Don Abbondio è l'uomo che il coraggio non se lo sa dare §.
E' l'animale senza artigli e senza zanne che ha imparato a
difendersi in un secolo di soverchierie e di prepotenze e che si
difende con l'acquiescenza e la reticenza, obbedendo ai dettami
del più forte e sfuggendo, fra tanti pericoli, quello più
imminente §.
Si è fatto così piccolo e così insignificante che non gli pare
vero, con la sua prudenza, di aver attratto un guaio come quello
dei due bravi che lo attendono per via §.
Anche in seguito, non riuscirà mai a capacitarsi di essere stato
lui a causarsi tali fastidi, e attribuirà la colpa alla povera Lucia, nata per farlo soffrire,
per quanto, anche ai suoi occhi, certamente innocente.
Vive di paure. Quando i lanzichenecchi invadono il ducato, passa
da un timore all'altro e, in questa ridda di pericoli veri ed
immaginari che si figura, non sa più che cosa fare e la
soluzione migliore gli sembra quella di aprire la finestra e
gridare soccorso §;
§; §.
Anche nella notte dei sotterfugi fa la mossa di affacciarsi e
gridare, che pare un suo gesto caratteristico §. Eppure,
quest'uomo privo di coscienza morale che, chissà perchè, ha
fatto la scelta di diventare prete, è anche lui un oppressore §.
Soltanto i ricchi ed i potenti opprimono con le armi. I meschini
ed i deboli opprimono con l'indifferenza per il proprio dovere,
con il sottrarsi, lo scomparire.
La sfiducia di Don Abbondio negli avvenimenti è totale. Egli non
crede, anche di fronte all'evidenza, che l'Innominato si sia
convertito, non crede che l'arcivescovo possa soccorrerlo, non
crede che Don Rodrigo sia morto, non crede di essere abbastanza
difeso in alcun luogo §.
L'unico momento in cui la sua scorza di timori si assottiglia è
quello in cui dialoga con Federigo
Borromeo §,
ma anche allora, se pure le parole del santo risvegliano in lui
una certa commozione, alla sua mente è più forte la realtà del
pericolo §;
§.
Probabilmente la Chiesa è per lui solo un'organizzazione forte
che lo può tutelare, se ai rimbrotti del cardinale il suo primo
pensiero è che questi ha torto a mettere il matrimonio di due
sconosciuti prima della sicurezza di un "suo" curato.
Quando un pericolo è scampato, si sfoga, e allora diventa
volgare. Prossimo a celebrare il matrimonio di Renzo e Lucia,
commenta la grande quantità di sposalizi celebrata ultimamente e
scherza in modo grossolano, affermando che Perpetua, se non fosse morta di
peste, un marito lo avrebbe trovato pure lei §; §.
Il paradosso è che, quando si tratta di fare del bene, saprebbe
che cosa fare.
Quando a Don Rodrigo subentra il marchese suo erede, è proprio
Don Abbondio a dargli i migliori consigli su come venire in aiuto
a Renzo e Lucia §.
I suoi duetti di lagnanze ed invettive contro Perpetua e con
Perpetua sono uno degli elementi più spassosi della narrazione
della prima parte del romanzo. Perché egli è una figura, nella
sua inadeguatezza, veramente comica. La sua comicità gli fa
perdonare la sua pochezza morale, per quanto con una certa
amarezza.
"Il ruolo di Don Abbondio è sempre quello di voce
insopprimibile del reale, di misura comica, straordinariamente
seria e concreta, dell'esistenza che cerca di sopravvivere alla
"burrasca" e difende la verità fisica del proprio
egoismo, il governo angusto ma tenace della propria quiete sempre
braccata dalla paura."
(Ezio Raimondi, "Il romanzo senza idillio")