CAPITOLO 1
Prime fasi del colonialismo europeo
I primi europei a sbarcare in India furono probabilmente portoghesi. Già nel XVI secolo essi avevano stabilito basi commerciali sulle coste del subcontinente indiano intorno a Goa. Tuttavia i portoghesi non ebbero mai un rilevante peso sulla politica di questo paese, perché il Portogallo non cercò di creare domini territoriali in Oriente, ma si limitò ad assicurarsi il pacifico possesso di poche e sicure filiali situate in punti strategici dell’Oceano Indiano. Questa politica permise al Portogallo di ingrandire il giro delle sue importazioni - si pensi che la quantità di spezie trattate, intorno al 1512, passò da cento tonnellate l’anno a mille tonnellate in soli sei mesi - riducendo al minimo i costi in risorse e vite umane. Frattanto, dato che in Europa la domanda di spezie era in continua crescita, grazie anche alla ripresa demografica che il vecchio continente stava vivendo, le compagnie di navigazione olandesi iniziarono ad interessarsi a questo nuovo mercato, concentrandosi però sulle isole di Giava, Sumatra e sull’Indonesia nord occidentale. La Compagnia inglese delle Indie orientali, sorta nel 1596, stabilì numerosi porti commerciali sulle coste del golfo del Bengala. All’importanza e al successo delle iniziative inglesi sarà dedicato il capitolo secondo. Infine la Francia, organizzò una Compagnia per lo sfruttamento delle risorse commerciali indiane nel 1664; ponendo le propri basi commerciali sulle stesse coste, dove si scontrò con i robusti e radicati insediamenti inglesi difesi da piccoli eserciti locali guidati da ufficiali britannici. Su questo muro si infransero non solo le mire espansionistiche delle compagnie francesi - scarsamente appoggiate dal proprio governo, al contrario di quelle inglesi - ma anche i tentativi di espellere gli occupatori da parte dei governatori moghul, il cui impero - ormai in declino per le numerose fratture interne - era presente nel subcontinente dal 1526 come ultimo erede di una secolare tradizione di dominio turco-musulmano. Va inoltre ricordato che dalla metà del 1500 c’erano in India missionari gesuiti: inviati da Ignazio di Loyola e guidati da Francesco Saverio, erano sbarcati in India con l’intento di convertire al cattolicesimo le popolazioni locali. Non furono accolti con grande attenzione, ma riuscirono lo stesso in pochi anni a creare tre missioni nella zona di Goa per l’assistenza ai più poveri.
La colonizzazione britannica e il modello coloniale inglese: formazione e integrazione della classe politica locale.
Il dominio britannico in India è caratterizzato da alcune peculiarità: iniziato nel Seicento, durò più di tre secoli; si sovrappose ad una realtà già molto articolata rendendo difficile la distinzione tra gli aspetti di vita propriamente indiani e quelli importati. L’interesse iniziale dell’Inghilterra era economico-commerciale tanto che già alla fine del Settecento Bombay, Madras, Calcutta, le colonie della Compagnia delle Indie orientali, erano i centri più importanti del commercio indiano. Di fatto gli Inglesi riuscirono ben presto ad imporsi come governatori dell’intera regione del Bengala (sconfiggendo, ad opera del generale Robert Clive, nel 1757 il nababbo Siraj al-Daulah), anche se formalmente sottomessi all’autorità dell’imperatore moghul. L’amministrazione della Compagnia e il governo di tutti i possedimenti inglesi in India furono affidati, a partire dal 1773 a Warren Hastings che, con un’intensa politica di repressione degli abusi e delle ingiustizie che avevano caratterizzato gli ultimi anni del governo moghul, riuscì a stabilire un efficiente sistema di governo arrivando in breve tempo a controllare - e poi a conquistare militarmente - l’entroterra bengalese, il Mysore e il Maharashtra. Ci furono però alcune regioni che opposero grande resistenza all’occupazione inglese; l’annessione più recente fu quella del Punjab, sede di un potente regno sikh, conquistato nel 1848. L’economia indiana - fondata sulla realtà del villaggio, con un modello agricolo di autosostentamento - reagì all’aumento della pressione fiscale imposto dagli inglesi con un ampliamento delle disparità sociali, un indebitamento e il conseguente allontanamento dalle campagne di quella realtà sociale che per centinaia d’anni aveva costituito il tessuto produttivo indiano. L’abbandono dei villaggi comportò anche la distruzione della protoindustria artigianale che vi si era formata. Nacque invece una nuova classe indigena di intermediari tra i proprietari-esattori delle singole coltivazioni e i commercianti delle Compagnie inglesi. Il dominio inglese si è sempre avvalso della partecipazione di elementi indigeni nei quadri medio bassi dell’amministrazione, anche per limitare l’impiego di cittadini britannici nelle colonie. Da ciò trassero utilissime lezioni sull’amministrazione civile quegli indiani che avrebbero un giorno formato la classe burocratica locale. Inoltre il modello di colonizzazione inglese aveva la necessità primaria di formare una classe dirigente costituita da indigeni istruiti presso le prestigiose sedi universitarie inglesi che, ritornati in patria, importassero nella società indiana la mentalità capitalistica e consumistica dell’occidente. Questi atteggiamenti generarono contraddittori risultati: mentre da un lato formarono una classe dirigente capace, preparata e ben organizzata, dall’altro non permisero che questa si integrasse nelle strutture amministrative della colonia, lasciandola ai margini della scena politica ed economica che andava sviluppandosi. In secondo luogo si svilupparono forti tensioni tra la nascente classe borghese - composta da intermediari e piccoli commercianti - che il colonialismo aveva prodotto e l’élite intellettuale degli indiani formatisi in Inghilterra. Per contro, questi ultimi si integrarono facilmente con i quadri del governo coloniale inglese. Un ulteriore motivo di tensione era la conflittualità economica nata tra i mercanti inglesi della Compagnia delle Indie e i commercianti indigeni nella misura in cui questi ultimi raggiungevano livelli d’affari concorrenziali. Grande fu lo sforzo di unificazione operato dai governanti inglesi per raggiungere un unità politica e amministrativa del paese: occupando gli ultimi stati ancora legati a dei sovrani della dinastia mogul. L’unità politica e territoriale così realizzata fu efficiente e duratura (anche dopo la fine del dominio inglese): il "Raj britannico" riuscì ad armonizzare gli interessi dei dominatori con le esigenze del paese, dotandolo di un apparato amministrativo affidato in misura crescente a funzionari indiani, pur senza arrivare a forme di effettiva partecipazione democratica; di un apparato giudiziario uniforme e ben articolato sostenuto da giuristi, avvocati e notai che - formatisi in Gran Bretagna - fungevano da mediatori tra gli indigeni e il governo coloniale. Né si può sottovalutare l’utilità della rete ferroviaria, nata allo scopo di trasportare soldati e merci inglesi e rimasta come strumento di collegamento politico ed economico di tutto il paese, e l’utilità della formazione di un esercito, l’Indian Army comandato da ufficiali inglesi ma composto da soldati indiani.
La lunga via verso l’indipendenza: dalla "grande rivolta" al Partito del congresso.
Il primo atto di lotta per l’indipendenza dell’India fu la rivolta di gran parte dell’esercito nel 1857, causata in parte dall’intransigenza religiosa di missionari e ufficiali protestanti, che aveva ferito la sensibilità religiosa delle truppe indiane di religione induista o musulmana, in parte dall’annessione dello stato vassallo dell’Avadh. Tale rivolta - considerata dagli indiani di oggi come il primo movimento di liberazione - non si orientò però nella direzione di una rivoluzione democratica e nazionalista , ma in quella della restaurazione del vecchio ordine. I ribelli, infatti, si impadronirono di Delhi e restaurarono come imperatore dell’India il sovrano nominale moghul. Una volta domata la rivolta, l’impero indiano fu affidato a un viceré, direttamente responsabile verso il governo di Londra. Intanto le classi colte, che erano rimaste solidali con gli inglesi, prendevano coscienza del pesante limite del loro potere di incidere sulle decisioni governative e si organizzavano in quel Partito del Congresso nazionale indiano, fondato nel 1885, che sostenne sessanta anni di lotte per l’autodeterminazione nazionale. Il governo inglese, consapevole del disagio diffuso tra la popolazione, tale da generare un movimento terrorista clandestino, responsabile di vari attentati, concesse la Legge sui Consigli indiani (Indian Councils Act, votata dal Parlamento britannico nel 1909), che attribuiva seggi a una rappresentanza indiana nel consiglio legislativo del viceré e nei consigli provinciali. Si trattava però di una rappresentanza eletta sulla base di un suffragio censitario molto ristretto, adottando quel principio di seggi separati per indù e musulmani - che avevano costituito una propria Lega nel 1906, temendo di essere sopraffatti dalla maggioranza indù in seno al Partito del Congresso - che contribuì ad approfondire la frattura fra le due comunità religiose. Il secondo passo verso l’autonomia fu l’estensione del suffragio e la concessione di un maggiore potere ai rappresentanti eletti, con un Act del 1919, due anni dopo che il governo britannico aveva dichiarato l’intenzione di concedere all’India il pieno autogoverno come dominions inglese. Un numero sempre maggiore di indiani ricevette allora alti incarichi nella burocrazia e si prestò maggiore attenzione ai bisogni economici del Paese. Nel frattempo Gandhi era diventato leader del Congresso e lo aveva orientato alla scelta del suo metodo della pacifica disobbedienza civile. L’influenza della sua straordinaria personalità religiosa e politica gli fece guadagnare il consenso dei ceti medi inferiori e delle masse analfabete, coinvolgendo la grande maggioranza della popolazione in azioni di resistenza non violenta, ma significativa, che a volte furono stroncate da interventi repressivi duri e sanguinosi. La costituzione del 1935 allargò il suffragio e il potere dei rappresentanti eletti e nelle elezioni del 1937 il Congresso vinse in otto province su undici, formandovi governi efficienti, tanto che sembrò realizzabile un trasferimento pacifico dei poteri, nonostante la crescente tensione con la Lega musulmana. Ma un fatto gravemente contraddittorio rispetto all intenzione dichiarata accadde all’inizio della II guerra mondiale, quando il viceré dichiarò l’India in guerra senza neppure consultare i leaders del Congresso: i governi provinciali si dimisero, dando inizio a una vasta campagna di disobbedienza civile. Alla fine della guerra la convergenza di diversi fattori portò ad una svolta le cruciali questioni dell’indipendenza e della separazione territoriale della Lega musulmana dall’India.
La separazione dal Pakistan
Quando nel 1946 Nehru si trovò, per la prima volta, primo ministro (anche se di un governo ad interim) il problema più spinoso che dovette affrontare fu la necessità, ormai impellente, di avviare la trattativa per riconciliare il Congresso e la Lega musulmana - che proponeva una costituzione federale, con un governo centrale responsabile solo per gli affari esteri e le comunicazioni e con piena autonomia interna per varie regioni - che erano ormai in rotta. Dopo breve si rese conto che l’unica soluzione possibile era la divisione. Si pervenne così alla formazione di due stati separati: il Pakistan a prevalenza musulmana; e l’Unione indiana a prevalenza indù. La questione religiosa, che era anche etnica, politica e sociale, divampò in accesi conflitti e sfociò in un colossale esodo di popolazione (7 milioni di musulmani dall’India al Pakistan e 10 milioni di indù in senso opposto) accompagnato da sanguinose manifestazioni di intolleranza, di cui fu vittima lo stesso Gandhi, assassinato nel gennaio 1948 da un fanatico correligionario.
L’indipendenza indiana
Gli aspetti che giocarono un ruolo decisivo - convincendo soprattuttuo il governo inglese - sulla necessità di concedere l’indipendenza furono: la grande forza politica del Partito del Congresso e la radicalizzazione, sulla protesta indipendentista, di alcune sue falangi; il timore di una rivoluzione generato dal rafforzamento dei movimenti nazionali indiani; la vittoria in Gran Bretagna del Partito Laburista, che da anni si batteva per la concessione dello stato di dominion all’India, necessità dettata dalla volontà / necessità dell’Inghilterra del dopo guerra - stremata anche se vincitrice - di disporre di tutte le proprie forze produttive e di evitare nuovi conflitti.
Su queste basi l’India acquistò l’indipendenza il 15 agosto 1947 vedendosi, ufficialmente riconosciuta da Londra, la qualifica di "dominions indipendenti dell’Unione indiana", guidati dal partito del congresso e dal suo capo carismatico: il Mahatma Gandhi.
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