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SUPERCARWASH
di: Loris Dalla Rosa

Azionò i tergicristalli alle prime gocce del mattino uggioso di gennaio, nel malumore di una nottata insonne e di una giornata impegnativa, che lo avrebbe portato a Padova, all’assemblea triveneta dei piccoli imprenditori. Prese a sinistra, verso l’autostrada, superò sulla destra le prime auto mattiniere, che già intasavano la corsia verso la zona industriale, accostò in prossimità della piazzola, in vista del distributore dell’autolavaggio e del bar annesso. Parcheggiò, entrò nel piccolo locale, ancora sporco dalla sera prima. Comperò il giornale, lo sfogliò svogliatamente avvicinandosi al banco, ordinò un caffè doppio.
Il cameriere era un giovane ciarliero, dall’aria innaturale nella giacca attillata, camicia linda e farfalla, abbigliamento più consono alla sera, degno di un locale di maggior pretese. "Hai letto la notizia?". L'imprenditore alzò gli occhi, risentito per l’improvvisa confidenza; poi si accorse che la domanda non era rivolta a lui, ma all'uomo dalla tuta blu, che puliva un angolo del locale. "Una medaglia. Una medaglia gli dovrebbero dare a quello lì!", rispose l’uomo con voce imperiosa. Erano le 7.19 e fuori il traffico s’ingrossava. "Eh già", diceva il cameriere, "spero proprio che non lo prendano!". L’imprenditore calcolò che poteva fare tutto con comodo: non era segnalata nebbia sulla A22, massimo in due ore sarebbe stato a Padova, anche tenendo conto dei rallentamenti dell’ora di punta. S’accomodò ad un tavolino, estrasse una calcolatrice tascabile, fece alcuni conti. Doveva trattarsi di una decina di milioni; ma prima doveva chiedere conferma al suo commercialista, sapere il reddito imponibile preciso, poi trovare una soluzione adeguata e rientrare nello scaglione fiscale immediatamente inferiore. Richiuse la calcolatrice, sorseggiò il caffè con calma. Entrò una coppia, marito e moglie in tute da sci sgargianti, con un figlioletto sui sei anni dall’aria ancora assonnata. L’uomo attraversò il locale con passo deciso, battè il giornale sul banco, con gesto allegro e vigoroso, ordinò tre colazioni, "Spero proprio che in montagna non piova, altrimenti settimana bianca rovinata!", disse rivolto al cameriere, che sembrava conoscere. "Come va, caro Giovanni?", chiese senza attendersi risposta. Poi diede uno sguardo al giornale, "Extracomunitario travolto da auto. Il pirata della strada è attivamente ricercato", lesse a voce alta. "Ma dov’è successo?", si informò. "Tre chilometri qui sotto, al cavalcavia dell’autostrada", rispose il cameriere, sciorinando poi tutto ciò di cui era a conoscenza. Non si sapevano i particolari, perchè il fatto era successo verso le dieci di sera, ma l’uomo era quell’africano già noto alla polizia, spacciatore di droga, presunto responsabile della morte di Lucia Moretti, la diciottenne morta di overdose sei mesi prima, se lo ricordava il fatto? "Ma adesso sono le sette e mezza. Dovrebbero dire qualcosa". Accese la radio, la sintonizzò sull’emittente locale. Si era appreso che l’uomo era morto dissanguato, il pirata della strada non era stato ancora rintracciato, c’era la conferma che si trattava di Antoine Kalima, il senegalese già noto alle cronache locali. "Ah beh, allora poco male!", disse l’uomo in tenuta da sci. "Papà, cos'è un senegalese?", chiese il bambino dalla tuta rossa, che la curiosità aveva improvvisamente risvegliato. "Beh..., una specie di marocchino", farfugliò il padre. "E un marocchino è un uomo come noi?", riprese il bambino. "Dai, dai. Che la neve ci aspetta!", tagliò corto spazientito l’uomo, sospingendo con decisione il figlio verso l’uscita. Si alzò anche l’imprenditore, pagò, uscì nell’aria umida e pungente. Era ancora presto per chiamare il commercialista e volle occuparsi personalmente della pulizia dell’auto. Data l’ora e la pioggerella, che adesso era più fitta, non c’era nessuno all’autolavaggio rapido. Accostò all’aspirapolvere, piegò con cura il cappotto color cammello e lo depose sul sedile posteriore, asportò la polvere interna, le tracce di fango della sera prima. Poi guidò all’imbocco del tunnel di lavaggio, pagò in anticipo all’uomo dalla tuta blu che era sopraggiunto, lasciandogli una buona mancia. Rimase in auto, allentò il freno a mano, fu risucchiato dagli spazzoloni che rombavano sui fianchi della carrozzeria, sul tettuccio, sotto lo scroscio della pioggia artificiale. Cercò un appiglio, una distrazione dal leggero senso di claustrofobia che l’invadeva, lanciò uno sguardo al giornale sul sedile di fianco. Sì, poteva essere buona l’idea di un’elargizione al centro sociale "Nelson Mandela", l’associazione locale che si occupava di immigrazione. Una decina di milioni, quel tanto che bastava per scaricare il più possibile dalle tasse. Volle utilizzare quei minuti morti per contattare il commercialista, ma lì sotto non c’era segnale telefonico. Allora lo colse improvviso il sottile panico d’essere solo con se stesso, penetrò nel buio del tunnel e in quello non ancora rimosso della sera prima, in balia di un meccanismo inarrestabile e della dinamica oscura della sua coscienza. Usciva dal tunnel poco dopo il casello dell’autostrada, lo accostò una vecchia mercedes bianca, strombazzando impaziente; l’autista, sorpassandolo, imprecò qualcosa e lo minacciò col pugno chiuso. Procedette per un paio di chilometri, col cellulare preannunciò il suo arrivo a casa, la moglie lo informò che aveva telefonato il dottor Rossi, il commercialista; lui disse che era molto importante, perchè non lo aveva fatto chiamare? Lo richiamasse subito, lo tirasse giù dal letto se necessario, ma gli dicesse di chiamarlo immediatamente sul cellulare! Oltrepassò il cavalcavia, chi era quell’imbecille che aveva posteggiato in curva? Riconobbe la mercedes bianca e vide in tempo l’uomo, che si era fermato ad orinare. Ma in quell’attimo provò il sadico piacere di fargliela pagare con un bello spavento, di insegnargli l’educazione. Quello doveva essere ubriaco, perchè non si scostò di un centimetro e l’impatto lo scaraventò nella scarpata. Scese dall’auto, si chinò sul corpo; l’africano dal viso insanguinato lo fissava con grandi occhi spalancati, ma non era ancora morto. No, quegli occhi grandi, imploranti, non erano di un innocente. Ma lui non lo sapeva, ieri sera, e il negro si aggrappava alla sua cravatta grigia, lo tirava a sè con la sua mano sporca, biascicava qualcosa: secù, socù, qualcosa del genere.... Poi squillò il cellulare. Ora s’intravvedeva la luce lattiginosa del giorno in fondo al tunnel, gli vennero incontro i fohn, con scatti metallici e potenti soffi ad asciugare la carrozzeria. Che cosa diceva il negro? Forse una richiesta d’aiuto, forse una minaccia, che importanza aveva? A nessuno avrebbe dovuto renderne conto, se non alla petulanza della sua coscienza. Nessun tribunale, nessun giudice serio lo avrebbe condannato per quanto avvenuto. Per non parlare della sua reputazione, delle responsabilità verso la famiglia , la ditta, il lavoro suo, dei suoi 15 operai, i loro figli. No, quegli occhi non erano innocenti: avrebbe voluto sentirlo il parere della madre di Lucia, dei genitori di quei giovani disperati, sotto il ponte del cavalcavia. "Ah beh, allora poco male!", "Una medaglia. Una medaglia gli dovrebbero dare a quello lì!". Era quasi al termine del tunnel, ripulita l’auto e la coscienza. Ora le porte a soffietto s’aprivano con scatti automatici rassicuranti, comparve l’uomo dalla tuta blu, che si mise a lato. Il meccanismo di trascinamento si arrestò, mentre l’addetto pareva perplesso, guardava con aria interrogativa un punto, sul fianco destro della carrozzeria. Allora scese e guardò anche lui: quella macchia rossa, quel sangue raggrumato, appena sotto il paraurti, non andava proprio via. "Un cane...", mormorò a giustificazione, allargando le braccia, rassegnato a non essere creduto. Ma l’uomo dalla tuta blu staccò la pompa dalla parete, rifinì il lavoro in fretta. E abbozzò un impercettibile sorriso.

Loris Dalla Rosa

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