TERZA IPOTESI SULLA MORTE DI PEDRO
di: Loris Dalla Rosa
La brezza della sera e la trattoria fuori mano, a mezza quota sui Colli Euganei, offrivano sollievo alla giornata intensa e faticosa di Francesco Rossi. Rappresentante di commercio dell'azienda vinicola paterna, aveva girato per Padova e dintorni in una torrida giornata di fine agosto; stagione decisamente morta per i suoi affari e che, in realtà, non gli aveva fruttato molto finora. Conosceva però molto bene i luoghi e forse sarebbe riuscito a combinare ancora una visita serale a qualche produttore della zona. Eccome conosceva quella città: era stata una tappa importante della sua vita. Certo: una tappa a dir poco sgradita, ma pur sempre fondamentale nella sua esistenza. Ne aveva percorso le strade di primo pomeriggio, oppresso dall'afa e dai miasmi putridi dei canali, desideroso di finire presto la giornata e insensibile agli spunti che la toponomastica offriva alla sua memoria. Ma ora, rilassato e libero da incombenze immediate, provava uno sgradevole senso di disagio nel mettere a fuoco i ricordi, che affioravano liberi e incontenibili. Avvertì la presenza di un cameriere e chiese il menù del giorno. "Mi dispiace signore, tra poco si chiude. Se vuole qualcosa da bere...". Si accorse che era tardi e meccanicamente ordinò del vino locale; ma quella voce gli ricordò qualcosa e alzò lo sguardo sull'uomo, incontrandone gli occhi piccoli e neri atteggiati ad espressione di premura, il viso emaciato, il naso aquilino. Per un attimo, perché se ne andò di scatto; e altrettanto rapido fu nel portargli il vino e nel volgergli la nuca dai folti capelli corvini, che gli spiovevano lunghi fino alle spalle. "Pedro!", realizzò tra sè con un tuffo al cuore, "Molto invecchiato, ma sembra proprio Pedro". Ma che fosse lui non era possibile, perché Pedro era morto.
Era accaduto più vent' anni prima, agli inizi degli anni '70. Gli anni dell'università erano andati via via sbiadendo nella sua memoria, in un lungo e doloroso lavorio di rimozione. Eppure gli erano rimasti dentro, li aveva suo malgrado conservati, come un cattivo vino, divenuto infine un buon aceto. Ora li ricordava come si ricorda una sbornia di taverna. Poco studio e molta ideologia: certo, una ubriacatura d'ideologia erano stati i suoi due anni d'università. Adesso i suoi compagni di allora gli venivano in mente ad uno ad uno, li rivedeva urlare slogans davanti all'ateneo e piangere tra i gas lacrimogeni della polizia; oppure lì, attorno al tavolo della sede clandestina, a discutere di Marx, Engels, Mao, a confutare le tesi del neo-revisionismo fino a notte fonda, ad affogare un senso di impotenza nel fumo delle sigarette e delle analisi teoriche. Finchè non venne lui, Pedro, che impresse nuova vita alla cellula rivoluzionaria, una svolta pragmatica, che aumentava il rischio della trasgressione ma anche l'ottimismo e la fiducia nell'agire; perché egli univa a una straordinaria lucidità di analisi la capacità di infondere la forza immensa dell'utopia; la forza in grado di nobilitare, come corollario di un unico teorema, qualsiasi azione: dall'esproprio proletario all'agguato ai docenti. Bevve un sorso di vino, cercando con gli occhi il cameriere; lo intravide dietro un gruppetto di gente che sfollava: sparecchiava un tavolo lontano, volgendogli le spalle e muovendosi con scatti decisi. Sembrava quasi che cercasse di nascondersi al suo sguardo. Anche quel muoversi nervoso lo faceva assomigliare straordinariamente a Pedro. Ma Pedro era morto. Trenta giorni dopo che l'avevano conosciuto. Chi fosse di preciso nessuno si era mai curato di chiederglielo. L'avevano incontrato a un'assemblea, nell'aula magna di Ingegneria, aveva detto di chiamarsi Pedro e di venire dal Cile; li aveva incantati con la fluidità della parola, con i suoi interventi lucidi e appassionati, era entrato a far parte del gruppo, frequentandone le riunioni segrete. Fino a quella notte di aprile, quando la polizia irruppe nella sede, devastando le suppellettili, strappando libri, lordando le pareti, portandosi via il denaro della cassa comune... Il gruppo si era disperso per qualche giorno e, quando si ritrovarono, di Pedro non c'era più traccia. Lo rividero cinque giorni dopo, per l'ultima volta: sul tavolaccio dell'obitorio, per il riconoscimento del corpo. Lo avevano trovato sotto un viadotto della provinciale, nei pressi di Teolo, le ossa spezzate e il volto irriconoscibile per la terribile caduta. Ma per lui e per i suoi compagni non c'erano stati dubbi, alla vista degli oggetti personali e della maglietta rossa, impastata di sangue; come non c'era dubbio che l'aveva ucciso la polizia. Ma dubbi non ne aveva avuti neanche il commissario Gabrielli, che li aveva interrogati a lungo, duramente, accusandoli di essersi sbarazzati di chi credevano un ladro e delatore. Non era riuscito a formalizzare le sue accuse, ma aveva inferto un ulteriore duro colpo al gruppo, che da allora cessò di esistere come cellula rivoluzionaria. Francesco interruppe il filo dei ricordi per chiedere il conto, voleva parlare al cameriere, verificare meglio quella somiglianza. Venne invece una cameriera, una ragazza bruna dall'aria semplice e cordiale. Le chiese del suo collega ed ella rispose che aveva appena finito il turno; se ne stava giusto andando, aggiunse additando la stradina sottostante, dove l'uomo aveva inforcato la bicicletta, iniziando la discesa. Francesco gli fece un cenno cercando di fermarlo, ma quello non vide, o fece finta di non vedere. S'informò discretamente sul suo conto, disse che gli sembrava un suo vecchio compagno di studi. Ma la ragazza non ne sapeva molto: si chiamava Carlo, non ricordava il cognome perché lavorava lì da poco, ma comunque poteva andare a trovarlo di persona, alloggiava solo un chilometro più a valle, appena sulla sinistra della strada, una casa isolata a due piani, non poteva sbagliare.
Se ne andò che era quasi mezzanotte; ora doveva pensare a riposarsi un po', nell'albergo che aveva prenotato alla periferia di Padova. L'indomani mattina avrebbe visitato il consorzio vitivinicolo che gli restava e poi sarebbe tornato a casa, mettendoci una pietra sopra, per sempre, a questa strana faccenda. All'altezza della casa isolata rallentò un poco. Era una vecchia costruzione cupa e la finestra illuminata, al primo piano, era l'unica luce che rischiarava i dintorni. Fermò l'auto un poco più a valle e si avvicinò furtivamente alla casa: nessun nome al campanello. Allora si spostò sul lato boscoso della strada, si nascose a spiare la finestra. Dagli scuri semiaperti filtrava una luce malsana, che rischiarava debolmente una stanza angusta, di cui si intuiva lo squallore. Poi intravide la sua ombra muoversi nervosa, mangiare avidamente qualcosa dal frigo, lo sentì sbattere una porta, azionare lo sciacquone e si vergognò di lui, della sua miseria, e di se stesso che lo stava spiando. Man mano che scendeva e si avvicinava a Padova riprese ad opprimerlo la cappa di aria stagnante e malsana, che la notte non aveva ancora spento. Salì nella stanza d'albergo, ma lì il caldo era insopportabile; spalancò la finestra e decise di scendere in strada. L'osteria d'angolo era ancora aperta, ma andò dall'altra parte della via, appoggiato al parapetto del canale, a fumare e ad osservare i pochi avventori che si accanivano a voce alta nel gioco delle carte. Erano tutti vecchi e, sullo sfondo livido e maleodorante della zona industriale, bevevano vino e scacciavano mosche, accalorandosi ogni tanto nel loro dialetto, incuranti dell'insostenibile puzzo di carogna che saliva dal canale. Sopravvissuti, pensò; sopravvissuti al mondo, perché complici ignari e insensibili del mondo: questo Pedro non lo aveva capito, e ne era morto. Chissà se lo avevano capito i suoi compagni di allora. Dopo la morte di Pedro le loro strade si erano divise. Per lui poi era cominciato il tunnel dei lunghi mesi in clinica. Chissà se avevano capito, se si erano sistemati, se si erano laureati. Lui gli studi li aveva interrotti per sempre, spezzando il cuore a suo padre, quando la mente aveva cominciato a vacillare. Lo avevano salvato i soldi di papà e le lunghe sedute dallo psicanalista. "Devi crescere, abbandonare i sogni dell'infanzia, ricrearti un mondo di valori sani, possibili", gli diceva. E lui un mondo se lo era faticosamente ricostruito, a immagine e somiglianza di suo padre, fatto di valori come lavoro e famiglia e di una sorta di filosofia consolatoria, nel culto delle piccole cose, come un buon bicchiere di vino, una battuta di caccia, una partita a carte con gli amici... A lui era toccata quella via d'uscita, sia pure dolorosa; a tutti era stata offerta una via d'uscita. Ma a Pedro no. Pedro non aveva avuto il tempo di capire. A meno che... a meno che Pedro non fosse veramente Carlo. Certo! Allora avrebbe capito prima di tutti, come sempre. E allora, a pensarci bene, molti, molti particolari si sarebbero spiegati da soli: il fatto che nessuno mai avesse denunciato la sua scomparsa, i soldi spariti... . E poi l'archiviazione ufficiale del caso, che allora gli parve frettolosa e imbarazzata, e le motivazioni, addirittura provocatorie, che parlavano di incidente occorso a un vagabondo non identificato, morto in stato di ebbrezza cadendo dal ponte... Sì, l'ipotesi reggeva, tutto tornava, tutto si spiegava in una logica stringente, come in un teorema, purchè si accettasse una verità in fin dei conti così semplice: Pedro un volgare truffatore, un ladro, ed era ancora vivo. Ripensò a quant'era stato ingenuo, incapace di vedere una realtà così evidente; e si sentì tradito, deriso, improvvisamente privato di una parte di sé, derubato della sua giovinezza. Chissà se anche gli altri, nel frattempo, avevano capito, se erano giunti alle sue conclusioni. Doveva vedere qualcuno, parlarne, condividere questa specie di delusione postuma e seppellirla per sempre. Tornò in albergo, si fermò al bar della hall, dove pochi clienti annoiati ingannavano il tempo davanti a un televisore. Ordinò una bottiglia di vino rosso e si sedette su un divanetto unto e sdrucito. Avvertì appena lo scalpiccio di una coppia che sussurrava qualcosa alla grassa donna dell'accettazione e saliva furtiva alle stanze. Solo al terzo bicchiere si accorse della donna che beveva solitaria, in piedi all'angolo del banco, minigonna a fiori sgargianti, labbra troppo rosse, gambe e braccia che tradivano una certa età, ma ancora piacente. Lo scrutò di sottecchi, con una piega amara della bocca che mai aveva visto in una donna, se non, talvolta, in sua madre. Per un attimo, prima di accennare ad un sorriso, appena si accorse di essere osservata. Allora l'euforia artificiale dell'alcool, il desiderio di rivalsa sul mondo, tutte le sue forze represse rifluirono nel sesso e, con un cenno, la portò nella sua stanza. La prese con violenza, senza una parola, senza una carezza, il viso sul suo collo, aspirando l'odore di profumo dozzinale e di sudore. Fece appello all'immaginazione, cercò un volto di donna che gli facesse dimenticare e solo allora si ricordò di Paola. Paola, la sua compagna di corso, l'impegno politico, l'occupazione di novembre, l'amore con rabbia su un banco a Magistero... e quello scintillio negli occhi, improvviso, irripetibile, subito nascosto, calpestato, perduto per sempre. Pagò la puttana senza discutere sul prezzo eccessivo che aveva azzardato e rimase solo, svuotato, abbandonato sotto un cielo vuoto, orfano di madre, di padre, di Pedro. Sì, avrebbe rivisto qualcuno dei suo vecchi compagni, trovato le conferme che cercava, la consolazione di un disincanto comune e s'addormentò rimuginando questa intenzione per l'indomani, mentre la stanza, attraverso la finestra aperta, si riempiva di insetti notturni e del tanfo del canale. Si svegliò presto, abbacinato da un sole velato di foschia. Scese a fare colazione e si preparò a partire. Non doveva dimenticare i suoi affari. In un'ora fu al consorzio e riuscì finalmente a concludere una fornitura di vino da taglio a prezzo conveniente. Ora poteva tornarsene a casa soddisfatto; non prima, però, di aver concluso quell'altra faccenda. Entrò nel primo bar che incontrò lungo la strada, prese l'elenco telefonico, una manciata di gettoni e s'avvicinò al telefono pubblico. Cercò il numero dei nomi che via via gli venivano alla memoria, poi cominciò a comporli. Al terzo tentativo qualcuno rispose: era il numero di Marco, che era considerato il filosofo del gruppo. La voce al di là del filo, dopo un attimo di comprensibile esitazione, gli parve piacevolmente sorpresa: voleva vederlo subito, lo invitò a pranzo; ma Francesco disse che aveva ancora qualcosa da fare, che sarebbe andato da lui nel primo pomeriggio. Così rimasero d'accordo. In realtà, in quel paio d'ore, voleva mangiare da solo, ripensare con calma alle conclusioni, forse affrettate, della sera prima, studiare il comportamento da tenere.
Abitava dalle parti di Piazza Stanga, in un palazzo anonimo e scolorito. "Professor Marco Bruni", lesse prima di suonare; e l'aria del professore, dietro gli occhiali divenuti più spessi, era quella che gli conosceva da sempre. Stentò, invece, a riconoscere nella donna grassa e sudaticcia, che gli presentò come moglie, l'antica compagna di corso. Con un po' di sorpresa, ma senza alcuna emozione, capì che era Paola. La salutò con distacco; del resto anche lei non tradiva particolare emozione e i suoi occhi velati di stanchezza non esprimevano altro che una cordialità di convenienza. Fu fatto accomodare in uno studio scarsamente illuminato, soffocato da una miriade di libri, che si capiva riordinati o accatastati in fretta. Vicino alla finestra un ragazzino sui dodici anni, davanti a un home-computer, era intento a difendere la terra da chissà quali invasori, che piovevano sullo schermo con uno squittio metallico; rispose appena, sollecitato dal padre, al saluto del nuovo venuto. In uno stanzino adiacente, dalle pareti sporche, intravide un neonato paffuto che scuoteva la culla, minacciando di scavalcarne il bordo. Conversarono del più e del meno, attorno al tavolo cerchiato dal fondo dei bicchieri, scacciando le mosche che si posavano sugli orli e l'imbarazzo di trovarsi così cambiati dai tempi lontani dell'università. Ogni tanto il neonato prendeva a piangere, scuotendo più forte la culla; Marco lanciava un'occhiata apprensiva alla moglie, lei si alzava ciabattando e lo rimetteva supino. Francesco volle indirizzare il discorso dove ambedue sapevano che, prima o poi, sarebbe andato a parare. Chiese notizie del commissario Gabrielli e venne a sapere che ormai era un tranquillo funzionario in pensione, che era vedovo e si era trasferito definitivamente nella sua casa di Monselice. Poi Paola si scusò e andò dal bambino, che strillava con tutta la sua voce, lo prese in braccio intonando una sommessa ninnananna. Allora Francesco, dopo un attimo di esitazione, chiese a bruciapelo: "E Pedro?". Marco emise un lungo sospiro, come se la domanda l'avesse liberato da un incubo atteso. "Pedro ci è stato di guida e ha pagato per tutti noi", disse pensieroso, come pesando le parole di un copione. "La polizia ha colpito lui perché intuiva che era il migliore di noi, colui che vedeva più lontano. Ma la sua morte è servita, almeno, a mettere a nudo l'errore di fondo di allora, perché il suo martirio è stato il logico corollario della nostra mancanza di dimensione". Francesco lo guardò sbalordito, ma egli continuò convinto: "Sì, perché credevamo di avere il mondo sulle spalle, avevamo tutti lo sguardo troppo fisso a scrutare la terra, convinti di poterla cambiare radicalmente, per accorgerci del muro contro cui andavamo a cozzare. Eravamo come esseri a dimensione orizzontale, incapaci di alzare la testa e cogliere il tratto verticale che ci trascende: l'unico in grado di offrirci una libertà reale". Francesco comprese che il pover'uomo non aveva capito niente, che non solo non aveva demolito le vecchie fondamenta, ma ci aveva pure costruito sopra. "Sei rimasto il solito intellettuale di merda!", pensò tra sè; ma avrebbe voluto dirglielo a gran voce, con una gran risata. "E tu hai trovato questa dimensione verticale?", si limitò a chiedergli, dissimulando l'ironia. "E ti pare che quelli non siano un tratto verticale?", rispose accennando al neonato tra le braccia della madre e alla schiena del ragazzo assediato dagli alieni. Avrebbe voluto scuoterlo dal sonno, sputargli in faccia la verità su Pedro; ma l'occhiata di Paola, che aveva seguito il discorso da lontano, la sua espressione di malcelata commiserazione, gli fecero capire che era un uomo solo, con i suoi libri e i suoi fantasmi. E poi voleva andarsene, ne aveva abbastanza del neonato che aveva ripreso a strillare e degli alieni che si erano moltiplicati, invadendogli il cervello col loro insopportabile squittio. Lo ascoltò ancora un po', per commiserazione, mentre parlava del romanzo che scriveva e che sperava di pubblicare, come se interessassero a qualcuno i monologhi di un animo sconvolto. Poi trovò una scusa e si accomiatò, tra le promesse reciproche di rivedersi presto. Ritrovò quasi con gioia la luce rovente del giorno e l'aria indolente della città deserta. Possibile, ripensò , che Marco non fosse arrivato alla vera identità di Pedro? Possibile che, vivendo per tanto tempo sul luogo dei fatti, la verità non fosse venuta a galla? O era forse lui che si sbagliava di grosso, ingannato da false deduzioni e fortuite coincidenze? Anche se la cosa gli riluttava, doveva andare da chi, meglio di chiunque altro, conosceva tutta la faccenda. Si ricordò, però, che a quell'ora doveva essere già a casa; bisognava telefonare, avvisare sua moglie che sarebbe arrivato in serata, tranquillizzarla. Cercò un telefono, inoltrandosi a piedi verso il centro; trovò una cabina pubblica, addossata al muro di un viottolo sudicio, percorso solo da un paio di giovani trasandati, dall'aria stralunata. Compose il numero, attese a lungo, fissando tra la polvere del vetro il muro scalcinato: portava ancora tracce sbiadite di spray e la scritta nera, che reclamava Freda libero, s'incrociava con quella rossa, inneggiante a Potere Operaio. Riprovò il numero, fissando poi lo sguardo all'esterno, alla base della cabina, sulle lattine sfondate e le siringhe infette. Pensò che i giovani sono come i vecchi, solo dotati di altri mezzi di stordimento e di accettazione del mondo. Ma allora anch'essi dovevano avere capito, anche i due ragazzi stralunati, che si allontanavano lentamente, oppressi dal caldo e dalla noia; o dall'immane silenzio di quel vicolo, che un tempo risuonava di slogans, di rabbia e di sirene della polizia. Non riuscì a prendere la linea, ma trovò la cosa di secondaria importanza; tornò alla macchina, camminando in fretta, perché il pomeriggio ormai incalzava. Volle attraversare la città, ma trovò un senso unico che una volta non c'era, dovette piegare per Corso del Popolo e Piazza Insurrezione e finalmente si immise sulla strada per Monselice. Percorse i quindici chilometri ad andatura sostenuta, pensando a come affrontare il commissario Gabrielli, con quale motivazione presentarsi a lui e a quale comportamento assumere per superare l'ostilità, che inevitabilmente si sarebbe stabilita tra di loro. Doveva stare attento a non urtarne la suscettibilità, almeno fino a che non avesse ottenuto le informazioni di cui aveva bisogno. Sapeva bene dove abitava: più di una volta l'avevano seguito, cercando un'occasione buona per fargliela pagare, ma era un uomo abile e prudente.
Quando suonò non rispose nessuno, ma una donna che oziava a una finestra gli disse di provare alla locanda, cento metri più avanti. Era un'osteria uguale a tutte le altre, piena di fumo stantio e mosche appiccicose. S'accostò al banco e si guardò intorno. Il solito panorama di vecchi che giocavano a carte, davanti a un bicchiere di vino da due soldi: del commissario nemmeno l'ombra. Ma ne notò uno, perché era l'unico a portare la giacca; lo vedeva di profilo, tenere le carte con un leggero tremolio nelle mani, scrutarle con il lungo viso magro, dalla barba mal rasata. Si accorse che anche lui l'aveva notato e ora lo fissava intensamente. Vide il vecchio dire qualcosa ai compagni di gioco, poi alzarsi faticosamente, urtando il bicchiere di vino, venirgli incontro sostenendosi col bastone da passeggio. Allora riconobbe il commissario Gabrielli, o piuttosto la pallida ombra di ciò che era stato e di ciò che aveva significato per lui. Si avvicinò con un debole sorriso, cercando di nascondere il braccio sinistro dietro la schiena, quasi vergognandosi della macchia di vino che gli inzuppava la manica. "Allora ragazzo, hai messo la testa a posto?", lo apostrofò battendogli amichevolmente una mano sulla spalla. Notò che la sua voce era fievole e leggermente impastata dall'alcool. "Mi riconosce?", disse Francesco. "Se ti riconosco? E che poliziotto sarei se no?". Poi volle offrire da bere, come si fa con un amico di vecchia data, e, col bicchiere tremolante in mano, cominciò a fare domande cui Francesco, preso alla sprovvista e come disarmato, non rimase che rispondere. Chiedeva della sua famiglia, del suo lavoro e del motivo della sua presenza, col tono burbero che si usa con un figlio un po' scapestrato. Ma lo faceva come seguendo il copione di una deformazione professionale, sulla falsariga di un interrogatorio, anche se gli occhi ora erano spenti, svuotati dalla vita. Francesco approfittò di una pausa del vecchio per prendere in mano le redini del dialogo: "Ma Lei, commissario, conosceva bene Pedro?". Gabrielli rimase assorto per qualche secondo, gli occhi smarriti nelle nebbie del passato. "E ti pare, figliolo, che se l'avessi conosciuto bene avrei interrogato te e i tuoi compagni per due giorni interi? No, Pedro era arrivato a Padova da poco, lo seguivamo, ma non l'avevamo ancora schedato". "E che funzione ha avuto, in tutta la vicenda, il vagabondo di Teolo?". Sul volto di Gabrielli passò un lampo di risentimento. "Cosa intendi dire, hai sposato anche tu la tesi ufficiale? O vuoi prendermi in giro?". La sua voce era diventata improvvisamente forte e sicura, quasi minacciosa: "Non esisteva nessun vagabondo e tu lo sai bene. Esistevamo solo noi, che difendevamo la società e l'ordine costituito, e voi, che volevate sovvertirli. E pensare che se non mi toglievano il caso... . Mi bastavano meno di ventiquattr'ore e voi, voi tutti finivate in galera!". Adesso la sua mano non tremava più e i suoi erano gli occhi duri e inquisitori di allora. "Pedro è morto, capisci? E lo avete ucciso voi! E tu dov'eri quando è stato ammazzato?". Francesco istintivamente si difese, ripetendo, come aveva fatto a suo tempo con la faccia gonfia di schiaffi, che dopo l'assalto alla sede se ne era tornato a casa per qualche giorno. "Sì, lo so. Il tuo alibi era inattaccabile, in base al referto dell'autopsia. E' stato qualcuno dei tuoi compagni. Ma tu eri dei loro e forse sapevi, forse sai chi è. Tu, anche tu sei responsabile! Moralmente responsabile!". Aveva alzato la voce, tanto che qualcuno si era girato ad osservarli e Francesco per un attimo temette che quella mano, che stringeva il bicchiere con rinnovata energia, lo prendesse a schiaffi. Poi si resero conto entrambi dell'assurdità della situazione. "Acqua passata, acqua passata ragazzo mio...", mormorò Gabrielli assestandosi la giacca sgualcita e riprendendosi il bastone. "Vieni a trovarmi ancora, mi farà piacere. Parleremo d'altro", e s'avviò con passo insicuro verso il tavolo dei vecchi. Francesco non lo fermò, non gli avrebbe detto nulla sulla vera identità di Pedro: sarebbe stata un'inutile crudeltà. Uscì dal locale che le ombre lunghe annunciavano la sera; e sulla strada, verso Montegrotto, vide il sole tramontare dietro le struggenti colline venete: era tardi per essere a casa a un'ora decente. Aveva perso il suo tempo senza cavare un ragno dal buco, si era perso nelle paludi del passato, senza trovare le conferme che cercava. Del resto era tardi, anche per ridiscutere tutto un capitolo dell'esistenza sua e di altri; tardi per qualsiasi sentimento, che non fosse quello temperato e malinconico del rimpianto. Cenò in un ristorante di Abano, senza fretta, bevendo un buon vino forte, di quelli che stordiscono anche mangiando in abbondanza. Sulle colline, in fondo, si accesero le prime luci, che poi si moltiplicarono, confondendosi con le prime stelle. Ma una di quelle luci doveva restare spenta per sempre, perché Pedro era morto. E quando si alzò era quasi contento, come chi si appresta a riscuotere un vecchio credito, dato per perso. Percorse la strada della collina e, quando giunse in vista della casa isolata, accostò sulla destra, infilandosi per qualche metro nel boschetto adiacente. Spense il motore e cercò nel cruscotto. Non l'aveva mai usata, ma girava spesso con somme ingenti di denaro e la portava sempre con sè, per sicurezza. Il chiarore intenso della luna rischiarava le pendici a giorno. Guardò la casa cupa e silenziosa; salvo quella al primo piano tutte le finestre erano sbarrate con gli scuri: non poteva esserci nessuno. Dalla strada si vedevano le luci della trattoria più a monte e il parcheggio, occupato da un paio di auto. Aspettò, finchè sentì gente salutarsi a gran voce e uno sbattere di portiere. Osservò le due auto scendere, tenendosi nascosto. Non attese ancora a lungo: vide qualche luce spegnersi e, poco dopo, la sagoma nera che scendeva in bicicletta. Si assicurò che non ci fosse nessun altro e sbucò sul ciglio della strada, mentre l'uomo cercava la chiave giusta, alla luce della luna. "Pedro!", gli gridò alle spalle. Nei pochi attimi in cui incrociò il suo sguardo non capì il senso della sua espressione, perché la pallottola della P38 si piantò tra gli occhi, appena sopra il naso adunco, spappolandogli il cranio in una massa informe. Un cane abbaiò e qualche luce si accese, in lontananza. Ma egli era già in macchina e si mescolò ben presto al traffico della statale. E poi prese l'autostrada, verso Nord, verso casa. E il suo animo era tranquillo, perché lui, solamente lui, conosceva la terza ipotesi sulla morte di Pedro.
© Loris Dalla Rosa - © 1998 ARPANet. Tutti i diritti riservati. Riproduzione vietata.
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