STORIA DELLA COLONNA INFAME

Manzoni dedica sempre, per la stesura delle sue opere, una prima fase del suo lavoro di artista alla ricerca storica. Ciò avviene per Adelchi e per Il Conte di Carmagnola e, in misura assai più estesa e complessa, per i Promessi Sposi.
Come conseguenza delle ricerche compiute per
Adelchi egli scrive il Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia, insieme ai Promessi Sposi vengono invece scritti Del romanzo storico e la Storia della colonna infame.
Questa seconda opera, nella stesura originaria, il
Fermo e Lucia, era solo una vasta digressione, che Manzoni decise, nelle due redazioni successive, di eliminare dal romanzo. Fu, invece, pubblicata come appendice all'edizione dei Promessi Sposi del 1840.
La
Storia della colonna infame è la ricostruzione di un processo svoltosi durante l'epidemia di peste del 1630 ai danni di due presunti untori, Piazza e Mora, accusati di aver cosparso di un liquido pestilenziale i muri di Milano per diffondere la malattia.
Il processo era stato già analizzato, nelle sue iniquità, da
Pietro Verri, che lo aveva citato nelle sue "Osservazioni sulla tortura". Manzoni considera lo stesso argomento invalidando, con un rigoroso argomentare, le prove che venivano addotte dagli ignoranti e dai superstiziosi e denunciando la acquiescenza dei giudici e la pratica della tortura, per la quale gli accusati furono costretti a confermare le assurde fantasie che li volevano colpevoli.
La colonna infame, così detta perchè era sorta sul luogo dove era stata demolita la casa di uno degli accusati, è la testimonianza della ingiustizia della popolazione e dello stato.
Ancora una volta, con questo scritto, Manzoni conferma la sua ascendenza illuminista ed espone le sue idee in uno stile rapido e moderno.
A differenza del Verri, egli non si concentra sulla responsabilità sociale o della giurisprudenza, ma riconduce i fatti ad un problema individuale, nella convinzione che nei fatti storici sia sempre dominante il libero arbitrio.

 

Dalla "Storia della colonna infame"

"La mattina del 21 giugno 1630, verso le quattro e mezzo, una donnicciola chiamata Caterina Rosa, trovandosi, per disgrazia, a una finestra d'un cavalcavia che allora c'era sul principio di via della Vetra de' Cittadini, dalla parte che mette al corso di porta Ticinese (quasi dirimpetto alle colonne di san Lorenzo), vide venire un uomo con una cappa nera, e il cappello sugli occhi, e una carta in mano, sopra la quale, dice costei nella sua deposizione, metteua su le mani, che pareua che scriuesse. Le diede nell'occhio che, entrando nella strada, si fece appresso alla muraglia delle case, che è subito dopo voltato il cantone, e che a luogo a luogo tiraua con le mani dietro al muro. All'hora, soggiunge, mi viene in pensiero se a caso fosse un poco uno di quelli che, a' giorni passati, andauano ongendo le muraglie. Presa da un tal sospetto, passò in un'altra stanza, che guardava lungo la strada, per tener d'occhio lo sconosciuto, che s'avanzava in quella; et viddi, dice, che teneua toccato la detta muraglia con le mani. C'era alla finestra d'una casa della strada medesima un'altra spettatrice, chiamata Ottavia Bono; la quale, non si saprebbe dire se concepisse lo stesso pazzo sospetto alla prima e da sé, o solamente quando l'altra ebbe messo il campo a rumore. Interrogata anch'essa, depone d'averlo veduto fin dal momento che entrò nella strada; ma non fa menzione di muri toccati nel camminare. [... ] Et io dissi a questo tale, segue a deporre la Caterina, è che ho visto colui a fare certi atti, che non mi piaccino niente. Subito puoi si diuulgò questo negotio, cioè fu essa, almeno principalmente, che lo divolgò; et uscirno dalle porte, et si vidde imbrattate le muraglie d'un certo ontume che pare grasso et che tira al giallo; et in particolare quelli del Tradate dissero che haueuano trouato tutto imbrattato li muri nell'andito della loro porta. L'altra donna depone il medesimo.

Interrogata, se sa a che effetto questo tale fregasse di quella mano sopra il muro, risponde: dopo fu trouato onte le muraglie, particolarmente nella porta del Tradate.

E, cose che in un romanzo sarebbero tacciate d'inverisimili, ma che pur troppo l'accecamento della passione basta a spiegare, non venne in mente né all'una né all'altra, che, descrivendo passo per passo, specialmente la prima, il giro che questo tale aveva fatto nella strada, non avevan però potuto dire che fosse entrato in quell'andito: non parve loro una gran cosa davvero, che costui, giacché, per fare un lavoro simile, aveva voluto aspettare che fosse levato il sole, non ci andasse almeno guardingo non desse almeno un'occhiata alle finestre; né che tornasse tranquillamente indietro per la medesima strada, come se fosse usanza de' malfattori di trattenersi più del bisogno nel luogo del delitto; né che maneggiasse impunemente una materia che doveva uccider quelli che se ne imbrattassero i panni; né troppe altre ugualmente strane inverisimiglianze. Ma il più strano e il più atroce si è che non paressero tali neppure all'interrogante, e che non chiedesse spiegazione nessuna. se ne chiese, sarebbe peggio ancora il non averne fatto menzione nel processo. ...

E' stato significato al Senato che hieri mattina turno onte con ontioni mortifere le mura et porte delle case della Vedra de' Cittadini, disse il capitano di giustizia al notaio criminale che prese con sé in quella spedizione. E con queste parole, già piene d'una deplorabile certezza, e passate senza correzione dalla bocca del popolo in quella de' magistrati, s'apre il processo.

Al veder questa ferma persuasione, questa pazza paura d'un attentato chimerico, non si può far a meno di non rammentarsi ciò che accadde di simile in varie parti d'Europa, pochi anni sono, nel tempo del colera. Se non che, questa volta, le persone punto punto istruite, meno qualche eccezione, non parteciparono della sciagurata credenza, anzi la più parte fecero quel che potevano per combatterla; e non si sarebbe trovato nessun tribunale che stendesse la mano sopra imputati di quella sorte, quando, non fosse stato per sottrarli al furore della moltitudine. E', certo, un gran miglioramento; ma se fosse anche più grande, se si potesse esser certi che, in un'occasione dello stesso genere, non ci sarebbe più nessuno che sognasse attentati dello stesso genere, non si dovrebbe perciò creder cessato il pericolo d'errori somiglianti nel modo, se non nell'oggetto. Pur troppo, l'uomo può ingannarsi, e ingannarsi terribilmente, con molto minore stravaganza. Quel sospetto e quella esasperazion medesima nascono ugualmente all'occasion di mali che possono esser benissimo, e sono in effetto, qualche volta, cagionati da malizia umana; e il sospetto e l'esasperazione, quando non sian frenati dalla ragione e dalla carità, hanno la trista virtù di far prender per colpevoli degli sventurati, sui più vani indizi e sulle più avventate affermazioni.

Il Mora fu messo alla tortura! L'infelice non aveva la robustezza del suo calunniatore. Per qualche tempo però, il dolore non gli tirò fuori altro che grida compassionevoli, e proteste d'aver detta la verità. Oh Dio mio! non ho cognizione di colui, né ho mai hauuto pratica con lui, et per questo non posso dire... et per questo dice la bugia che sia praticato in casa mia, né che sia mai stato nella mia bottega. Son morto! misericordia, mio Signore! misericordia! Ho stracciato la scrittura, credendo fosse la ricetta del mio elettuario... perché voleuo il guadagno io solamente. Questa non è causa sufficiente, gli dissero. Supplicò d'esser lasciato giù, che direbbe la verità. Fu lasciato giù, e disse: La verità è che il Commissario [il Piazza] non ha pratica alcuna meco. Fu ricominciato e accresciuto il tormento: alle spietate istanze degli esaminatori, l'infelice rispondeva: V.S. veda quello che vole che dica, lo dirò; la risposta di Filota a chi lo faceva tormentare, per ordine d'Alessandro il grande, «il quale stava ascoltando pur anch'esso dietro ad un arazzo:» dic quid me velis dicere; e la risposta di chi sa quant'altri infelici.

Finalmente, potendo più lo spasimo che il ribrezzo di calunniar se stesso, che il pensiero del supplizio, disse: Ho dato un vasetto pieno di brutto, cioè sterco, acciò imbrattasse le muraglie, al Commissario. V.S. mi lasci giù, che dirò la verità.

Così eran riusciti a far confermare al Mora le congetture del birro, come al Piazza l'immaginazioni della donnicciola; ma in questo secondo caso con una tortura illegale, come nel primo con una illegale impunità. L'armi eran prese dall'arsenale della giurisprudenza; ma i colpi eran dati ad arbitrio, e a tradimento. Vedendo che il dolore produceva l'effetto che aveva tanto sospirato, non esaudiron la supplica dell'infelice, di farlo almeno cessar subito. Gl'intimarono che cominci a dire.

Disse: era sterco humano, smojazzo (ranno; ed ecco l'effetto di quella visita della caldaia, cominciata con tanto apparato, e troncata con tanta perfidia); perché me lo domandò lui, cioè il Commissario, per imbrattare le case, et di quella materia che esce dalla bocca dei morti, che son sui carri. E nemmen questo era un suo ritrovato. In un esame posteriore, interrogato doue ha imparato tal sua compositione, rispose: diceuano così in barbarìa, che si adoperaua di quella materia che esce dalla bocca de' morti... et io m'ingegnai ad aggiongerui la lisciuia et il sterco. Avrebbe potuto rispondere: da' miei assassini, ho imparato; da voi altri e dal pubblico. [... ]

L'interrogatorio che succedette alla tortura fu, dalla parte de' giudici, com'era stato quello del commissario dopo la promessa d'impunità, un misto o, per dir meglio, un contrasto d'insensatezza e d'astuzia, un moltiplicar domande senza fondamento, e un ometter l'indagini più evidentemente indicate dalla causa, più imperiosamente prescritte dalla giurisprudenza.

Posto il principio che «nessuno commette un delitto senza cagione;» riconosciuto il fatto che «molti deboli d'animo avevan confessato delitti che poi, dopo la condanna, e al momento del supplizio, avevan protestato di non aver commessi, e s'era trovato infatti, quando non era più tempo, che non gli avevan commessi,» la giurisprudenza aveva stabilito che «la confessione non avesse valore, se non c'era espressa la cagione del delitto, e se questa cagione non era verisimile e grave, in proporzion del delitto medesimo.» Ora, l'infelicissimo Mora, ridotto a improvvisar nuove favole, per confermar quella che doveva condurlo a un atroce supplizio, disse, in quell'interrogatorio, che la bava de' morti di peste l'aveva avuta dal commissario, che questo gli aveva proposto il delitto, e che il motivo del fare e dell'accettare una proposta simile era che, ammalandosi, con quel mezzo, molte persone, avrebbero guadagnato molto tutt'e due: uno, nel suo posto di commissario; l'altro, con lo spaccio del preservativo. Non domanderemo al lettore se, tra l'enormità e i pericoli d'un tal delitto, e l'importanza di tali guadagni (ai quali, del resto, gli aiuti della natura non mancavan di certo), ci fosse proporzione. Ma se credesse che que' giudici, per esser del seicento, ce la trovassero, e che una tal cagione paresse loro verisimile, li sentirà essi medesimi dir di no."


I saggi critici ed i saggi storici