UN FRAMMENTO
"
DELL'UNITA' DELLA LINGUA"

"Chiunque poi, e a qualunque provincia d'Italia appartenga, desiderasse d'aver di ciò qualche prova di fatto, non ha che a frugare nella sua mente, e troverà senza fatica un'altra quantità da opporre a quella che abbiamo riconosciuta dianzi, cioè una quantità di cose che nomina, di concetti che esprime abitualmente, e con de' boni perché, sia in Veneziano, sia in Napoletano, sia in Bergamasco, sia in Parmigiano, sia in Sardo, e via discorrendo; e la locuzione corrispondente in una lingua italiana di fatto la cercherà invano. Nascendo il bisogno, ne uscirà certamente in qualche modo: o per mezzo di un gallicismo, o d'una perifrasi, o col defìnire invece di nominare, o adoprando un termine di senso affìne, o generico, dove il suo idioma glie ne dava uno proprio e specifico. Ma sono queste le condizioni di una lingua?

Dello stesso valore è la supposizione che una lingua italiana s'abbia a trovar negli scritti.

Non vogliamo negare, neppure in questo caso, che anche lì ci sia una quantità di locuzioni identiche. Ma per aver ragione di negare che una tal quantità costituisca un tutto, e un tutto omogeneo, non abbiamo neppur bisogno di ficcar l'occhio in quel guazzabuglio di significati che, a cagione de' diversi pareri, si comprendono, o piuttosto litigano tra di loro in quella parola "scritti": tutti gli scritti, o una tale o una tal'altra parte scelta; scritti d'ogni età, o d'un secolo o di due; di tutta l'Italia, o di una parte sola; scritti che da persone tutt'altro che ignoranti, sono vantati e proposti per modelli di bellissima lingua, e da altre persone tutt'altro che ignoranti, sono chiamati caricature. E questo, con dell'altro, è ciò che a molti pare d'aver ridotto a un'unità col dire la lingua degli scrittori, ovvero la lingua scritta. Ma per il nostro assunto basterà, anche qui, una domanda: come mai una lingua (che è quanto dire una lingua intera) si potrà ritrovare in quel tanto o quanto, che ad alcuni e molti e moltissimi, se si vuole, ma pur sempre alcuni a fronte d'una intera società, sia venuto accidentalmente in taglio di mettere in carta?

La cagione originaria di tutte quelle e d'altre simili opinioni è stata l'aver principiato dal cercare quale fosse la lingua italiana, senza aver cercato cosa sia una lingua, per veder poi se ce ne fosse una italiana, adequata al concetto logico di questo vocabolo.

Una seconda obiezione che ci troviamo a fronte, è: che ciò che si vuole per l'Italia è una lingua; e il linguaggio di Firenze non è che un dialetto.

Questa antitesi non è altro che un cozzo di parole male intese, e che, in questo caso, non corrispondono ad alcun fatto reale.

Ci possono essere bensì, e ci sono, de' dialetti, nel senso di parlari che si trovino in opposizione e in concorrenza con una lingua. E ciò accade presso quelle nazioni, dove una lingua positiva, riconosciuta unanimemente, e diventata comune a una parte considerabile, e particolarmente alla parte più colta delle diverse province, sia riuscita a restringere in un'altra parte di esse più rozza, e che va scemando ogni giorno, l'uso di quelli che, prima dell'introduzione d'una tal lingua, erano gli unici linguaggi delle diverse province. A questi sta bene il nome di dialetti. Ma tra di noi, invece, i vecchi e vari idiomi sono in pieno vigore, e servono abitualmente a ogni classe di persone, per non esserci in effettiva concorrenza con essi una lingua atta a combatterli col mezzo unicamente efficace, che è quello di prestare il servizio che essi prestano. E a quella che lo potrebbe si oppone a sproposito il nome di dialetto, per la sola ragione che non è in fatto la lingua della nazione: cosa tanto vera quanto trista, ma che non ha punto che fare con l'essenza d'una lingua. Nel 987, che fu l'anno in cui Ugo Capeto, duca di Francia e conte di Parigi, fu incoronato re de' Franchi, il francese non era certamente la lingua d'una nazione: lo poté divenire, perché, entro que' primi confini, e con quella copia e qualità di materiali, che dava il secolo decimo, era una lingua viva e vera.

Fino a che una lingua d'ugual natura non sia riconosciuta anche in Italia, la parola dialetto non ci potrà avere un'applicazione logica, perché le manca il relativo.

Altra obiezione, l'enormità del pretendere che una città abbia a imporre una legge a un'intera nazione.

Imporre una legge? come se un vocabolario avesse a essere una specie di codice penale con prescrizioni, divieti e sanzioni. Si tratta di somministrare un mezzo, e non d'imporre una legge. Essendo le lingue e imperfette e aumentabili di loro natura, nulla vieta, anzi tutto consiglia di prendere da dove torni meglio o anche di formare de' novi vocaboli richiesti da novi bisogni, e che l'uso non somministri.


Studi sulla questione della lingua