CAPITOLO XXXI selezione di brani dal testo |
Il tribunale della sanità ed il medico milanese Tadino
avevano avvertito le autorità che la peste si sarebbe diffusa
nel ducato portata dai Lanzichenecchi, e ciò avvenne.
Manzoni a questo punto avverte il lettore che si sforzerà di
compiere opera di storico e di ricostruire, sulla scorta di
relazioni autentiche e di documenti ufficiali, l'aspetto di
quella terribile epidemia, considerando gli avvenimenti e
studiandoli con metodo, nella loro "successione di causa e
d'effetto, di corso, di progressione."
Le prime avvisaglie dell'epidemia si
erano avute lungo il territorio che era stato percorso
dall'esercito, dove si trovavano cadaveri nelle case e
lungo le vie. Non molto tempo dopo si cominciò a notare che nei villaggi e nella città la gente moriva di mali violenti ed inspiegabili, che parevano suscitare una qualche reminiscenza solo in coloro che erano sopravvissuti alla peste del 1576, fra i quali si trovava il famoso medico Lodovico Settala, il quale, fra i primi, corse a denunciare l'epidemia al tribunale della sanità, ma non venne ascoltato. Nell'ottobre del 1629 le autorità alla fine disposero nel territorio di Lecco e di Bellano, un'inchiesta che si chiuse con un referto negativo basato sulla testimonianza di un ignorante barbiere. |
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Ma le notizie di morti improvvise continuavano a giungere,
cosicchè il tribunale aprì una nuova inchiesta, inviando un suo
uditore insieme al medico Alessandro Tadino in varie località
che erano state toccate dal percorso dei Lanzichenecchi.
Questa volta il risultato dell'indagine svelò che si trattava
effettivamente di peste, ma i provvedimenti che si poterono
prendere furono lenti ed inadeguati.
Il 14 novembre il tribunale della sanità incaricò Tadino di
esporre la situazione al governatore Ambrogio Spinola, il
quale tuttavia ritenne più urgente occuparsi dell'andamento
della guerra, anzi, consentì poco dopo che si tenessero i
festeggiamenti per la nascita del principino Carlo senza prendere
alcun provvedimento speciale.
Qualche mese più tardi lo stesso Spinola sarebbe stato colpito
dalla peste.
I Milanesi per molto tempo non credettero al contagio ed
all'epidemia, ritenendo piuttosto che le morti misteriose fossero
dovute ai disagi della carestia.
Questo atteggiamento di negazione dei fatti prevalse anche nel
Consiglio dei decurioni ed in tutti i magistrati. Soltanto il Cardinal Federigo
diede ordine ai parroci di segnalare i casi sospetti e di
consegnare gli oggetti ritenuti infetti.
Tadino e Ripamonti
scrivono che ai primi di novembre del 1629 un soldato italiano al
servizio della Spagna entrò in Milano con un fagotto di vestiti,
si fermò alla porta Orientale e qui cadde esanime e venne
trasferito in ospedale. Prima che morisse, gli venne scoperto un
bubbone sotto un'ascella.
Il morbo colpiva lentamente ed i casi erano ancora rari, fatto
che confermava il popolo nella sua stupida fiducia che non vi
fosse l'epidemia.
Anzi, i medici che denunziavano la presenza della peste erano
vilipesi ed insultati dalla plebaglia, e ciò avvenne al Tadino
ed anche all'ottuagenario Lodovico Settala, accusato di essere il
capo di quanti "volevano che vi fosse la peste".
L'incubazione dell'epidemia proseguì nell'inverno 1629-30, ma
nel mese di marzo la malattia prese a diffondersi rapidamente dal
borgo di Porta Orientale in ogni quartiere, questa volta
manifestandosi con segni evidenti, bubboni, lividi, deliri.
Si giunse alla conclusione eufemistica che non si trattasse di
peste ma di "febbri pestilenziali", poi si diffuse
definitivamente la certezza.
Il lazzaretto si riempì, i magistrati decisero di provvedere in
qualche modo, ma si procedeva con lentezza.
Alla fine la gestione dell'ospedale viene affidata ai cappuccini,
sotto la guida del padre Felice Casati.
La gente, proterva, insisteva nel cercare un'altra causa del
morbo e questa volta ebbe l'idea di tirare in ballo il
soprannaturale. I venefici, le congiure di gente che avrebbe
sparso la malattia come un veleno, l'opera degli untori.
Si diffuse la voce che fossero stati unti panche e seggi del
duomo, diceria confermata da un assurdo scherzo di qualche giorno
dopo, che vide qualche malintenzionato o qualche burlone ungere
di un liquido appiccicoso muri e porte di molte case.
Le autorità verificarono che si trattava di una sostanza
innocua, ma non riuscirono a trovare alcun colpevole di quel tiro
che aveva contribuito a diffondere il terrore fra la massa.
La gente comunque continuava a non voler ammettere che la peste
ci fosse.
L'espediente a cui ricorsero le autorità per convincere gli
increduli fu quello di far portare un carro scoperto, sul quale
erano ammucchiati i cadaveri di una intera famiglia morta di
contagio, al cimitero di San Gregorio, dove i contadini erano
riuniti nel giorno della Pentecoste a pregare per i morti del
contagio precedente.
La gente inorridì e si convinse della presenza del male, ma la
peste ormai era scoppiata.