CAPITOLO XIX selezione di brani dal testo |
Ascoltato il resoconto di Attilio quanto ai
fatti occorsi a Don
Rodrigo, il Conte
zio provvede a suo modo.
Organizza un pranzo, al quale invita il padre provinciale dei
cappuccini, alcuni titolati e molti suoi amici e conoscenti,
gente adusa a stare in compagnia dei potenti e a dire sempre di
sì.
In queste circostanze, i convitati formano dei gruppetti, nei
quali si conversa di temi diversi.
Il Padre Provinciale avvia la conversazione con il suo nobile
ospite, portando l'argomento sulla figura del cardinale
Barberini, cappuccino e fratello del papa allora in carica,
Urbano VIII.
Dopo un po', i due si appartano, ed il Conte zio introduce il
tema che gli sta a cuore, ovvero la necessità di allontanare Padre Cristoforo dal
convento di Pescarenico.
Comincia col dire che questo padre Cristoforo gli sembra un
elemento poco raccomandabile e piuttosto attaccabrighe, come
dimostra il fatto che protegge un uomo sfuggito alla giustizia
per i tumulti di Milano.
Il Provinciale difende allora Cristoforo - del quale il conte zio
ha anche rivangato il passato violento prima della conversione e
dei voti - dicendo che ciò che l'uomo ha fatto lo ha fatto
certamente a fin di bene e che il suo passato è una gloria per i
cappuccini, il cui abito ha così trasformato le sue attitudini.
Quanto però all'accusa che il padre abbia preso di petto Don Rodrigo, questo
è un fatto sul quale ancora il Provinciale non può
esprimersi.
Il Conte zio, al quale non preme affatto che si faccia luce sulle
malefatte del nipote, si limita a dire che, secondo lui, sarebbe
bene collocare Cristoforo "in qualche posto un po'
lontanetto".
Il discorso del Conte zio, capolavoro di abilità diplomatica,
fatto di accenni, di mezze accuse e di mezze verità, convince il
padre Provinciale.
All'ordine di partire, frate Cristoforo in un momento iniziale
viene preso dallo sconforto, all'idea di abbandonare i suoi
protetti, poi pensa che la Provvidenza segue la sua strada
comunque, prende la sporta in cui ha deposto il breviario, il
quaresimale ed il "pane del perdono" e poi parte per
Rimini.
A questo punto, Manzoni introduce una figura nuova, un "uomo
terribile" a cui gli altri tiranni si inchinano. Egli resta Innominato, ma
l'autore accenna alle notizie rinvenute su di lui nel Ripamonti e nel
Rivola, che lo presentano di nascita nobile e di grandi mezzi, di
animo superiore e in contatto con alte sfere non solo nel ducato,
ma anche nei territori circostanti.
I suoi misfatti lo hanno costretto a lasciare Milano, ma la sua
partenza è avvenuta in gran pompa ed il suo messaggio di addio
conteneva insulti per il governatore.
Di ritorno in patria, si è stabilito in un castello presso il
confine veneto, con un gruppo di bravi scelti e in compagnia di
servi dal primo all'ultimo scellerati.
Nel resoconto delle gesta e dell'attuale residenza
dell'Innominato, l'elemento del
favoloso diviene importante nella narrazione.
Dall'alto del suo rifugio selvaggio quest'uomo, che sempre ha
detestato i tiranni, e quindi non è immune da un certo senso di
giustizia, guarda con sdegno agli altri signorotti, e a volte
interviene anche in favore di qualche debole.
Don Rodrigo, saputo che Lucia è rimasta sola a Monza, pensa di
ricorrere a lui e, accompagnato dal Griso, si mette in viaggio
per il suo castello.