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CANTICO DELLA VITA DI UN UCCELLO NOMADE
di: Thanit

Un leggero tonfo, inudibile alle orecchie della città rumorosa, accompagnava la caduta verso la nuda terra di un uccello nomade che, spezzando l'ala in uno scontro fortuito, abbandonava la pur facile illusione d'arrivare in caldi paesi e scordare di conseguenza il lungo inverno che dà agli uccelli sofferenza.

Come l'attimo febbrile che accompagna la morte è foriero di buoni propositi per pentirsi di qualcosa, anche l'uccello nomade, in picchiata verso l'inevitabile, aveva avuto modo di ripensare al suo tempo passato, spinto anche dalla necessità di dover distogliere il suo pensiero dal terrore dell'impatto che gli provocava un groppo in gola, ed alimentato dall'aria fredda che a grande velocità si schiantava sul suo volto.

Aveva sempre pensato se nell'attimo in cui sappiamo di dover partire verso l'ignoto abbraccio, i pensieri siano di dolore o se esprimano la gioia che non s'è potuta provare sino allora, ed ora s'accorgeva che l'uno e l'altro sono solo insulse convinzioni degli umani, usate per soffrire o far finta di gioire, solo nella caduta inevitabile essi cambiano il sapore, diventano più dolci se la vita ha avuto nel dubbio il suo motivo, amare come fossero curaro se certezze hanno abbondato, di colpo esse vengono a mancare e non sai spiegartene il motivo.

L'uccello nomade aveva avuto modo di conoscere attentamente gli uomini nel suo vagare per città e paesi, beccando i semi di grano che ignari bambini gli offrivano nelle grandi piazze di Firenze o Barcellona.

Aveva imparato a guardarli negli occhi e a commiserarli, perché solo un uccello nomade è capace di comprendere le debolezze di quei bipedi così vanagloriosi ed attaccati alla terra, al loro avere.

Ora, nell'attimo interminabile della caduta, proprio a loro andava a pensare l'uccello nomade, proprio a loro di cui tutto aveva capito e di cui tutto disprezzava.

Ma forse, la vita era questo, pensava.

Del resto sono i ricordi più tristi ad occupare la maggior parte dei pensieri, la gioia e gli attimi di beatitudine sono ancora inique convinzioni, non esistono come non esiste la vita.

Ma, se ora sentiva di stare per morire, allora doveva esistere anche la vita, pensò.

Stava infatti per unirsi in un abbraccio senza scampo con quella terra che lo aveva messo al mondo, che aveva legittimato il suo diritto ad esistere, e quindi a vivere.

Viveva, allora, aveva vissuto come gli altri uccelli, gli uomini, perché lo capiva solo adesso che questa stava per finire?

Il pensiero lo aveva per un istante distolto dalla tragicità del momento, fomentando altresì la sua indecisione su quale dei due pensieri, la vita che stava per finire e la morte che ne prendeva il posto, fosse più doloroso.

Continuava difatti a cadere, ed abbandonava anche l'ultima speranza di riuscire a far forza con l'ala rimasta illesa, dal momento che s'era rattrappita a causa della gran fatica.

Però, pensò, forse val bene questa vita d'essere vissuta, non riusciva a spiegarsene bene il motivo, ma lo pensò.

Lo schianto fu talmente fulmineo, che neppure un sibilo emanò dalla sua bocca.

Un bambino, distolta la sua attenzione dal sadico piacere che gli provocava la tortura di una lucertola catturata poco prima per seguire l'epilogo della vita dell'uccello nomade, s'avvicinò a quel corpo, o all'idea che di esso poteva dare, e rimase fermo ad osservarlo per un lungo tempo, come la vita guarda la morte senza che questa possa accorgersene.

Thanit


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