IL ROMANZO SENZA IDILLIO

"In effetti, mentre tutto oramai scorre per il meglio, l'ultimo capitolo dei Promessi Sposi indugia e ristagna in una rete di scene e di episodi da idillio comico, dal ricongiungimento dei protagonisti alle conversazioni tra le donne e don Abbondio, dal nuovo incontro di Renzo con il curato alla visita del signor Marchese e alla festa del palazzotto, dall'arrivo nel nuovo paese ai disgusti di Renzo, dall'acquisto del filatoio alla vita serena in famiglia, in mezzo ai marmocchi, a alla placida rievocazione del passato, quasi che il ritmo romanzesco abbia perduto il suo passo ed esiti a congedarsi, a imporsi una fine.
A chi rifletta, però, sul fatto che in questi stessi paragrafi di cronaca, per così dire, in liquidazione si inseriscono gli interventi di Don Abbondio sulla peste e la replica a distanza del narratore ("Ma si direbbe che la peste avesse preso l'impegno di raccomodar tutte le malefatte di costui...") così argutamente allusiva alla motivazione dell'intreccio, si profila dietro ciò che pare un ragguaglio ormai stanco un disegno ironico che aggredisce proprio la struttura del lieto fine, il codice della favola secondo cui tutti i conti debbono all'ultimo tornare.
Il paradigma della vita "felice e tranquilla" che attende i protagonisti viene ripreso soltanto per essere deformato e neutralizzato, ripetuto in più versioni a cui manca sempre qualcosa, in un seguito beffardo di sfasature, di contrattempi, di misuratissime dissonanze.
Don Abbondio intona l'elogio della Provvidenza, ma trova anche che Perpetua "ha fatto uno sproposito a morire".
Il Marchese risarcisce gli sposi e li vuole al castello, ma il "trionfo" della "salita" termina con due tavole separate, da una parte la "buona gente" e "altrove" il signore in compagnia del parroco.
Il mito del paese, della "casa natia " a cui si vuole tornare, viene a patti con la realtà dell'emigrante e con le amarezze dell'integrazione.
I paesani che corrono a vedere Lucia per ammirare la sua "bellezza" di prima donna, coi "capelli proprio d'oro" e le "gote proprio di rosa" non scorgono una "principessa" ma una "contadina", come ribatte Renzo stizzoso.
Tutto in conclusione si sistema per il meglio, nella quiete agiata della famiglia, ma resta sempre l'ombra del "dolore" che è "un po' per tutto", la domanda sul senso profondo dell'esistenza, che mette in crisi il decalogo di Renzo e il conformismo rassicurante dei suoi retorici "ho imparato".
Aveva proprio ragione il narratore quando avvertiva, nel suo dialogo doppio con il pubblico e con l'anonimo, che "ci vuol così poco a disturbare uno stato felice".
L'idillio ritrovato, l'idillio che il Fauriel identificava, non si dimentichi, con la tendenza irresistibile dell'uomo a uno stato ideale d'ordine, d'equilibrio e di tranquillità in cui egli non senta più contraddizione di sorta tra il proprio destino possibile e quello reale, viene smentito ulteriormente dalla immissione massiccia dell'economico entro la topologia della favola domestica."
(Ezio Raimondi, "
Il romanzo senza idillio")


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