1. L'invenzione dei sistemi mitico-rituali 4. La destorificazione mitica e rituale 6. Simboli e coscienza storica
Nelle usuali concezioni mito e rito formano,
insieme, uniti come termini complementari, l'elemento costitutivo
di una religione: il mito sarebbe ciò in cui si crede mentre il
rito sarebbe ciò che occorre fare. Il primo giustificherebbe il
secondo e questo, a sua volta, presupporrebbe una teoria, o
"credenza", in grado di conferire valore alle
esecuzioni. Perfino l'aspetto morale potrebbe essere ridotto a
questi due elementi, come è sovente accaduto
nell'interpretazione delle "religioni primitive". In
questo senso il termine mito è usato per indicare tutti quei
racconti e tradizioni, rinvenibili presso i più diversi popoli
della terra, che sembrerebbero condividere un carattere di
religiosità e sacralità mentre il termine rito verrebbe a
indicare tutti quei comportamenti stereotipati rinvenibili
soprattutto nell'ambito religioso. Queste due categorie
indicherebbero, pertanto, aspetti effettivi del reale
universalmente diffusi, fatti culturali - i miti e i riti,
appunto - rinvenibili pressoché ovunque. Quello che è
sottinteso da questa concezione è che miti e riti sarebbero
caratteri costanti della cultura dei vari popoli, almeno di
quelli non civilizzati. Su questa via è poi facile costruire
un'opposizione fra le culture ove gli elementi mitici e rituali
sarebbero sovrabbondanti e nelle quali prevarrebbe pertanto una
mentalità mitica, e la nostra cultura moderna, caratterizzata
dalla scienza e dalla tecnologia industriale, nella quale
prevarrebbe una mentalità razionale. Salvo poi accorgersi che
anche nell'Occidente razionale emergono contenuti mitici (nei
sogni, nella rinascita dell'occultismo, in comportamenti politici
irrazionali ...) oppure scoprire che taluni popoli primitivi sono
sorprendentemente privi di comportamenti rituali. In ogni caso i
termini mito e rito rispecchierebbero, in quasi tutti i popoli
della terra, realtà culturali oggettive, elementi concreti ben
distinti da altri ordini di elementi culturali. In altre parole
esisterebbero narrazioni oggettivamente mitiche e comportamenti
oggettivamente rituali. Tuttavia le cose non stanno affatto in questo
modo e pretendere che mito e rito costituiscano realtà culturali
oggettive non solo è contraddittorio ma costituisce una
proiezione arbitraria di elementi nostri nelle altre culture. Per certi versi simile il discorso sul rito. Il
termine coprirebbe tutti quei comportamenti in qualche modo
obbligati: sono rito quei gesti che si devono compiere in un
certo determinato modo e non in altri . In questo senso rito e
comportamento stereotipato sarebbero pressoché sinonimi, al
punto che il termine rito viene correntemente usato in etologia
per descrivere alcuni comportamenti animali ripetitivi, e in
psichiatria per descrivere alcune patologie nelle quali i
pazienti tendono a ripetere coattivamente gesti e comportamenti.
In senso degradato il termine è usato anche per riferirsi ad
alcuni comportamenti, ad esempio il rito del thè, la cui
ritualità è imposta solo dalle regole della buona educazione e
non è sentita come obbligante in assoluto né deriva dal gesto
in sé: si può bere thè anche se lo si è preparato fuori dagli
schemi del bon ton. Questa definizione Apparentemente sensata
trova un primo limite quando si prova a far rientrare nella
categoria rito una serie di comportamento quali i riti giuridici
e le azioni nei tribunali che, pur dovendo seguire una corretta
procedura e definiti esplicitamente riti nei trattati di
giurisprudenza, sembrano essere privi di una reale
"ritualità", qualunque cosa questa sia. La sfera
giuridica è per noi fuori da quella religiosa e si esita a far
rientrare ciò che avviene nei nostri tribunali nella categoria
rito. Del resto la corretta procedura da tenere in tribunale è
frutto di una norma umana, i codici di procedura, che può essere
senza difficoltà mutata da nuove disposizioni legislative. E'
come se la ritualità nei tribunali derivata da una convenzione
legislativa e non imposta da necessità assolute: un po' come
avveniva nel caso del rito del thè, con l'aggravante che almeno
quest'ultimo deriverebbe almeno da un reale rito religioso
orientale. Difficilmente pertanto in un manuale di Storia delle
religioni ci si aspetterebbe di veder portare, come esempio di
rito, ciò che avviene nei nostri tribunali mentre non
sorprenderebbe affatto vedere come esempio le regole di un
giudizio in vigore in un popolo primitivo. Questo, è bene
ripeterlo, nonostante quello giuridico sia esplicitamente, fin
dall'epoca romana, definito rito e debba seguire una precisa,
corretta, procedura per essere valido. Come dire che uno dei
principali riti correntemente usati e conosciuti da tutti stenta
ad essere considerato un vero rito: forse perché privo di quella
valenza di religiosità che sembra necessaria per caratterizzare
un vero rito. Valenza che però manca anche quando il termine è
usato in etologia e in psichiatria. Qui anzi il termine perde
anche ogni connotato culturale finendo per coprire la pura
naturalità, comportamenti pre-culturali. Non è infatti corretto
parlare - almeno allo stato attuale delle nostre conoscenze - di
"cultura" per i comportamenti animali. Quanto alle
gravi patologie psichiatriche nelle quali i soggetti ripetono
coattivamente gesti si tratta chiaramente di comportamenti non
condizionati culturalmente, effetto di un limite della presenza
attiva e cosciente, di una regressione rispetto alla
culturalizzazione del sé e del mondo: una perdita della cultura
in direzione della mera naturalità. La categoria rito, nella
definizione usata di comportamento obbligato e reiterato, finisce
allora per comprendere pseudo riti ed escludere invece un rito
vero. Anche in questo caso non si può superare il
problema usando criteri più o meno restrittivi per includere o
escludere forme di comportamento distinguendo riti veri da riti
falsi. Occorrerà invece considerare un compito che tutti i riti
debbono svolgere: quello di far passare, di trasformare la
realtà. Il rito di inaugurazione di una strada è un falso rito
perché la strada funziona anche se nessuno la inaugura mentre
quello che avviene in tribunale ha il potere di far passare un
cittadino dalla libertà alla prigione, di trasformare
letteralmente la sua esistenza; analogamente un rito iniziatico
trasforma un giovane in un adulto e il battesimo trasforma il
bambino in un cristiano. Il rito agisce per mutare certi aspetti
della realtà, così come il mito la fonda in altri aspetti. Per sciogliere il nodo bisognerà rinunciare a
considerare mito e rito come categorie oggettive e universali per
intenderli come criteri interpretativi. Per farlo converrà
ripercorrere la storia dei due termini: essi giungono a noi
infatti ricchi di una lunga storia e conoscerla può aiutare a
superare alcune posizioni oggettivistiche. In realtà mito e rito sono categorie culturali
che provengono da culture diverse, il mito da quella greca e il
rito da quella romana, e che solo con un certo arbitrio possono
essere applicate a tutte le culture. Non possiamo considerare
mito e rito come categorie universali, forme culturali eterne,
presenti sempre e dappertutto. Quello che possiamo fare è invece
considerarli come criteri interpretativi e tali cioè da
consentire di distinguere una funzione mitica e una funzione
rituale: funzioni che sono opposte, poiché quella mitica fonda
l'immutabile, mentre quella rituale realizza il mutabile, e non
giustapposte come complementari. Definirle come criteri
interpretativi significa dire che la loro stessa opposizione non
è assoluta ma metodologica, posta dallo storico al solo fine di
ricostruire le realtà culturali. Vediamo come nascono questi
termini. Il termine mito deriva dalla cultura greca (mythos)
all'interno della quale, con il trascorrere del tempo assume vari
significati, da discorso pubblico, racconto (già in Omero),
diceria, narrazione delle storie degli dei e degli eroi, sino a
divenire sinonimo di favola. A partire almeno dal VI secolo,
l'opposto del mito (mythos) è il discorso logico (logos): il
primo è inteso come poesia, allegoria o addirittura come
discorso fantastico; il secondo è inteso come discorso vero,
prosaico, razionale. Il dire logico, il discutere per giungere a
una conclusione, è opposto al dire mitico, un vano raccontare,
che ha al massimo un valore estetico. Il discutere logico,
invece, è quel discutere che fonda l'azione storica, che è alla
base di decisioni effettive, pratiche: si pensi ai cittadini che,
nell'agorà di una polis, discutono su una linea politica. Il
mito, invece, fonda l'attualità, quegli aspetti del reale dovuti
ad azioni avvenute nel tempo mitico e sui quali non è più
possibile intervenire, ma non certo l'azione storica. Il termine rito (ritus) deriva invece dalla
cultura romana nella quale indica tutti quei corretti modi di
agire mediante i quali è possibile muoversi nel reale per
trasformarlo e donargli senso culturale. A Roma l'opposto del
rito è irritus, parola che indica l'agire vano, fatto male,
senza effetto. Il non rito è il pre-culturale, precosmico: ciò
che è inerte, incapace. I termini la cui etimologia è invece
riconducibile a quella di ritus indicano ciò che è corretto,
ben fatto, ciò che cosmicizza, l'agire culturale. Un termine
affine a ritus è il rta vedico che significa ordine:
entrambi derivano dalla medesima radice indoeuropea. Così se in
Grecia l'opposizione è tra due diversi modi di dire, mitico e
logico, a Roma è tra due diversi modi di fare: un fare rituale,
che conferisce ordine e valore, si oppone all'incapacità di
fare, a un fare vano, inutile, senza effetti. Per tradurre il
termine ritus in Grecia dovremmo ricorrere a due distinti
termini: thysia, per il rito rivolto agli dei, e enagismos
per il rito rivolto agli eroi. In realtà più che rito la
traduzione corretta per questi termini sarebbe sacrificio,
poiché effettivamente si trattava di due distinte forme di
sacrificio, ovvero di offerte, rivolto a distinte categorie di
esseri sovrumani. Il sacrificio comportava necessariamente un
rapporto con esseri extraumani, dei ed eroi, mentre a Roma il
ritus poteva essere svincolato da qualsiasi rapporto con le
divinità. Se poi volessimo intendere il rito nel senso più
ampio, rispetto a sacrificio, di culto rivolto alle potenze
extraumane, allora dovremmo considerare almeno altri due distinti
termini greci, orgia e mysterion, indicanti due distinte
modalità di culto. Unificare a tutti i costi questi quattro
termini greci (e in realtà si potrebbe aggiungere ancora qualche
altro tipo di "rito greco") sotto la categoria di rito
significa non solo privare la nozione originaria di rito di tutte
le specifiche valenze romane ma anche tradire la cultura greca
che, se ha usato quattro termini per indicare quattro cose
diverse avrà certo avuto i suoi buoni motivi. Dire che i misteria
e le thusie erano i riti greci non ci fa avanzare neanche
di un passo nella comprensione della cultura greca all'interno
della quale il problema non è sapere quali sono i riti ma
distinguere, come distinguevano i greci, orgia da misterion
e thusia da enagismos. Il problema naturalmente non è quello di una
traduzione più o meno accurata dei termini romani in quelli
greci o viceversa, ma capire la realtà storica particolare della
cultura romana da una parte e di quella greca dall'altra:
ricostruire la logica interna dei due diversi sistemi culturali,
verrebbe quasi da dire, se la parola logica non rischiasse di far
pensare a qualcosa sottratto dalla storia. In questo senso l'uso
della parola rito come categoria universale alla quale dovrebbero
corrispondere realtà equivalenti è fuorviante. Simile il
discorso per il mito: a Roma (e in verità neanche, per fare un
esempio, nell'antica cultura ebraica, quella testimoniata dalla
Bibbia) non esiste nessun termine per tradurre il greco mythos,
ad eccezione del termine fabula che però copre solo una
parziale e tardiva accezione della parola greca. Questo significa
che i romani erano costretti a trattare i miti greci come
pseudostorie, racconti fantastici, ma non come miti, non come
racconti in grado di fondare l'attualità. Pretendere di parlare
di miti romani significherebbe pertanto chiamare miti alcuni
racconti, quelli romani, privi della principale caratteristica
dei racconti mitici: quella di fondare la realtà. Una accezione
chiaramente contraddittoria. Naturalmente tutto questo non significa
rinunciare ad operare confronti tra la cultura romana e quella
greca o con qualsiasi altra cultura. Operare confronti, comparare
fatti di culture diverse è non solo inevitabile ma anche il
primo passo per uno studio che si pretenda scientifico, allo
stesso modo che è inevitabile operare traduzioni da una lingua
all'altra quando si confrontano culture diverse. Ma la
comparazione (e la traduzione) non vanno operate al fine di
recuperare ciò che, ad esempio, i romani e i greci avevano di
comune, bensì per individuare le differenze specifiche. Non è
importante sapere che i greci avevano riti più o meno simili ai
romani, essendo una qualche differenza e una qualche similitudine
in fondo una cosa scontata, né è importante scoprire che certi
rituali come i Saturnali avevano caratteri orgiastici e affermare
pertanto che l'orgia è una variante, un tipo, di rito, quasi che
lo scopo della ricerca sia di creare delle tipologie. Quello che
è importante è comprendere la specificità greca rispetto a
quella romana e a quella di qualsiasi altra cultura. La categoria
rito, usata per comprendere fatti delle due culture (e di molte
altre) è inutile proprio perché appiattisce là dove cerchiamo
le differenziazioni. Nuovamente, questo non significa rinunciare ai
termini mito e rito per interpretare i fatti culturali, significa
solo rinunciare alla pretesa che i concetti mito e rito
classifichino settori particolari delle realtà culturali,
distinti da altri settori. I due termini conservano infatti la
loro validità se usati come criteri interpretativi. La
distinzione tra categorie e criteri interpretativi non è una
sottigliezza insignificante o una questione oziosa: essa prevede
la rinuncia ad indagare se una cultura ha o meno racconti
paragonabili ai miti greci o comportamenti stereotipati
paragonabili al ritualismo romano, per cercare invece quali
tratti culturali, indipendentemente dal loro nome e quindi da
ogni somiglianza formale con elementi culturali greci e romani,
svolgono la funzione di fondare l'immutabile o di controllare il
mutabile. A differenza della funzione rituale, che può
essere svolta da gesti, parole e perfino incarnarsi in una
persona, il monarca, la funzione mitica viene svolta
esclusivamente dal linguaggio. Le azioni mitiche sono sempre
dette, espresse mediante il linguaggio e i codici linguistici.
Naturalmente il linguaggio costituito a fondare l'immutabile
utilizzerà codici particolari distinti dai normali codici di
significati propri del parlare comune. Poiché le azioni mitiche,
per definizione irripetibili e capaci di esiti assoluti,
immutabili, non hanno le stesse qualità delle azioni quotidiane,
per dirle, per narrare gli eventi mitici occorrerà utilizzare le
parole e il discorso in senso diverso da quando sono usati per
raccontare le normali azioni di tutti i giorni. Il carattere
fondante del mito impone il ricorso a codici tutti suoi che hanno
certo un rapporto con quelli usuali della quotidianità,
altrimenti si frantumerebbe l'unità della cultura, ma che certo
debbono essere significativi a livelli altri rispetto a ciò che
è usuale. Dissolto il mito come categoria rimane che il
linguaggio, per poter svolgere la funzione mitica deve rispondere
ad una logica particolare. E' stato lo strutturalismo
antropologico ad indicare la strada per comprendere la logica
soggiacente i miti. Il mito è un linguaggio verbale costituito
mediante il materiale linguistico che una certa lingua fornisce.
L'originalità del racconto mitico rispetto a tutti gli altri
fattori linguistici risiede nel fatto che esso utilizza i
significati ordinari della lingua in modo del tutto strumentale
per costituire significati specifici, quelli mitici, che
rispondono ad un codice logico diverso rispetto a quello della
lingua ordinaria. Il senso del racconto mitico non coincide con
il senso narrativo o con il senso senso linguistico; neanche il
senso consiste negli elementi isolati del racconto, bensì nella
maniera nella quale tali elementi sono combinati. Il mito veicola
valori semantici nuovi, basati su una logica particolare,
servendosi dei valori semantici ordinari della lingua. La
costruzione avviene combinando questi valori semantici ordinari
in un insieme di relazioni che vanno a costituire una struttura
dotata di senso proprio. Al di là della apparente irrazionalità
del racconto si rivela una forma logica indipendente da quella
della lingua. Dei vari significati di un termine, le sue classi
semantiche, il mito ne sceglie alcuni o uno solamente; il
significato di tale termine nel mito può essere colto solo
mediante le relazioni di opposizione o di equivalenza che esso ha
con altri termini. In questo modo più che i termini in se stessi
sono le relazioni ad essere significative, e gli schemi logici
che queste relazioni organizzano. Il linguaggio verbale ordinario organizza
mediante codici di primo grado i segni linguistici elementari, i
fonemi, per realizzare la lingua. Il mito utilizza la lingua come
materiale per organizzarla mediante codici di secondo grado.
Questi codici di secondo grado, come del resto anche quelli
linguistici di primo grado, sono messi in opera senza che i
soggetti parlanti, quelli che riproducono e trasmettono il
racconto, ne siano coscienti. In questo senso è stato possibile
dire che i miti più che essere pensati dagli uomini si pensano
negli uomini. Anzi, l'organizzazione specifica di ciascun mito
ubbidisce a sua volta a codici comuni a diversi miti e in
definitiva a un codice fondamentale di terzo grado soggiacente a
qualunque racconto mitico all'interno di una cultura. Nel caso della lingua non vi è alcuna ragione
per cui un certo significato sia espresso mediante un certo segno
significante; nel mito sono invece utilizzate unità già dotate
di senso: questo significa che il mito presuppone già una lingua
ed una certa organizzazione della realtà mediante essa. La
lingua non è infatti un semplice calco della realtà, mero
strumento per esprimere significati pre-esistenti. Essa è il
luogo originario di costruzione dei significati. E' la lingua che
opera la differenziazione, l'articolazione e la differenziazione
del reale: essa culturalizza la natura. La natura diviene cultura
non in virtù di corrispondenze tra elementi naturali ed elementi
culturali, ma attraverso l'integrazione di elementi naturali nel
tipo d'ordine che caratterizza la cultura. Le funzioni mitica e rituale hanno in comune il
fatto che entrambe danno luogo ad un "passaggio". Il
mito mediante un passaggio dal precosmico, caotico e
preistituzionale, al cosmico, ordinato e istituzionale. Il rito
dando origine ad una situazione nuova o rinnovata rispetto alla
mutevole realtà precedente. Alla base sia del mito che del rito
vi è una "crisi" che determina lo svolgimento della
vicenda mitica o che richiede l'intervento dell'azione rituale.
Il mito rimedia a questa crisi originando, fra le infinite
possibilità, quella soluzione che costituisce la realtà
attuale, fonda cioè l'attualità come realtà dotata di valore.
Il rito invece trasformando una realtà, per vari motivi ritenuta
inaccettabile o carente, indirizzandola secondo il fine specifico
del rito. Ad esempio: la divinazione, che effettua a ricognizione
delle cause di una crisi, è uno strumento finalizzato al
recupero e rifondazione di una realtà vivibile, alla
realizzazione di una realtà dotata di valore; analogamente
l'iniziazione è finalizzata a trasformare un individuo facendolo
accedere ad un nuovo status del reale. La crisi rappresenta una possibilità di scelta
tra varie alternative una sola delle quali, dal punto di vista
della cultura che le propone, è quella giusta. Per realizzare
questo passaggio mito e rito danno origine a distinte forme di
destorificazione. La funzione mitica opera fondando l'immutabile,
tutti quegli aspetti che una cultura vuole porre come tali. Il
mito, o meglio la funzione mitica, destorifica sottraendo una
certa realtà all'agire umano e rendendola, per quella cultura,
immutabile. Si potrebbe anche dire che una cultura rende
immutabili tutti quegli aspetti del reale che vuole sottrarre
all'agire umano proprio tramite la funzione mitica. Proprio
perché sottratti all'agire umano questi aspetti del reale sono
destorificati: su essi, almeno all'interno di quella cultura, non
è più possibile agire. Tutto quello che doveva esser fatto è
stato compiuto da agenti mitici, cioè dei soggetti
destorificati, ed ora è impossibile agire per mutare le cose. Va
da sé che il problema non è prendere atto di realtà naturali
eterne, quali ad esempio la morte o alcuni aspetti del mondo
fisico, ma di donare un significato umano, diverso da cultura a
cultura, alla naturalità: una naturalità che è, in sé,
insignificante. Il mero accadere del morire, l'evento naturale
della morte, evento che l'uomo condivide con gli animali, è in
sé nulla: è la cultura, e ogni cultura a modo proprio, a donare
alla morte un significato. Il problema di ogni cultura è quello
di sottrarre i vari aspetti del reale alla loro caotica
insensatezza naturale donando loro un significato. Si tratta di
cosmicizzare, di creare un universo ordinato di significati in
modo da garantire la vivibilità. La funzione cosmicizzante del
mito è appunto quella di fondare, di donare un senso, a quegli
aspetti del reale che si vogliono immutabili. Per realizzare ciò
la funzione mitica descrive un "passaggio" da una
realtà caotica e disordinata, fluttuante, alla
"giusta" realtà stabilita dalla cultura. Sottraendo
alcuni aspetti del reale al divenire storico, ponendoli come
immutabili, mediante la destorificazione mitica una cultura
inizia così la sua definizione del cosmo. Chiaramente per nessuna cultura è possibile
destorificare e rendere immutabili tutti gli aspetti del reale:
questa immutabilità renderebbe impossibile l'esistenza. In varia
misura ogni cultura riconosce un campo di mutabilità passibile
dell'intervento umano. Ogni cultura riconoscerà che vi sono
settori del reale mutabili, sui quali è possibile agire per
modificarli e renderli significativi dal punto di vista umano. La
funzione rituale ha il compito di trasformare questi settori
facendoli "passare" dall'indifferenza naturale alla
significatività umana. Il suo compito è quello di cosmicizzare
donando un significato a tutti quegli ambiti di realtà che non
si sono voluti rendere immutabili con il mito. Tutto ciò che è
mutabile, soggetto al divenire, deve essere umanizzato,
ricondotto alla "ragione" umana. Non sarebbe infatti
possibile vivere in un divenire incontrollato e caotico, privo di
punti di riferimento, nel quale tutto passa senza regola. Il
rito, meglio sarebbe dire la funzione rituale, il divenire
irreversibile del tempo è reso ripetibile; la molteplicità
assoluta è resa relativa, lincontrollabile è controllato.
Anche qui abbiamo una forma di destorificazione: da una parte, in
linea di principio, la formula rituale e l'agire dell'operatore
rituale non cambiano mai, sono immutabili, sottratti al divenire
storico e pertanto destorificati; dall'altra mediante il rito il
divenire è reso ripetibile e soggetto a regole e pertanto
destorificato. Mito e rito realizzano dunque, in modo
differente, forme di destorificazione che ordinano il reale. Un
giudizio ordinatore impone un mutamento di direzione, un
mutamento culturale, ad una naturalità caotica e insignificante,
consentendo di guadagnarla al comunicabile e
allintelligibile. Questo si ottiene attribuendo ad un
soggetto la capacità di effettuare la scelta: nel mito il
soggetto è inattuale; nel rito è attuale, l'operatore rituale.
Questa contrapposizione soggetto inattuale/soggetto attuale non
fa altro che esprimere l'opposizione soggetto mitico/operatore
rituale. Si badi però che sia il soggetto mitico che l'operatore
rituale sono in qualche modo entrambi metastorici: il soggetto
mitico agisce in un tempo per definizione non storico ma anche
l'operatore rituale opera su un piano destorificato e
destorificante. La celebrazione di un rito ripete idealmente la
stessa celebrazione avvenuta infinite volte e la sua efficacia
deriva proprio dal sottrarre un segmento di realtà, quella
simbolizzata dal rito, al divenire storico concreto. Non a caso
l'oggetto tra i tanti oggetti che i miti fondano e rendono
immutabili vi sono spessissimo proprio le formule rituali. Anche
se il rito è strettamente legato all'attualità, l'azione
destorificatrice del rito agisce su un piano che è opposto a
quello della normalità quotidiana. Un conto sono le normali
azioni quotidiane, sempre contingenti, un conto è il rito che,
pretendendo di essere sempre uguale a se stesso, sottrae alcune
azioni (quelle rituali, appunto) al normale divenire storico. Se
il soggetto mitico, inattuale, ha la funzione di sottrarre alla
storia la propria azione e gli effetti di questa, l'operatore
rituale agisce su un piano destorificato: è un soggetto attuale
nel senso che è un uomo ma è anche un soggetto destorificato
nel senso che la sua azione in qualche modo blocca il divenire,
lo incastra in una trama di significati che si pretendono
stabili. La contrapposizione soggetto mitico
inattuale/soggetto rituale attuale non equivale all'opposizione
mito/rito, infatti nella nostra cultura, ad esempio,
l'opposizione mito/rito non è significativa. Per noi l'opposto
del mito è la storia e non il rito. Nella nostra cultura, per la
quale il vero è il vero storico, il mito equivale semplicemente
al non vero, al falso. Nelle culture nelle quali il mito è
attivo e nelle quali esiste un diverso criterio del vero rispetto
al nostro vero storico, il mito non è falso ma indica una
realtà inattuale. Dal nostro punto di vista tutto ciò che è
non storico, e perciò anche il mito, rappresenta il falso ma non
rappresenta l'inattuale: la contrapposizione storia/non storia
non equivale per noi alla contrapposizione attuale/inattuale. A
rigore, anzi, la storia riguarda per noi il passato e dunque ciò
che oggi, in senso stretto, non è attualità. Potremmo dire che la storia rappresenta per noi
l'attuale solo in contrapposizione al falso del mito, mentre
fuori da questa contrapposizione essa indica il passato. In
realtà le cose vanno viste in una prospettiva più ampia: nella
nostra cultura la tendenza alla demitizzazione ha avuto come
conseguenza la costruzione di una concezione del tempo come tempo
unico, totalmente attuale. Nella storia, intesa come tempo unico
nel quale si dispiegano le azioni umane e che da queste azioni è
totalmente realizzato, tutto è attuale nella misura in cui tutto
ci interessa ed appartiene. Soggetti attuali sono tutti gli
uomini nello svolgimento delle loro azioni quotidiane. A questi
soggetti storici si contrappongono non tanto i soggetti delle
storie fantastiche (i miti) quanto quei soggetti che, per le loro
incombenze, agiscono in modo destorificato: tutti coloro che
possiamo definire in senso lato operatori rituali. Questi
pretendono di agire funzionalmente su un livello fuori dal tempo,
sempre uguale a se stesso (si pensi ad un giudice che applica una
legge che è uguale per tutti gli uomini e, sinché non è
mutata, per tutti i tempi; oppure ad un sacerdote che celebra
l'Eucarestia ripetendo lo stesso Sacrificio avvenuto duemila anni
fa in una terra lontana) mentre l'azione storica è contingente,
libera e unica per definizione. Considerare, come abbiamo fatto, mito e rito
come funzioni destorificanti, conduce a porre il problema se sia
possibile separare all'interno di una cultura elementi con
funzioni destorificanti da altri che non lo sono. Dove finisce il
discorso mitico destorificante e inizia quello usuale, tecnico,
storico? Cosa distingue il rito dell'Eucarestia, immutabile, dal
rito giuridico (immutabile sino a che non muta il codice di
procedura) dal rito del thé (che muta con i codici delle buone
maniere)? Il ruolo dei simboli che svolgono funzioni
mitico rituali, si è visto, è quello di sottrarre il divenire
del tempo al suo scorrere irrelato e, per così dire, di
trattenerlo e umanizzarlo: questo sia rendendo il divenire il
qualche modo ripetibile, ciclico, sia sottraendo del tutto al
divenire stesso alcuni elementi che vengono considerati
immutabili. Entrambe le funzioni agiscono nel tempo bloccandolo,
realizzando segmenti temporali che, per la loro immutabilità e
ripetitività non partecipano più del fluire del divenire ma
anzi diventano i punti di riferimento per ogni considerazione
del, e ogni azione nel, tempo. Questa la funzione destorificante dei simboli
mitico-rituali: in un certo senso, però, tutti i simboli hanno
una funzione simile. Nella misura in cui i simboli hanno la
funzione di organizzare in un insieme coerente e significativo la
incoerente e insignificante datità della natura, nella misura in
cui debbono mettere ordine in un divenire cieco realizzando
distinzioni, unità di misura, criteri di operabilità, tutti i
simboli, siano essi i codici verbali ed artistici, le tradizioni
comportamentali, i sistemi etici e morali, gli stessi apparati
tecnologici, tutto ciò in altre parole che ha funzione
significativa e dunque simbolica, agiscono nel tempo realizzando
delle fratture, delle discontinuità. L'omogeneo divenire è
frantumato in unità comparabili, rese significative, trattenute
nella memoria e richiamabili per agire nell'esperienza. Il
divenire stesso è trasformato in tempo misurabile. All'interno del linguaggio ciascuna parola,
ciascun elemento significativo, pretende almeno di essere uguale
a se stessa. Sappiamo bene che la linguistica ha dimostrato che
ogni parola ha senso solo all'interno di una frase e che ogni
contesto è diverso per cui nell'espressione: "alla guerra
come alla guerra" il significato del termine guerra non è
esattamente lo stesso nei due casi. Nondimeno noi pretendiamo,
nell'uso corrente del linguaggio, che i termini usati mantengano
invece esattamente lo stesso significato e pretendiamo, ogni
volta che pronunciamo la parola "mamma" che il suo
significato sia simile, se non uguale, a quello di tutte le altre
volte che abbiamo detto "mamma" e che tale significato
sia simile per tutti quelli ai quali ci rivolgiamo. Il discorso
presuppone una certa stabilità e ripetitività dei simboli:
nessun discorso sarebbe possibile se i significati sfuggissero
come farfalle. Ogni discorso, pertanto, opera sottraendo i
significati al divenire irrelato ed omogeneo realizzando
artificialmente (meglio sarebbe dire: culturalmente) delle
discontinuità che si pretendono senza tempo. E' chiaro che i
linguaggi si trasformano nella storia, come i miti del resto, ma
questo non può essere considerato dai soggetti impegnati
concretamente a parlare. La stabilità dei significati è una
sorta di idea regolativa kantiana. Questo non vale solo per il
linguaggio ma anche per i comportamenti pratici che sono
anch'essi sottoposti a codici. Piantare un chiodo è un gesto
diverso da girare una vite: esso presuppone nella memoria e nella
coscienza esistenziale di ciascuno un insieme di esperienze sulle
quali confidiamo e che pretendiamo valide per guidarci
nell'attualità. Sappiamo che il gesto di piantare un chiodo è
simile ai gesti trascorsi e senza rapporto con il gesto di
avvitare. Queste distinzioni significative riposano nella nostra
memoria, poggiano sulla nostra coscienza e mediante esse operiamo
nel tempo rendendo simili tra loro, nella diversità delle
occasioni, tutti i gesti nei quali si pianta un chiodo. Queste
similitudini e queste distinzioni non sono fatti naturali ma
codici culturali di comportamento tecnologico. Analogamente il
rito del thé riposa su un codice di buone maniere che impone
distinzioni nel divenire temporale obbligando a seguire certi
gesti in un certo ordine che è quello che costituisce, che
realizza, il modo giusto di bere il thé. Certo l'obbligatorietà
del rito del thé è diversa dall'obbligatorietà del rito
giuridico ma questo rivela solo che vi sono stratificazioni e
diversi livelli all'interno della cultura nella quale queste
distinzioni sono rinvenibili: ad esempio la distinzione tra
obbligo di educazione e obbligo di legge. Sono diversi livelli di
obbligatorietà che non implicano però che uno è più o meno
importante dell'altro. Del resto è a volte più facile per noi
giustificare un infrazione al codice della strada che a quello
delle buone maniere. Tutti i codici, e in definitiva tutti i
simboli, hanno dunque la funzione in qualche modo di controllare
il tempo impedendo il suo fluire irrelato. Non sarebbe però
coretto dire che tutti hanno funzioni destorificanti. La
diversità non è nei simboli ma nella coscienza che abbiamo di
essi. Il rito del thé, poniamo nell'antica cultura giapponese,
ha effettivamente funzioni destorificanti: qui pone ordine,
trasforma effettivamente una situazione che non è solo
alimentare e realizza un ordine, ad esempio sociale, che prima
non esisteva. La sua funzione è quella, ogni volta che si
prepara il thé, di organizzare nel corretto modo la famiglia, le
posizioni sociali, il potere politico dei partecipanti.
Nell'antico Giappone il thé non si sarebbe effettivamente potuto
bere in altro modo. Da noi le cose sono diverse, non perchè è
diverso il thé ma perchè la nostra coscienza è diversa.
L'organizzazione del nostro mondo sociale è da noi demandata ad
altri livelli (ad esempio giuridici) e bure bevendo il thé
secondo le regole sappiamo che potremmo berlo diversamente. E' la
coscienza storica propria della cultura occidentale, la coscienza
della storicità della condizione umana, che fa la differenza.
Tutti i codici simbolici si presentano a noi, alla nostra
coscienza storicista, tutti dotati di un carattere
irrimediabilmente storico. Noi sappiamo che tutti i tratti
culturali sono un prodotto storico, che tutto proviene dall'agire
dell'uomo e che tutto è mutabile storicamente. Al punto che
abbiamo riti (giuridici) che effettivamente realizzano in modo
vincolante l'ordine nelle situazioni di crisi ma che,
destorificanti ad un certo livello quando pretendono che la legge
è uguale per tutti, non sono però immutabili in senso
metafisico visto che è possibilissimo mutare leggi e codici di
procedura. Il grado di consapevolezza storica decide
dunque, nelle varie culture, il campo della destorificazione.
Ricostruire questo grado di consapevolezza storica è il compito
dello storico e non è un caso che la scienza storica è un
prodotto della nostra cultura occidentale. Questo non significa che la coscienza storica
sia una condizione naturale scontata, della nostra cultura: è
una conquista culturale che continuamente può essere smarrita.
Nella nostra cultura il vero è il vero storico e non abbiamo
miti a fondare l'immutabile. Tuttavia tentazioni mitiche
riemergono continuamente a vari livelli. Un'automobile di lusso
è contemporaneamente un simbolo mitico, che giustifica uno
status sociale, il livello economico e una certa immagine del
possessore, e un oggetto tecnico capace di certe effettive
prestazioni. Continuamente si ripropone la tentazione di fondere
i due livelli e vedere uniti il carattere mitico e tecnico della
vettura. Tenerli distinti, o almeno essere coscienti del
carattere storico anche delle valenze simboliche della vettura è
il compito della coscienza occidentale se non vuole cadere nelle
tentazioni irrazionalistiche. Si è detto che il soggetto
concretamente impegnato a parlare pretende, anche nel caso di un
esperto di linguistica, che il significato delle sue parole non
muti ma rimanga stabile: mantenere questa pretesa, che abbiamo
definito una sorta di idea regolativa, e contemporaneamente
essere consapevoli della storicità del linguaggio è il problema
di chi vuole mantenere una coscienza critica, storica, del reale. Distingueremo allora, al massimo, una
destorificazione "forte", operata tramite le funzioni
mitiche e rituali, e una destorificazione "debole",
funzionale e relativa, realizzata da tutto l'universo simbolico
che costituisce una cultura. Marco Menicocci © 1997 Marco Menicocci - © 1998 ARPA Publishing. Tutti i diritti riservati. Riproduzione vietata.
Le funzioni destorificanti del simbolismo
Indice
L'invenzione dei sistemi mitico-rituali
Iniziamo dalla pretesa che esistano alcune narrazioni e
tradizioni che per il loro carattere intrinseco sarebbero miti,
ben distinti da altri tipi di narrazioni e discorsi.
Apparentemente a qualificare un mito basterebbe il suo carattere
religioso, tuttavia esistono molti miti che per argomento e
linguaggio sembrano avere assai poco di religioso, mentre si
possono avere per converso discorsi esplicitamente religiosi, si
pensi alla teologia, che pretendono di non avere nulla di mitico
o addirittura di essere demitizzanti. E' chiaro dunque che non
può essere il carattere di religiosità a distinguere il mito.
Ci si può accordare, e questo vedremo rappresenta un passo
decisivo, nel definire mitiche quelle narrazioni che, soprattutto
nelle culture a noi lontane, fondano qualche cosa: in genere gli
elementi più importanti del cosmo di una cultura. Questo
consentirebbe di distinguere il discorso mitico (che fonda) da
quello scientifico e da quello storico (che spiegano e non
fondano) come pure dalle favole moraleggianti e dalle fiabe per
bambini, salvo poi rintracciare eventualmente elementi mitici,
magari "sopravvivenze", in ciascuno di questi discorsi.
Anche in questo modo però non tutti i problemi sono risolti:
pretendere infatti che il termine mito qualifichi un particolare
tipo di narrazioni, sia pure quelle "che fondano"
rispetto ad altre che "non fondano" , conduce da una
parte a includere nella categoria narrazioni che, nei popoli che
le raccontano, non vengono affatto distinte da altre narrazioni
non mitiche, dall'altra a escludere narrazioni che certamente
contengono numerosi tratti fantastici simili a quelle mitiche ma
che non sembrano fondare alcunché. Possiamo considerare miti le
tragedie greche? E le narrazioni di Erodoto e Tucidide? Non è
possibile certo distinguere riga per riga gli elementi mitici da
altri poetici e da altri storici: un simile procedimento, ammesso
che sia possibile, opererebbe una serie di decontestualizzazioni
e distruggerebbe l'unità del prodotto storico considerato, sia
esso una tragedia o un trattato di un logografo. Non solo, ma la
pretesa che alla categoria "mito" sia ascrivibile un
particolare tipo di narrazioni distinte da altre di carattere
storico, scientifico ed artistico, conduce ad una pignoleria
classificatoria nella quale ogni criterio di scelta rimane
altamente arbitrario e soggettivo. La lettura della Bibbia, ad
esempio, fornirebbe il vero storico letterale per credente
ingenuo, elementi mitici mescolati ad elementi storici per il
credente istruito in teologia, solo miti per l'ateo convinto. In
tutti e tre i casi la scelta se classificare un racconto come
mitico o in un altro modo rimarrebbe legata a considerazioni
arbitrarie e soggettive. Mito greco e rito romano
Fig.: 1) Achille, ritrovato il corpo di Patroclo, lo conduce
al campo acheo per i giusti onori. Il ritrovo del corpo di
Patroclo e i funerali erorici che gli vengono tributati sono la
fondazione mitica del corretto rapporto vivi-morti. Occorre
rompere ogni collegamento tra le due sfere, della vita e della
morte, e i riti funebri sono lespressione rituale di questa
frattura.
Fig.: 2) Personaggio mitico per eccellenza Hefesto rivela con
le sue forme fisiche imperfette (è deforme e ha i piedi
rovesciati) nel suo aspetto la caoticità del tempo mitico delle
origini. Le sue molteplici disavventure coniugali completano sul
piano esistenziale una vita tutta "sbagliata" dal punto
di vista umano. La logica del mito
La destorificazione mitica e rituale
Tempo storico, mito e rito
Simboli e coscienza storica
Fig.: 3) Il complesso universo menonimi, con i suoi
molteplici livelli, ha il compito di fondare lunico,
corretto, livello umano, quello terrestre ove le differenze di
altitudine e morfologiche del terreno nonrealizzano pericolose
fratture. Come i puma costituiscono e simbolizzano il pericoloso
mondo del selvaggio, e i tuoni (uccelli) il mondo uranico, così
le pantere, parenti dei puma, vivono e simbolizzano il disumano
(mitico) mondo sotterraneo.
Fig.: 4 e 5) Due strumenti divinatori azande. Insieme
allavvelenamento rituale dei polli costituiscono la
principale forma mediante la quale gli Azande definiscono il loro
reale. La divinazione non è vera perchè indovina
lavvenire bensì perchè solo ciò che la divinazione ha
stabilito viene considerato socialmente vero.
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