di: Lorenzo De Carli
"Ciberspazio" è una parola che usano i neofiti dell'Internet oppure coloro che non si sono mai avvicinati alla rete e che, in base al racconto che ne fanno i mass media, immaginano sia davvero un luogo da attraversare in modo simile allo spazio nel quale ci muoviamo tutti i giorni. Chi, per contro, ha acquisito famigliarità con la rete tende a non più usare la parola "ciberspazio", che diventa spia linguistica di una scarsa dimestichezza oppure di immersione totale nella dimensione della rete, condizione questa dei piò ossessionati utenti della rete, quelli per intenderci che più assomigliano ai personaggi che popolano Neuromante, il romanzo dello scrittore William Gibson che ha messo in circolazione appunto la parola "ciberspazio".
Per Case (l'eroe di Neuromante) il ciberspazio non è solo l'orizzonte sul quale si apre lo schermo del computer; e non è soltanto (il ciberspazio) la rappresentazione grafica della geografia della rete mondiale nella quale Case si avventura con lo scopo di penetrarne i punti nevralgici; e non è neppure (il ciberspazio) un mondo per così dire sintetico antagonista al mondo tangibile. Il ciberspazio è qualcosa che emerge in particolari condizioni psicofisiche coincidenti con uno stato di perdita di sè e di totale immedesimazione nella rete. Il ciberspazio non è nelle reti telematiche, ma emerge dalla ricorsiva interazione tra mondo reale e reti; è l'emergere progressivo di un mondo parallelo.
Case non è sempre nel ciberspazio. Il mondo attorno a lui è quello di Blade Runner. E' popolato da esseri ibridi, a mezzo tra naturale e sintetico; esseri che si muovono in scorci metropolitani umidi e caliginosi. Case entra nel ciberspazio quando l'identificazione con le macchine che manipola diventa quasi trasposizione fisica e materializzazione di sè non più nello spazio che solitamente ospita il suo corpo ma nella dimensione delle reti.
Secondo me è utile avere una nozione estensiva del ciberspazio, vicina a quella che ha Case, poichè pensare che il ciberspazio sia solo una dimensione supplementare non permette di cogliere la specificità delle culture cyber legate allo sviluppo della tecnologia.
Se è giusto avere orrore dei fanatici della rete, che vivono totalmente immersi in un mondo immateriale fatto di connessioni, modem, baud, browser, gopher, posta elettronica, ecc.; non è meno giusto nutrire sospetti nei confronti di coloro che ostentano la persuasione di usare l'Internet come fosse il telefono. Dietro questo uso per così dire funzionale della rete, un uso che presuppone la rete al servizio delle pratiche quotidiane, il virtuale al servizio del reale, si nasconde la paura che l'Internet possa essere qualcosa di più del semplice telefono, qualcosa che esce dai limiti nei quali la si vorrebbe confinata; la paura che possa tracimare dagli schermi e invadere il reale. L'uso telefonico della rete, immaginarla come acqua che sgorga dai rubinetti è una forma della "cattiva coscienza".
Ora, io penso che non si tratta di fare delle ipotesi fantascientifiche, immaginando la Grande Rete come una creatura ectoplasmatica che fuoriesce dai computer per strapparci dal mondo reale e fagocitarci nel ciberspazio. Penso semplicemente si debba riconoscere che la rete, diversamente dal telefono, ha la capacità di configurare degli spazi nei quali si può agire. Sono spazi i luoghi d'incontro come i newsgroup; sono spazi i vari siti web; sono spazi i filmati che vediamo scorrere con See You, See Me, o con RealVideo; sono spazi le animazioni tridimensionali; sono spazi le immagini tridimensionali dei siti realizzati con le tecnologie di realtà virtuale. Quando ci si collega al sito web di un'azienda per usufruire di un servizio, transitiamo in uno spazio e giungiamo in un luogo. E in questi spazi, come dicevo, noi agiamo.
E' importante tener conto del fatto che le azioni prodotte nel ciberspazio sono azioni linguistiche. Parlare è fare. Immaginando il ciberspazio come concatenazione di testi, pensare a questa concatenazione come a un tessuto, a una rete appunto (testo e tessuto hanno una etimologia che li rende sinonimi), consente anche di capire come le reti telematiche che oggi innervano la produzione postfordista sono la condizione senza la quale non sarebbe possibile quel contatto diretto tra produttore e consumatori descritto nelle pagine del libro dell'economista americano Jeremy Rifkin intitolato La fine del lavoro. La produzione a rete, tipica del modello Toyota, la messa al lavoro del territorio del capitalismo molecolare, si realizza grazie alle reti telematiche. La rete, dunque, come paradigma forte della svolta del mondo del lavoro ma, secondo me, anche come luogo (il ciberspazio appunto) in cui tendono a trasferirsi attività produttive, distribuzione e consumo in forma linguistica.
Che la realtà virtuale sia un'apologia del reale è un'ipotesi che trova credito della realtà economica. Le imprese che stanno impiegando capitali nelle tecnologie atte a produrre la realtà virtuale non hanno alcun interesse a mutare una realtà che le vede eccellere. E' per questo motivo che, secondo me, non si può nè si deve parlare dell'opposizione reale/virtuale prescindendo dall'esame delle trasformazioni in corso nel mondo del lavoro.
La cosiddetta virtualità è la realtà di un lavoro che mette a produzione innanzitutto le capacità astratte e cognitive dei soggetti, l'azione dei quali non si esercita più in un punto preciso dello spazio e del tempo (la grande fabbrica fordista), ma si scompone in tante molecole che dissolvono le intelligenze singole in un intelletto generale che s'interfaccia col territorio nella forma di rete. Nè si può parlare (come fanno invece gli apologeti del digitale) della virtualità senza riflettere sul processo di trasformazione di ogni merce in atto linguistico veicolabile sulla rete e modificabile mediante il software registrato nei computer, senza riflettere sul quel lavorare comunicando ben descritto dall'economista Christian Marazzi.
Altrove ho sostenuto che se è possibile questo lavorare comunicando e se è possibile questa disseminazione nella rete della nostra identità ciò è dovuto non solo alla natura testuale dell'Internet ma anche alla nostra stessa natura di soggetti testuali, di soggetti che (come dice il filosofo della mente Daniel Dennett) sono centri di gravità narrativa. Il racconto di sè che ciascuno di noi fa è un testo; un testo polifonico, nel quale si avvicendano le voci dei mille altri testi che abbiamo attraversato. Il mio punto di riferimento, qui, è Michail Bachtin. Ma Bachtin non è il solo punto di riferimento. Secondo me, per dare una corretta interpretazione dei fenomeni di compenetrazione tra reale e virtuale, occorre fare riferimento alla nozione di semiosfera usata da un altro pensatore russo: Jurij Lotman.
Chi ha familiarità con la semiotica vede la nostra esistenza immersa in uno spazio dove cose, eventi e fatti s'impongono alla coscienza sotto la specie di segni resi intelligibili dall'attività interpretativa della semiosi. La coscienza stessa, in quanto luogo attraversato da discorsi composti di segni, è immersa nello spazio semiotico.
In questa prospettiva, ogni cosa non esiste di per sè ma solo per il significato, espresso nei termini di una posizione relativa, che essa ha nel contesto di un sistema strutturato, nel contesto del modello di un mondo. Questa sfera semiotica entro la quale le cose e i fatti del mondo acquistano qualità intelligibile è chiamata "semiosfera" da Lotman, il quale ne dà la seguente definizione: "La semiosfera è quello spazio semiotico al di fuori del quale non è possibile l'esistenza della semiosi".
La tendenza della comunicazione globale per mezzo di reti di reti, quale è l'Internet, sembra voler essere il pendant nell'ambito della comunicazione di ciò che è la biosfera in relazione allo sviluppo della materia vivente. Per Lotman, solo all'interno della semiosfera "sono possibili la realizzazione dei processi comunicativi e l'elaborazione di nuove informazioni" e, in effetti, per chi opera nella rete e con gli strumenti specifici della rete solo ciò che in essa cade, mutandosi nella forma di sequenze di bit, può essere di fatto comunicato ed elaborato. "La "chiusura" della semiosfera (dice Lotman) è rivelata dal fatto che essa non può avere rapporti con testi che le sono estranei da un punto di vista semiotico e con non testi". Per Internet le cose non stanno in maniera diversa: così come è necessario tradurre ciò che sta fuori della semiosfera in "una delle lingue del suo spazio interno" (Lotman) affinchè possa essere intelligibile, nello stesso modo ciò che sta fuori della rete deve essere a essa ricondotto per poter essere compreso. In modo analogo a quanto avviene nella semiosfera di Lotman, il grande sviluppo che in questi anni ha conosciuto Internet è stato proprio nei processi di traduzione necessari per assorbire nella rete ciò che, per ora, le è estraneo.
Questi processi sono di natura tecnologica. Per esempio sono i vari tipi di software che consentono di veicolare sulla rete comunicazioni di natura diversa: l'audio, il video, la scrittura; oppure la comunicazione mediata dei programmi per i giochi di ruolo. Ma non solo. Il codice a barre è il paradigma del modo in cui la merce diventa informazione on-line. è chiaro, i linguaggi della merce sono tanti, ma la loro sussunzione sotto il codice a barre introduce una qualità linguistica finora ignota o ne permette una mimèsi digitale. Se occorre pensare alla semiosfera come a un insieme di testi, che vanno dal codice vergato al codice a barre, allora è tanto più pertinente pensare a Internet come la zona dove effettivamente (giacchè ogni testo vi conosce la sua traduzione digitale) si manifesta in pieno la natura semiotica e testuale dell'universo in cui viviamo.
Sotto questa luce, il consolidamento di Internet mostra lo stretto rapporto esistente tra lo sviluppo delle reti telematiche e la natura linguistica della produzione postfordista. Chi usa l'Internet sa bene che ci sono prodotti creati sulla rete, distribuiti sulla rete e consumati sulla rete. I software applicativi per la gestione della posta elettronica ne sono un esempio tra molti.
La contrapposizione tra spazio reale e ciberspazio induce a pensare che lo spazio nel quale siamo tutti i giorni sia omogeneo e uguale per tutti. In un saggio intitolato Eterotopia, Michel Foucault ha invece mostrato che non è affatto così. Pensiamo alla contrapposizione tra spazio pubblico e spazio privato, per esempio; tra lo spazio del tempo libero e quello del lavoro. Il breve saggio di Foucault presenta i lineamenti di una possibile storia dello spazio. Non intendo riassumerla, e preferisco parlare subito delle eterotopie.
Le eterotopie sono spazi ripiegati su se stessi. Spazi a forma di cipolla. Lo spazio generato dagli spicchi è una eterotopia; e così pure lo spazio del treno, il quale è uno spazio che possiamo percorrere ma che è, insieme, uno spazio che attraversa un altro spazio. Pensiamo al Nautilus di Jules Verne. Pensiamo ai cimiteri, i quali, oltrechè essere eterotopie, introducono anche delle eterocronie, perchè il tempo del cimitero introduce una discontinuità nel tempo della vita quotidiana. Il cosiddetto spazio reale non è affatto omogeneo, dunque, come d'altronde ci aveva fatto capire Proust nella Recherche.
Le eterotopie del reale sono entrate nella rete, la quale ne ha fatto rapidamente il modo stesso con cui essa, ora, configura il suo spazio. Il ciberspazio esalta la disomogeneità dello spazio fuori della rete, e la rassicurante idea di autostrada dell'informazione come di una via che passa attraverso un territorio esteso, sì, (magari sino all'infinito) però omogeneo, nasconde un luogo che (proprio come le eterotopie del mondo reale) è fatto della inquietante compresenza di piò luoghi.
Già lo schermo del computer, di per sè stesso, nel momento in cui è collegato alla rete è una eterotopia. Introduce nella apparente omogeneità di una stanza uno spazio del tutto peculiare, infinitamente ripiegato su sè stesso. E' un non-luogo che diventa un punto di fuga, una alterazione dello spazio che si offre come pertugio o come finestra su una realtà nuova.
Sennonchè, rispetto allo schermo televisivo, dopotutto, (secondo Jean Baudrillard) si è solo limitato a sostituire la realtà, lo schermo che si affaccia sulla Grande Rete apre un luogo nel quale, grazie alla interattività della rete, ci rende attori tra altri attori. Ci fa percorrere spazi che, se pure non hanno la qualità tangibile dello spazio nel quale si trova il nostro corpo, sono spazi non meno reali perchè ci coinvolgono emotivamente e cognitivamente con altri soggetti come noi.
É la natura metamorfica degli schermi che offre espressione alla eterotopia della rete. Questa qualità polimorfa degli schermi fa sì che, nello stesso tempo, noi si possa seguire la discussione in un newsgroup, ricavare una finestra per ospitare un programma di chat; osservare un sito di realtà virtuale (del quale discutiamo usando la posta elettronica), e contemporaneamente, usando il web, possiamo interrogare un motore di ricerca per trovare altri spazi sui quali discutere. Ecco, dunque, che la rete ha mille piani che sullo schermo del nostro computer appaio come altrettante finestre. Ogni finestra è prodotta da un programma applicativo diverso. Ogni finestra si apre su uno spazio peculiare e possiede peculiari coordinate temporali. Eterotopie, dunque, ma anche eterocronie; e in ogni finestra spazio e tempo si compenetrano concentrando o dilatando l'uno, oppure accelerando o rallentando l'altro, i quali (compenetrati) formano dei punti che (riferendoci a Bachtin) potremmo definire cronotopi.
E nel frattempo la rete ci ha irretiti. L'eterotopia della rete, prima circoscritta nello schermo del computer, è tracimata e ha occupato tutto l'orizzonte della nostra attenzione e ci accorgiamo che la navigazione nella rete non era funzionale allo spazio fuori della rete, ma abbiamo parlato con personaggi nella rete, di cose della rete, menzionate nello spazio della rete e visibili solo nella rete.
La tendenza in corso (basta osservare lo sviluppo dei sistemi operativi) è quella di non far più percepire soluzione di continuità tra la rete e il nostro computer. L'irretimento è surrettizio ma inscritto nell'evoluzione del software.
Ora, davvero io penso che, se non è collegato alla rete, il nostro computer è un po' come la siepe che dall'ultimo orizzonte lo sguardo esclude, perchè la rete è un po' come l'infinito leopardiano. Nondimeno penso anche che la rete non è affatto al nostro servizio ma uno spazio nel quale molti di noi stanno trapassando per acquisire una identità nuova o, forse, identità multiple.
Lorenzo De Carli
© 1998 Lorenzo De Carli - © 1998 ARPA Publishing. Tutti i diritti riservati. Riproduzione vietata.
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