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TERZA IPOTESI SULLA MORTE DI PEDRO
di: Loris Dalla Rosa

La brezza della sera e la trattoria fuori mano, a mezza quota sui Colli Euganei, offrivano sollievo alla giornata intensa e faticosa di Francesco Rossi. Rappresentante di commercio dell'azienda vinicola paterna, aveva girato per Padova e dintorni in una torrida giornata di fine agosto; stagione decisamente morta per i suoi affari e che, in realtà, non gli aveva fruttato molto finora. Conosceva però molto bene i luoghi e forse sarebbe riuscito a combinare ancora una visita serale a qualche produttore della zona.
Eccome conosceva quella città: era stata una tappa importante della sua vita. Certo: una tappa a dir poco sgradita, ma pur sempre fondamentale nella sua esistenza. Ne aveva percorso le strade di primo pomeriggio, oppresso dall'afa e dai miasmi putridi dei canali, desideroso di finire presto la giornata e insensibile agli spunti che la toponomastica offriva alla sua memoria. Ma ora, rilassato e libero da incombenze immediate, provava uno sgradevole senso di disagio nel mettere a fuoco i ricordi, che affioravano liberi e incontenibili. Avvertì la presenza di un cameriere e chiese il menù del giorno. "Mi dispiace signore, tra poco si chiude. Se vuole qualcosa da bere...". Si accorse che era tardi e meccanicamente ordinò del vino locale; ma quella voce gli ricordò qualcosa e alzò lo sguardo sull'uomo, incontrandone gli occhi piccoli e neri atteggiati ad espressione di premura, il viso emaciato, il naso aquilino. Per un attimo, perché se ne andò di scatto; e altrettanto rapido fu nel portargli il vino e nel volgergli la nuca dai folti capelli corvini, che gli spiovevano lunghi fino alle spalle. "Pedro!", realizzò tra sè con un tuffo al cuore, "Molto invecchiato, ma sembra proprio Pedro". Ma che fosse lui non era possibile, perché Pedro era morto.

Era accaduto più vent' anni prima, agli inizi degli anni '70. Gli anni dell'università erano andati via via sbiadendo nella sua memoria, in un lungo e doloroso lavorio di rimozione. Eppure gli erano rimasti dentro, li aveva suo malgrado conservati, come un cattivo vino, divenuto infine un buon aceto. Ora li ricordava come si ricorda una sbornia di taverna. Poco studio e molta ideologia: certo, una ubriacatura d'ideologia erano stati i suoi due anni d'università. Adesso i suoi compagni di allora gli venivano in mente ad uno ad uno, li rivedeva urlare slogans davanti all'ateneo e piangere tra i gas lacrimogeni della polizia; oppure lì, attorno al tavolo della sede clandestina, a discutere di Marx, Engels, Mao, a confutare le tesi del neo-revisionismo fino a notte fonda, ad affogare un senso di impotenza nel fumo delle sigarette e delle analisi teoriche. Finchè non venne lui, Pedro, che impresse nuova vita alla cellula rivoluzionaria, una svolta pragmatica, che aumentava il rischio della trasgressione ma anche l'ottimismo e la fiducia nell'agire; perché egli univa a una straordinaria lucidità di analisi la capacità di infondere la forza immensa dell'utopia; la forza in grado di nobilitare, come corollario di un unico teorema, qualsiasi azione: dall'esproprio proletario all'agguato ai docenti.
Bevve un sorso di vino, cercando con gli occhi il cameriere; lo intravide dietro un gruppetto di gente che sfollava: sparecchiava un tavolo lontano, volgendogli le spalle e muovendosi con scatti decisi. Sembrava quasi che cercasse di nascondersi al suo sguardo. Anche quel muoversi nervoso lo faceva assomigliare straordinariamente a Pedro.
Ma Pedro era morto. Trenta giorni dopo che l'avevano conosciuto. Chi fosse di preciso nessuno si era mai curato di chiederglielo. L'avevano incontrato a un'assemblea, nell'aula magna di Ingegneria, aveva detto di chiamarsi Pedro e di venire dal Cile; li aveva incantati con la fluidità della parola, con i suoi interventi lucidi e appassionati, era entrato a far parte del gruppo, frequentandone le riunioni segrete. Fino a quella notte di aprile, quando la polizia irruppe nella sede, devastando le suppellettili, strappando libri, lordando le pareti, portandosi via il denaro della cassa comune... Il gruppo si era disperso per qualche giorno e, quando si ritrovarono, di Pedro non c'era più traccia.
Lo rividero cinque giorni dopo, per l'ultima volta: sul tavolaccio dell'obitorio, per il riconoscimento del corpo. Lo avevano trovato sotto un viadotto della provinciale, nei pressi di Teolo, le ossa spezzate e il volto irriconoscibile per la terribile caduta. Ma per lui e per i suoi compagni non c'erano stati dubbi, alla vista degli oggetti personali e della maglietta rossa, impastata di sangue; come non c'era dubbio che l'aveva ucciso la polizia. Ma dubbi non ne aveva avuti neanche il commissario Gabrielli, che li aveva interrogati a lungo, duramente, accusandoli di essersi sbarazzati di chi credevano un ladro e delatore. Non era riuscito a formalizzare le sue accuse, ma aveva inferto un ulteriore duro colpo al gruppo, che da allora cessò di esistere come cellula rivoluzionaria.
Francesco interruppe il filo dei ricordi per chiedere il conto, voleva parlare al cameriere, verificare meglio quella somiglianza. Venne invece una cameriera, una ragazza bruna dall'aria semplice e cordiale. Le chiese del suo collega ed ella rispose che aveva appena finito il turno; se ne stava giusto andando, aggiunse additando la stradina sottostante, dove l'uomo aveva inforcato la bicicletta, iniziando la discesa. Francesco gli fece un cenno cercando di fermarlo, ma quello non vide, o fece finta di non vedere. S'informò discretamente sul suo conto, disse che gli sembrava un suo vecchio compagno di studi. Ma la ragazza non ne sapeva molto: si chiamava Carlo, non ricordava il cognome perché lavorava lì da poco, ma comunque poteva andare a trovarlo di persona, alloggiava solo un chilometro più a valle, appena sulla sinistra della strada, una casa isolata a due piani, non poteva sbagliare.

Se ne andò che era quasi mezzanotte; ora doveva pensare a riposarsi un po', nell'albergo che aveva prenotato alla periferia di Padova. L'indomani mattina avrebbe visitato il consorzio vitivinicolo che gli restava e poi sarebbe tornato a casa, mettendoci una pietra sopra, per sempre, a questa strana faccenda. All'altezza della casa isolata rallentò un poco. Era una vecchia costruzione cupa e la finestra illuminata, al primo piano, era l'unica luce che rischiarava i dintorni. Fermò l'auto un poco più a valle e si avvicinò furtivamente alla casa: nessun nome al campanello. Allora si spostò sul lato boscoso della strada, si nascose a spiare la finestra. Dagli scuri semiaperti filtrava una luce malsana, che rischiarava debolmente una stanza angusta, di cui si intuiva lo squallore. Poi intravide la sua ombra muoversi nervosa, mangiare avidamente qualcosa dal frigo, lo sentì sbattere una porta, azionare lo sciacquone e si vergognò di lui, della sua miseria, e di se stesso che lo stava spiando.
Man mano che scendeva e si avvicinava a Padova riprese ad opprimerlo la cappa di aria stagnante e malsana, che la notte non aveva ancora spento. Salì nella stanza d'albergo, ma lì il caldo era insopportabile; spalancò la finestra e decise di scendere in strada. L'osteria d'angolo era ancora aperta, ma andò dall'altra parte della via, appoggiato al parapetto del canale, a fumare e ad osservare i pochi avventori che si accanivano a voce alta nel gioco delle carte. Erano tutti vecchi e, sullo sfondo livido e maleodorante della zona industriale, bevevano vino e scacciavano mosche, accalorandosi ogni tanto nel loro dialetto, incuranti dell'insostenibile puzzo di carogna che saliva dal canale. Sopravvissuti, pensò; sopravvissuti al mondo, perché complici ignari e insensibili del mondo: questo Pedro non lo aveva capito, e ne era morto. Chissà se lo avevano capito i suoi compagni di allora. Dopo la morte di Pedro le loro strade si erano divise. Per lui poi era cominciato il tunnel dei lunghi mesi in clinica. Chissà se avevano capito, se si erano sistemati, se si erano laureati. Lui gli studi li aveva interrotti per sempre, spezzando il cuore a suo padre, quando la mente aveva cominciato a vacillare. Lo avevano salvato i soldi di papà e le lunghe sedute dallo psicanalista. "Devi crescere, abbandonare i sogni dell'infanzia, ricrearti un mondo di valori sani, possibili", gli diceva. E lui un mondo se lo era faticosamente ricostruito, a immagine e somiglianza di suo padre, fatto di valori come lavoro e famiglia e di una sorta di filosofia consolatoria, nel culto delle piccole cose, come un buon bicchiere di vino, una battuta di caccia, una partita a carte con gli amici... A lui era toccata quella via d'uscita, sia pure dolorosa; a tutti era stata offerta una via d'uscita.
Ma a Pedro no. Pedro non aveva avuto il tempo di capire. A meno che... a meno che Pedro non fosse veramente Carlo. Certo! Allora avrebbe capito prima di tutti, come sempre. E allora, a pensarci bene, molti, molti particolari si sarebbero spiegati da soli: il fatto che nessuno mai avesse denunciato la sua scomparsa, i soldi spariti... . E poi l'archiviazione ufficiale del caso, che allora gli parve frettolosa e imbarazzata, e le motivazioni, addirittura provocatorie, che parlavano di incidente occorso a un vagabondo non identificato, morto in stato di ebbrezza cadendo dal ponte... Sì, l'ipotesi reggeva, tutto tornava, tutto si spiegava in una logica stringente, come in un teorema, purchè si accettasse una verità in fin dei conti così semplice: Pedro un volgare truffatore, un ladro, ed era ancora vivo. Ripensò a quant'era stato ingenuo, incapace di vedere una realtà così evidente; e si sentì tradito, deriso, improvvisamente privato di una parte di sé, derubato della sua giovinezza. Chissà se anche gli altri, nel frattempo, avevano capito, se erano giunti alle sue conclusioni. Doveva vedere qualcuno, parlarne, condividere questa specie di delusione postuma e seppellirla per sempre.
Tornò in albergo, si fermò al bar della hall, dove pochi clienti annoiati ingannavano il tempo davanti a un televisore. Ordinò una bottiglia di vino rosso e si sedette su un divanetto unto e sdrucito. Avvertì appena lo scalpiccio di una coppia che sussurrava qualcosa alla grassa donna dell'accettazione e saliva furtiva alle stanze. Solo al terzo bicchiere si accorse della donna che beveva solitaria, in piedi all'angolo del banco, minigonna a fiori sgargianti, labbra troppo rosse, gambe e braccia che tradivano una certa età, ma ancora piacente. Lo scrutò di sottecchi, con una piega amara della bocca che mai aveva visto in una donna, se non, talvolta, in sua madre. Per un attimo, prima di accennare ad un sorriso, appena si accorse di essere osservata. Allora l'euforia artificiale dell'alcool, il desiderio di rivalsa sul mondo, tutte le sue forze represse rifluirono nel sesso e, con un cenno, la portò nella sua stanza. La prese con violenza, senza una parola, senza una carezza, il viso sul suo collo, aspirando l'odore di profumo dozzinale e di sudore. Fece appello all'immaginazione, cercò un volto di donna che gli facesse dimenticare e solo allora si ricordò di Paola. Paola, la sua compagna di corso, l'impegno politico, l'occupazione di novembre, l'amore con rabbia su un banco a Magistero... e quello scintillio negli occhi, improvviso, irripetibile, subito nascosto, calpestato, perduto per sempre.
Pagò la puttana senza discutere sul prezzo eccessivo che aveva azzardato e rimase solo, svuotato, abbandonato sotto un cielo vuoto, orfano di madre, di padre, di Pedro.
Sì, avrebbe rivisto qualcuno dei suo vecchi compagni, trovato le conferme che cercava, la consolazione di un disincanto comune e s'addormentò rimuginando questa intenzione per l'indomani, mentre la stanza, attraverso la finestra aperta, si riempiva di insetti notturni e del tanfo del canale.
Si svegliò presto, abbacinato da un sole velato di foschia. Scese a fare colazione e si preparò a partire. Non doveva dimenticare i suoi affari. In un'ora fu al consorzio e riuscì finalmente a concludere una fornitura di vino da taglio a prezzo conveniente. Ora poteva tornarsene a casa soddisfatto; non prima, però, di aver concluso quell'altra faccenda. Entrò nel primo bar che incontrò lungo la strada, prese l'elenco telefonico, una manciata di gettoni e s'avvicinò al telefono pubblico. Cercò il numero dei nomi che via via gli venivano alla memoria, poi cominciò a comporli. Al terzo tentativo qualcuno rispose: era il numero di Marco, che era considerato il filosofo del gruppo. La voce al di là del filo, dopo un attimo di comprensibile esitazione, gli parve piacevolmente sorpresa: voleva vederlo subito, lo invitò a pranzo; ma Francesco disse che aveva ancora qualcosa da fare, che sarebbe andato da lui nel primo pomeriggio. Così rimasero d'accordo. In realtà, in quel paio d'ore, voleva mangiare da solo, ripensare con calma alle conclusioni, forse affrettate, della sera prima, studiare il comportamento da tenere.

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