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Amore

I

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Il lunghissimo viale era illuminato. Non tanto dalle alte lampade dal colore arancione - giallo lisergico, ma soprattutto da veicoli che sfrecciavano incuranti del limite di velocità. Avanzavo velocemente in mezzo al fascio di luce, trasportato dal suono fuoriuscente dagli altoparlanti, con la mano che sbatteva sopra il volante, ritmicamente. Non avevo paura di nulla e di niente sfrecciando sull’asfalto che sembrava una via stellata colma di rifiuti stellari brillanti che non potevano abbagliare il mio sguardo perso all’orizzonte lontanissimo del viale. Comunicavo.

Un orizzonte tramontante e sempre più cupo quanto più ci si avvicinava. La notte, la sua discesa era imminente e altre violenze avrei commesso, senza motivo, celato e imperturbabile sotto gli occhiali scuri. Violenze di un rosso vivo, molto più vivo del sangue pulsante nelle vene. Io, vene cariche di odio e regola. Odio nei confronti di tutto quello che era normale e morale, legittimo e acquisito, voluto. La mia violenza si scaricava per ore su cose, persone, animali... incontrollata, mai nemmeno sfiorata da immagini catodiche di reporter in cerca di scoop per la rete, per sopravvivere in un lembo di terra, di spazio ormai ridotto al limite delle possibilità di vita umana. La carica era la vita solare, ignobile e malsana, ripugnante cinismo creato da esseri dalle capacità mentali molto al di sotto dello standard, e lo standard era molto al di sotto del normale. La normalità, la crisi, la regola... momento di fuga da un attimo di sobrietà. Normalità.

L’ultrasuono, come sempre, mi stordì e fui celermente pronto. Schermi dettavano gli ordini, impartivano e obbedivi. Era gratificante. Soddisfacente, fino al lungo viale dell’odio e della fuga da ogni tipo di brutalità. Ossessione di essere qualcuno o qualcosa passava al momento dell’acquisizione del prodotto, legale e regolarmente venduto, una sorta di smart drug, molto poco smart. Effetti allucinanti avvolgevano il tutto, restando completamente cosciente, riconoscendo chi, come e quando. Ricordando.

Uscii dallo Store, troppa gente da calpestare, martoriare senza pietà in un attimo di fulgida amnesia carnivora. Il lampo mi colpì come una rasoiata sui polpastrelli delle mani ricoperte da guanti farraginosi, uno squarcio di lucidità assurda, veloce accettabile e mai dolorosa. Lo strumento era lì immobile che mi fissava, pronto all’uso, mi parlava come in un viaggio digitale multimediale, ma reale, esistente, pulsante. Funzionava.

Rientrai liberando tutto quanto avevo immagazzinato per troppe ore lontano dal rumore e dalle urla squarcianti di dolore, urla al limite della sopportazione fisica, da strappare i timpani, fonderli.

L’odio era immane nei confronti di chi non poteva comprenderlo ed allora era lì che mi soffermavo nell’attesa di un respiro di troppo, numeri che regolavano l’andamento del tempo che non aveva nessun bisogno, non era qualcosa che potevi manipolare, lui ordinava il ritmo ibrido, non aveva bisogno di

aspettarechequalcunodicessequalcosaperfareinmododifermarlovistocheeralìprontohafartifuoricomeunamerda

seccainunenormecatinodiscartidelsistemaormairidottoallapiùtotaleputrefazione.

Sorrisi.

Mancante. Il ritorno mancante di qualcosa che non esisteva, o forse esisteva ma non cercavi perché tanto non esisteva. Voli intorno a lunghe piattaforme molecolari magnetizzate che spingevano respingevano con regolarità asfissiante tanto quanto il battito di un cuore nuovo fiammante urlante di vita sprigionata da linfa pura. Non mi assoggettavo mai al controllo che puntualmente mai mi veniva eseguito e potevo proseguire nel viaggio lungo il folto viale. Ai lati solo distruzione di vite beate nell’ozio delle parole e delle risate stupide di persone molto al di sotto del ciclo continuato e regolato dalle piattaforme. Ciclo.

Lune cambiavano colore come se fossero vegetali in una stagione che mai era comparsa nella storia. Il ritmo della luce era nettamente superiore a quanto fino a quel momento era in atto. Il buio ci teneva compagnia come un socio di giochi mai realizzati e sempre pensanti. Il pensiero era molto più alto di qualsiasi altra cosa e la parole era bandita oltre che fuori moda da tempo. Il pensiero comunicava come le sole urla di dolore. L’estremo combacia perfettamente incatenato al tempo impassibile. Nessun rimpianto per quanto accaduto, la normalità era lì, normale... chi non la accettava per buona doveva perire in un urlo di sangue perduto nel tempo... Regola.

Confusione di tempi ritmati perfettamente da suoni campionati, in cui niente era fuori regola, tutto ammesso, violenza sonora. Solo violenza e volevo farne parte integrante. Ingranaggio.

Essere qualcuno, come pochi altri... ecco perché non mi controllavano, facevo bene il mio. Ero tra i primi, nessuno poteva pensare alla mia alienazione da un mondo ormai comandato da tempi, archi simmetrici e parabole perfette. Legge.

Categorie gerarchiche annullate dai numeri che racchiudevano solo due spazi: Più e Meno. Il tempo dettava il ritmo, non esistevano pause per ripulire lo spazio minimo vitale rimasto da androidi umani occupanti territori mai conquistati, sedie numerate non proprietà. Non potevano arrivare a possedere. Non possiedi, non fai più parte. Meno. Pulizia.

Lo stravolgimento era il ricordo di qualcosa che era esistito ma non era più. Bruciato da battiti regolari e incessanti. Tutto era regolato da battiti, regole frattaliche matematiche, ciclo.

Non potevo non imbattermi nell’urlo della violenza, nel suo incedere semplice, rispettabile e imperativo. Fasci di luce timbrati. Codici a barre numerici. Protezioni e ordini crittati. Omologati.

InterMondi: Viaggio nel III Millennio

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