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Vox in Side

Il Fingitor Cortese
Il Dubbio dell'Eco, e L'Ornitorinco rispose. di Luigi Granetto

Sono un animale parlante che legge Umberto Eco.
Il mio pensiero non può definire ma può annusare le parole; qualcosa di simile a quello che voi
chiamereste tradurre, e che la mia razza chiama fingere.
Negli animali della mia specie, la natura (con questo suono noi fischiettiamo una canzone nella
quale voi sareste capaci di sentire i tromboni dell'Essere) ha sviluppato la capacità di fingere
per fini non del tutto filosofici ma certamente necessari.
I miei antenati, discendenti, pare, dai plesiadapidi, fingendo suoni della natura, gesti e versi di
altri animali col nobile fine di mangiare prima d'essere mangiati, finirono con il convincersi dell'utilità
di questa loro predisposizione all'ingordigia.
Essi scoprirono ben presto che la finzione li portava ad essere ogni giorno un animale o una cosa
differente, fino a che, un bel dì, forse per scherzo, finsero anche la differenza.
Una leggenda, da noi molto strimpellata, racconta che si riunirono in un luogo adatto per addestrarsi
nelle più spericolate e cialtronesche finzioni, ricoprendo alternativamente il ruolo di attori e di spettatori,
per farsi l'immagine della differenza.

A poco a poco quest'immagine diventò così credibile che fini' con il condizionare addirittura il
funzionamento del loro cervello, rendendo plausibile l'attività astratta come reale.
Anche se l'avrebbero scoperto molto più tardi, avveniva in loro quel fenomeno naturale
d'adattamento all'ambiente che fa si che i pesci siano dotati di branchie e gli uccelli di ali, con in più
la simpatica facoltà di potersene vantare.
Man mano che la loro capacità cranica aumentava, ebbero sempre meno bisogno di utilizzare
gli altri organi, fiutarono di meno, corsero di meno, urlarono di meno ma pensarono molto, molto di piu'.

Fu cosi' che la concatenazione verticale di finzioni sempre più astratte diede loro l'impressione,
esaltante e penosa, d'allontanarsi da un origine che da quel momento i più creduloni avrebbero
considerato con nostalgia o, in qualche raro caso, con disprezzo.
A posteriori si era in loro manifestata la memoria, e con essa quel sofisticato meccanismo
che trasforma l'abitudine a lottare per la bistecca nella predisposizione a litigare per delle finzioni astratte.
I litigi continui per motivi così futili finirono col procurar loro un' improvvisa e incomprensibile insicurezza,
una sensazione nuova, simile a quella che prova un elefante che abbia la disavventura d'incagliarsi
con le sue formidabili zanne in un passaggio troppo stretto; sentirono l'impaccio di quell'organo
che era sembrato così utile; ne percepirono l'esistenza.

Le funzioni differenziali del sistema neurologico, a loro insaputa, avevano elaborato un meccanismo di
autoregolamentazione del sistema stesso, facendo emergere informazioni di tipo dubitativo
capaci di inibire i disturbi psicotici generati dall'eccesso di finzioni allucinatorie.
Probabilmente, quella nostalgia del luogo certo, contrapposta ai continui tentativi,
con relativi catastrofici errori, per ritornarci, aveva provocato nella loro mente i primi disordini ideativi,
la quale, affannosamente, si sfini' per trovare qualche immagine di riferimento che non avesse quell'aspetto
angoscioso dell'ennesima finzione.
Compito non facile per chi aveva affidato all'imbroglio il suo sistema di sopravvivenza.

Con il dubbio, la finzione di esistere, come entità indipendente dal tutto coagulato, generò
l'immagine polisensa di se stessa. La quale, a sua volta, cercò, con alterna fortuna, di selezionare
le finzioni concatenabili dubitativamente per somiglianza e differenza, secondo un sistema ritenuto
congruo, ordinato, capace di connettere a sé immagini ritenute incongrue.

Per far questo la mente di quegli animali fu' costretta un'altra volta a fingere. Finse d'abbandonare
il luogo che la rese possibile per spostarsi in un punto d'osservazione periferico, dal quale si potesse
far coincidere la visione con il sistema congruo prescelto.
Scelse cosi' la possibilità di osservarsi solo attraverso un' immagine riflessa, che restituiva
la sua stessa immagine deformata attraverso le regole di quel sistema.
Aveva cosi' scelto un imbroglio tanto vero che gli permetteva una sincerità menzognera.

Quegli animali si abituarono a vivere al cospetto della propria immagine deformata, trascinando con sé
la natura che li aveva partoriti, trasformandola in una fantastica, mutevole allegoria.
A questo punto però, seguendo un istinto ingordo, invece di accontentarsi di quel paradiso terrestre
che si erano così bizzarramente costruiti, vollero conoscere il dubbio come avevano conosciuto la finzione.
Ma il loro pensiero non si era evoluto come quello del professor Eco, non era abilitato a produrre definizioni,
non potendo definire il dubbio lo dipinsero e lo intagliarono come una maschera che aveva il dono meraviglioso
di saper scegliere.
La maschera del dubbio, quest'impensato regalo, fu all'inizio solo una maschera allegra, perché permetteva di
scegliere, in quel coacervo d'immagini che rappresentavano la natura, solo le più utili.
Man a mano che il meccanismo della scelta, come gia' quello della finzione, si astratizzava allontanandosi
dalla sua origine, dava anche ai miei antenati la possibilità d'associarlo al loro gioco preferito,
quello di provare la loro forza, quello di competere con finzioni sempre più astute, sempre più pericolose.

Fino a che non era sopraggiunta la maschera del dubbio, le immagini comparivano
come un insieme di associazioni non oppositive ma addizionabili.
In un sano agonismo fra immagini poteva accadere che un' immagine vincesse
per aver qualcosa in più rispetto all'altra. Era come un movimento cellulare in cui l'attacco di una cellula
si risolveva sempre con un inglobamento.Non era infatti credibile immaginarsi qualcosa che,
pur non assomigliando a niente, aveva il potere di far sparire tutto quello che toccava.

Con la maschera, il meccanismo della scelta s'avvitava su se stesso,
provocando un' allucinazione peggiore di tutte quelle che avevano sperimentato.
I miei antenati provarono una sensazione terribile,
un nuovo dolore per un' immagine che non aveva volto, per una pura dissolvenza di tutto l'immaginabile:
sentirono fisicamente la presenza dell'abisso, del vuoto, della vertigine, e......si disperarono.
Ma quel dolore sordido, quella maschera senza faccia divenne ben presto, da urlo lanciato
verso l'immenso che non risponde, messaggio recepibile dal cervello,
quella parte così vicina...così distante.

La risposta questa volta fu' piuttosto crudele, ma, per noi animali nomadi senza definizioni,
abbastanza accettabile.

Si trattò di abituarsi ad avere esperienze emotive, non rinunciando alle finzioni
ma a quelle immagini immediate, anche se distorte, dalle quali erano state rese possibili.
Si trattò d'associare immagini a quel vuoto inesplicabile per rendere possibili strani simulacri che,
in determinate situazioni, avrebbero sostituito l'antico legame con quel tutto coagulato dal quale
questa strana avventura aveva avuto inizio.

Lentamente ma inesorabilmente quei miei antenati, con la rabbia del mendicante
che maledice il suo benefattore, con l'odio del guerriero che medita una rivincita,
impararono ad articolare dentro di sé delle idee e fuori di sé delle parole.
E, come avevano fiutato di meno, corso di meno per pensare di più,
ora immaginavano di meno, sentivano di meno, per conoscere di più,
se quella poi era "la conoscenza".

Chi mi ha seguito fin qui, si sarà accorto che senza la più miserabile delle spiegazioni,
ho continuato a spostare gli obiettivi, dimenticandomi dell'oggetto per il quale questa scrittura,
condita con quella di Umberto Eco, può essere annusata.
Fra le leggi biologiche che sovrintendono il funzionamento del nostro corpo,
ve ne sono due della massima importanza.
La prima afferma che la spiegazione è quel virus che impedisce alla narice di fiutare.
La seconda afferma che la conoscenza serve:
A) a suicidarsi per soffocamento qualora si volesse conoscere la conoscenza;
B) non solo a mangiare ma soprattutto a bere;
C) a non dimenticare che, per conoscere, bisogna scrivere dei copioni con trame provvisorie;
D) a seguire l'ordito di quella trama verosimile che la nostra scienza animala
e le nostre leggende bestiali ci tramandano.

Seguire un ordito non e' da tutti. C'è, è vero, chi lo fa ad occhi chiusi, come i famosi ciechi vedenti;
ma quanti, come noi, obbligati a tenere ben aperti gli occhi, se non altro
per non inciampare in tutti quegli attrezzi così utili alla recitazione, ma anche così
tremendamente ingombranti da sembrare superflui, si devono adattare a quell'arte mimetica,
prossima alla saggezza, del fiutar l'orma nemica.

L'orma, la traccia, il segno hanno sempre un rapporto biforcuto sia con l'utilità-inutilità del reale,
sia con i mezzi per comprenderlo.
Abbiamo infatti imparato, a forza di delusioni, che essi stentano ad armonizzarsi con i nostri desideri,
specialmente quando, inseguendo la mania di truccare le regole del gioco, ci vogliamo convincere
di una qualche necessità dei desideri.
Il desiderio, finzione fra le più pericolose, la maggior parte delle volte inganna se stesso
mentre inganna gli altri, lasciandosi imbrogliare dalla stessa finzione che si era costruito.
E' questa una delle tante fischiettate per le quali, non solo diffidiamo della storia
e ci teniamo lontani dalle spiegazioni, ma siamo portati a soprassedere con intermezzi danzanti,
quando un racconto, inceppandosi, non trova di meglio che mettersi a cincischiare
di quel luogo primigenio dal quale eravamo partiti.

L'evocazione di quel luogo, pur essendo un effetto speciale molto gradito al pubblico,
probabilmente per la sua analogia con le sceneggiate di successo dedicate alla mamma,
scatena vere e proprie forme maniacali
che a lungo andare sfociano in attività patologiche particolarmente gravi.
Fra le varie nefaste conseguenze dell'immorbarsi di queste psicoastenie, due ci sembrano
particolarmente dannose: la mania mistica e quella definitoria-evoluzionistica.
La prima ci sottrae spettatori, i quali trovano più economico assistere a un teatro
inventato e recitato da se stessi, che sopprima tutto ciò che reclamerebbe
lo sforzo di pagare un biglietto:
a un tutto complesso essi oppongono un niente semplificante.
La seconda crea degli spettatori più fastidiosi dei mangiatori di pop-corn,
gente nevrotica, con la fissa del prima e del poi, sempre pronta ad acclamare il primo attore,
non riuscendo neanche ad accorgersi che di lato,
nella penombra, un inaspettato pugnale, di li' a poco, dominera' la scena
nelle mani dell'ultimo dei caratteristi.

La nostra capacità di trarre informazioni dall'osservazione delle orme
ci ha abituato a rinunciare a qualsiasi pregiudizio lineare e consecutivo;
preferiamo allenarci alla sorpresa quasi come fosse una realtà famigliare.
Comprendiamo molto bene che la specie, alla quale appartiene Umberto Eco,
per simulare se stessa abbia bisogno d'attaccarsi, come Munchausen, al proprio codino,
ma ci è difficile capire perché vogliono convincersi, così a buon mercato,
che basta innalzare la necessità sopra la stessa finzione per sentirsi tranquilli.

Il discorso sull'esistenza di quel luogo dovrebbe essere lasciato solo a noi animali
che sappiamo come l'oblio sia una forma della memoria, la quale, a sua volta,
è la forma più alta della maschera del dubbio.
Quel luogo, per essere evocato, ha bisogno che l'eternità, invulnerabilmente,
s'inabissi nell'innominabilità,
punto e basta!
Non si può confondere il fastidio che abbiamo provato davanti all'aporia del dubbio con la presenza
di un luogo intorno a noi, e ci sembra abbastanza sciocco camuffare con simboli, metafore, gesti, suoni
o, peggio, con ridicole e antiteatrali concettualità matematiche, quella che sappiamo
essere poco più che una malattia.

Che l'uomo surroghi la vita con il linguaggio - " che muta la sua parola nella sua stagione e la modella"
come direbbe il vostro Ezra Pound - è già abbastanza triste; e non si sente proprio il bisogno che esageri
col traslare i suoi mediocri problemucci sulla raffigurazione del linguaggio, anche quando lo vuol presupporre
nel vuoto di Mosè o intorno all'isola di Utopia.
Se qualche cosa noi animali abbiamo imparato, con il deambulare sulla nostra trama, è quello
di non fidarci dei rapporti consequenziali, di non scaricare su di un inizio
quello che non comprendiamo di una fine,o peggio di voler presupporre un inizio simulando la fine.
Intorno a noi il tempo atmosferico, così proficuamente mutabile
con le sue piogge improvvise e i suoi tuoni risveglianti, ci aiuta ad uscire dalle illusioni
che costruiamo per lo spettacolo:
come il tempo lineare utile per far nascere e morire qualche personaggio, o il tempo ciclico
necessario per dargli la possibilità di rinascere dalla sua tomba, il che fa sempre il suo bell'effetto.

La nostra natura di bestie nomadi, presupponendo l'esistenza di un luogo del principio,
ci spinge a non tradirla,a cercare di non bagnarci due volte nella stessa acqua,
lasciandoci liberi di rappresentare le nostre ucranie, mentre la verosimiglianza, ci risponde,
dal coro, con il suo controcanto.

Se voi uomini avete bisogno di consolarvi pensandovi un sogno di un Dio che ha dietro a se
un altro Dio che crea la trama, imparate almeno a sognare senza intasare le cliniche psichiatriche
o gli scafali della biblioteca:
imparate da noi che anche per la finzione c'è bisogno di sogni che le somiglino.

 

Lingua & Ginnastica
Pubblicheremo i vostri interventi, sopra, in mezzo e sotto i temi proposti in
Epistoesercizi

L'Anello che non tiene
sputi controvento-rime con novecento,
ornamenti della distanza,
ad culum parandum, musica e letteratura, cembali e fender

Il Latitudinario Bifronte
(Animalus Felix Lector)


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