce ad ottenere un effetto di veridicità e anche
di distacco del narratore. (cfr.Introduzione)
Le passioni dei protagonisti e la loro espressione nel romanzo
hanno un tono medio, contenuto, tranne che in due casi, due
episodi, quello dell'Innominato
e quello di Gertrude,
che rappresentano due romanzi nel romanzo più che costituire
delle digressioni, e che simboleggiano i due estremi, l'alto ed
il basso, cui possono arrivare i sentimenti umani.
C'è poi il tema della peste, lo spunto grazie al quale Manzoni
può rappresentare il mondo in uno stato di anormalità e di
completo stravolgimento per far intendere, grottescamente, come
questa condizione somigli molto alla norma.
Il finale del romanzo, per la sua particolarità, può essere
confrontato con la tesi di Lukàcs, per il quale, mentre l'epica
era espressione di una società aristocratica che coglieva in
essa il mondo nella sua totalità, il romanzo esprime la
pluralità di accesso al reale tipica della società borghese.
All'apparenza Manzoni spiega ogni evento con il suo piano provvidenziale, che domina
il romanzo in tutto il suo svolgersi, facendone una creazione
letteraria vicina all'epica per la sua concezione
"totalizzante", ma in realtà l'approccio dello
scrittore è problematico, perchè, come ha fatto notare Ezio
Raimondi in un suo noto saggio, il finale del romanzo è "senza idillio".
Il tono del romanzo, finora denso di eventi e dominato dal tema
della Provvidenza, cade nel quotidiano e nel banale e la
sospirata conclusione si presenta all'insegna della poco velata
insoddisfazione di Renzo, offeso perchè il paese che accoglie i
due sposi ha dei "disgusti" pronti per Lucia, che tutti
immaginavano bella come una regina.
Manzoni tira le fila del romanzo esprimendosi per bocca di Lucia
quando Renzo, con la sua serie di "ho imparato"
riassume la lezione appresa dalle sue peregrinazioni. Ai
soddisfatti commenti del marito, che vanta la sua esperienza di
vita, ella contrappone la condizione di chi, pur senza alcuna
colpa, è oppresso dai "guai". E' di nuovo il tema
della sventura, che Manzoni ha approfondito nel Conte di
Carmagnola e nell'Adelchi in forma tragica (i protagonisti delle
due tragedie muoiono innocenti e, in certo qual modo, la loro
morte è necessaria per far di loro delle vittime espiatorie
degne del premio divino) e che qui si ripresenta in una
prospettiva più serena, ma non molto più ottimista. La fiducia
in Dio raddolcisce la sventura e la rende utile per una vita
migliore, e questo è il "sugo" della storia, ma resta
quell'improvviso calo di tono nell'ultimo capitolo del romanzo a
lasciar intuire, nella concezione del Manzoni, una svolta
nell'approccio al mondo romanzesco ed alla concezione del mondo.
La critica più recente ha individuato infatti nei Promessi
Sposi i sintomi di una caduta della visione
provvidenziale della storia.
Scrive Luigi Derla che non si può parlare in Manzoni di razionalità della storia, perchè gli eventi sono un assurdo in cui Dio cela un fine noto a lui solo:
"E' finalmente un riconoscimento importante di quello che è l'atteggiamento più autenticamente manzoniano verso la storia, dopo tante, categoriche e così mal fondate affermazioni tendenti a presentare il Nostro come serenamente affuso nella contemplazione di una storia tutta manodotta da Dio, tutta consacrata dagli interventi chiari, indiscutibili, della provvidenza, si rivelino essi a livello di un Napoleone o a quello di Renzo e Lucia. Non storia dei mirabilia Dei, insomma, ma storia come "assurdo". E questa convinzione, che custodisce la sua coraggiosa rinuncia al conforto di un'intelligenza del fine, sarà il punto di partenza per un recupero della storia e del suo mistero - la sua essenza noumenica - in una prospettiva radicalmente esistenziale."
( Luigi Derla da "Il realismo storico di Alessandro Manzoni")
"Legate tra loro da un destino comune e da un interno contrappunto di ricordi, di risonanze affettive, le due vicende di Renzo e di Lucia, dal momento in cui si disgiungono procedono a linee alterne e determinano il doppio asse lungo il quale il racconto si dilata per divenire, dirà poi il Burckhardt, un capitolo di storia universale. La loro funzione di raccordo, però, si attua in due direzioni differenti, poichè sull'asse semico di Lucia si incontrano Gertrude, l'innominato, il cardinale Federigo, e magari donna Prassede o don Ferrante; mentre su quello di Renzo, fatta eccezione per il "vecchio" Ferrer, si dispongono gli uomini della strada e della piazza: osti, avvocati, vagabondi, mercanti, poliziotti, compagnoni, artigiani, monatti, contadini in miseria. Come si vede, tanto l'uno quanto l'altro portano a un'immagine stratificata ed esemplare della società lombarda. Ma solo Renzo si trova a compiere un'autentica esperienza pubblica, viene a contatto coi meccanismi di un sistema sociale, ne sperimenta gli assurdi al livello più basso e si sforza, come può, di capirne qualcosa. Egli è l'antieroe della tradizione picaresca, un "pover'uomo" gettato in un mondo imprevisto di insidie e costretto, nel suo viaggio fra il contado e Milano, a una sorta di paradossale "Bildungsroman" dove, sovente a sua insaputa, sembra quasi rivelarsi il mistero dell'esistenza."
(Ezio Raimondi, da "Il romanzo senza idillio")