EUGENIO MONTALE
Meriggiare pallido e assorto
Nel componimento, il poeta descrive l'angoscia esistenziale dell'uomo, condannato a vivere in un mondo incomprensibile dal quale è impossibile ogni evasione. Tutto il brano è centrato sulla simbologia del muro: esso rappresenta, in tutta la sua drammatica concretezza e fisicità, quella barriera di incomunicabilità che percorre la realtà dell'uomo del Novecento. Vivere è camminare a ridosso di una muraglia irta di cocci aguzzi di bottiglia, oltre la quale non è possibile né andare, né vedere.
La lirica è caratterizzata da una serie di infiniti con l'intento di dare una continuità monotona e senza senso dei vari aspetti della vita, nelle loro parvenze labili ed effimere. Questi infiniti designano una situazione di atemporalità, una sorta di "delirio di immobilità", come una parodia dell'azione alla scoperta della incomprensibilità del mondo. La poesia si apre con una riflessione sulla natura e sul paesaggio, passando, poi, ad una più amara e desolata ricerca di un superamento della barriera.
Il muro d'orto diviene una muraglia, secondo una climax che culmina al concludersi del poema. L'autore, infatti, dopo aver meditato sulla realtà che lo circonda, si rende conto che tale limite è invalicabile e, disperato, si accorge che questa chiusura è totale e non offre spiragli: non ci sarà mai dato di conoscere la verità, o di raggiungere la felicità assoluta alla quale aneliamo invano.
Non chiederci la parola
Il poeta si rivolge all'umanità, abituata a farsi guidare dai poeti-vati, e la disinganna affermando di essere egli stesso uomo isolato, come tanti, e smarrito in un mondo incomprensibile e indecifrabile. La normalità della vita è deprecata, dal poeta: chi non si pone angosciosi interrogativi non vive appieno il suo essere uomo.
Montale è consapevole che la poesia non può fornire certezze positive, non possiede formule miracolose capaci di comunicare i più profondi significati della vita, ma offrirci soltanto nostalgia e consapevolezza delle realtà negative dell'esistenza.
L'autore stesso intende far presente che non è in grado di comunicare la verità; nemmeno lui ne è a conoscenza. "Ho sempre bussato alle porte di quel meraviglioso e terribile enigma che è la vita. Sono stato giudicato pessimista, ma quale abisso di ignoranza e di basso egoismo si nasconde in chi pensa che l'uomo sia il dio di se stesso?". In questa dichiarazione di Montale emerge la figura di un uomo chiuso in sé, appagato e lontano dall'avvertire la necessità di un perfezionamento interiore raggiungibile attraverso il dialogo con gli altri. Il poeta condanna l'orgogliosa sicurezza di chi confonde la propria condizione di limitatezza umana con la sublime grandezza degli dèi, e in questo mostra di recuperare il concetto classico della ubris, ossia della tracotanza nei confronti degli dèi, e del medèn àgan, inteso come consapevolezza e rispetto del limite.
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