CAPITOLO XXVIII selezione di brani dal testo |
Dopo il tumulto di San Martino, per un momento si ebbe
l'impressione che a Milano fosse tornata l'abbondanza.
Il pane veniva venduto in quantità ed a prezzo normale.
Il popolo vuole conservare i benefici acquisiti con la violenza,
ma ciò significa sprecare beni che devono bastare fino alla
successiva raccolta e di questo il governo è consapevole. Oltre
a ciò, quattro persone sono impiccate in seguito alla rivolta.
Nell'inverno del 1628 si abbattè sul paese la carestia, dato che
i governanti non si erano preoccupati di far giungere dall'estero
un quantitativo di granaglie sufficiente a soddisfare il
fabbisogno della popolazione.
Manzoni traccia un quadro di
desolazione del ducato e della città, descrivendo le
botteghe chiuse, le fabbriche deserte, le strade in cui
si moltiplicano gli accattoni. Anche i nobili camminano col capo basso e vestiti in modo dimesso ed i contadini si affidano alla munificenza altrui. In tanto scoramento e in tante difficoltà, il cardinale Borromeo si adopera per soccorrere i più sventurati. Ogni mattina invia tre coppie di preti con facchini a portare vivande e vestiario. Essi si aggirano per la città per distribuirli fra i bisognosi. Nel palazzo arcivescovile si distribuiscono scodelle di minestra e di riso. |
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Ciononostante la miseria aumenta ovunque e c'è gente che
esce da Milano per cercare soccorso, mentre altra vi entra per la
stessa ragione, cosicchè vi sono due file di mendichi che si
muovono in direzioni opposte.
Trascorrono così l'inverno e la primavera e il tribunale della
sanità, temendo un contagio, propone di provvedere alla salute
pubblica radunando tutti gli accattoni, sani e malati, nel
lazzaretto.
Qui i ricoverati salgono presto a cifre incredibili. La
promiscuità, la malnutrizione e la scarsità d'acqua vi fanno
alla fine scoppiare il contagio.
Il tribunale prende a questo punto lo sconsiderato provvedimento
di far uscire dal lazzaretto quelli che appaiono sani. Questi
fuggono via "con una gioia furibonda" e vanno a portare
malattie nella città.
Intanto, sui campi le messi maturano e la carestia cessa, ma
all'autunno giunge un nuovo flagello: la peste.
Manzoni inserisce a questo punto altre notazioni storiche. Don Gonzalo abbandona
l'assedio di Casale dopo la disfatta del duca di Savoia.
L'imperatore Ferdinando, visto che Carlo Gonzaga non lascia i
territori di Mantova, invia un esercito per scacciarlo.
Alessandro Tadino, medico milanese, fa presente a don Gonzalo che
l'esercito che si accinge a calare nel ducato potrebbe diffondere
la peste, ma il governatore risponde che i motivi di guerra per
cui i soldati vengono mobilitati sono più importanti delle
dicerie sul contagio.
Don Gonzalo, inetto e nocivo ai suoi governati, viene rimosso
poco dopo dalla carica, forse per il procedere negativo della
guerra, forse per la fame che ha fatto soffrire al popolo.
Esce da Milano accompagnato dalla sua scorta e vilipeso dalla
folla.
Giunge, come suo sostituto, il marchese Ambrogio Spinola, un
generale italiano al servizio dello straniero.
Nel settembre del 1629 l'esercito imperiale entra nel ducato di
Milano. Si tratta in gran parte di soldati di ventura che
vogliono far bottino e devastano il ducato e la città.