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UN UOMO NEL BUIO
di: Claudio Pellegrino


CAPITOLO DODICESIMO

III
 

Jack e Frank erano in coppia da ormai due anni, ma ancora non si erano messi d’accordo su chi dei due fosse il capo. Non riuscivano mai a trovare un compromesso quando si trattava di prendere una decisione, anche in azioni pericolose. Tutto sommato erano tra i migliori del Dipartimento di Polizia cui apparteneva Olson e non certo a caso il tenente insistette e ripeté due volte al centralinista e poi al Capitano i loro nomi. Le istruzioni erano state vaghe: dovevano proteggere un testimone, una donna, quella donna coinvolta nella serie di omicidi delle ultime settimane.
Naturalmente non essendoci disposizioni precise Jack e Frank non riuscivano a mettersi d’accordo:
"Dobbiamo entrare nella galleria d’arte e controllarla a vista!"
"No, Jack, noi ce ne stiamo fuori, appena esce la accompagniamo a casa. Poi da lì chiameremo Olson che ci darà disposizioni"
Frank stava accostando l’auto al marciapiede di fronte alla "Elten Gallery". In un primo momento vinse quest’ultimo e quindi restarono in macchina. La radio gracchiava: c’era una richiesta di intervento per un presunto omicidio, una rapina in un drugstore, insomma routine.
Jack stava osservando attentamente la gente che entrava e usciva dalla galleria, cercando di intravedere il volto della donna. Conoscevano sommariamente i fatti: quella ragazza doveva essere una pedina importante nelle indagini, era stata minacciata e adesso Olson era convinto che poteva diventare l’ennesima vittima. Era anche vero, comunque, che in quella galleria era relativamente al sicuro e quindi era meglio non rischiare di farsi notare: il tenente non voleva che la ragazza apparisse troppo protetta per far insospettire gli assassini. "Proteggetela, ma con discrezione!" aveva ricordato loro proprio il tenente neanche cinque minuti prima per radio.
La sua attenzione fu attratta però da qualcosa che stava succedendo nel vicolo che fiancheggiava l’isolato. Due figure, nell’ombra, ne stavano sorreggendo una terza: un ubriaco, forse, anche se non era ancora l’ora di cena. Informò Frank che osservò anche lui la scena.
"È meglio controllare. Chi va? Testa o croce..."
"O.k., croce!"
disse Jack. Spesso ricorrevano a quel sistema: la sorte decideva per loro. Uscì croce.
Uscì dall’auto sistemandosi lo sfollagente nella cintura. Continuava a fare un freddo tremendo. Si alzò il colletto del giubbotto e si diresse verso il vicolo. Nel frattempo si era affiancata un’auto di grossa cilindrata. L’agente arrivò sul posto mentre la portiera si apriva.
"Salve, sono l’agente Cornhell, ci sono problemi?"
chiese Jack appoggiando istintivamente la mano sul calcio della pistola d’ordinanza. Due uomini stavano sorreggendo un giovane che sembrava privo di sensi. I due si guardarono per qualche istante, poi uno dei due, quello che pareva il più anziano sorrise al poliziotto e rispose con calma:
"No, agente, tutto a posto!"
Jack non fu molto convinto da quella frase. Infatti, mentre sfilava con noncuranza lo sfollagente, continuò la sua indagine:
"Cosa gli è successo? È finito sotto un camion?"
"No, per carità. Ha solo bevuto un fiume di birra!! Lo stiamo accompagnando a casa:"
L’agente alzò la testa del giovane e vide sul suo volto gli evidenti segno della sbronza: occhi semichiusi, pallore...
Il ragazzo cercò di farfugliare qualcosa, si stava svegliando. Il primo sospetto di Jack svanì: stava incominciando a credere che fosse morto. Si sentì più tranquillo. Il ragazzo continuava nel suo tentativo di parlare, ma un conato di vomito gli fece morire le parole in gola. L’agente evitò per un soffio il bolo espulso dalla bocca impastata del giovane. Eh si, si convinse che era proprio una sbronza. Eliminati i suoi dubbi, salutò le due persone, voltò loro le spalle e ritornò verso la macchina, al caldo.
Sentì ancora la portiera chiudersi e l’auto partire. Si girò ancora una volta e la osservò allontanarsi nel traffico della Avenue.
 

IV
 

Kate conosceva quel quadro, ma non riuscì ad avere la conferma delle sue supposizioni in quanto, sotto il titolo dell’opera non c’era scritto il nome dell’autore. Infatti lo stile era inconfondibile: era stato dipinto da Henry Kenz e somigliava vagamente ad uno dei quadri esposti nella mostra a Firenze. Anzi, osservandolo meglio si rese conto che era quasi identico ad uno dei dipinti a Palazzo Pitti. Se le sue osservazioni erano esatte e quel quadro era stato dipinto da Henry Kenz, allora, era stato acquistato direttamente da Van der Haalt o lui era già il secondo o il terzo compratore? L’olandese non le aveva mai parlato di quel quadro, e , tanto meno, lo aveva mai visto prima di quel momento. Le sembrava tutto molto strano, in quanto negli ultimi anni era stata lei a curare direttamente o indirettamente tutti gli investimenti di Van der Haalt. Un altro dubbio affiorò: il titolare della galleria conosceva Henry Kenz? Se sì, perchè nessuno dei due le aveva mai parlato dell’altro? Probabilmente erano solo congetture, ma il suo sesto senso le suggeriva che c’era qualcosa che non quadrava.
Decise che era meglio interpellare direttamente uno dei due interessati. Cercò Van der Haalt con lo sguardo, ma non riuscì a vederlo. Fu solo in quel momento che si accorse dell’ assenza di Steve. Si scusò un attimo con i due ospiti e cercò un collaboratore. Gli chiese di Steve, ma ottenne solo risposte vaghe. Si avvicinò a lei un uomo sulla quarantina, che lei aveva già visto qualche volta nello studio del titolare. Le chiese se stava cercando Steve. Lei annuì, un po' sorpresa. L’uomo le disse con calma:
"Ha detto che andava a fare un giro...Non stava affatto bene. Aveva bisogno di prendere una boccata d’aria"
Si congedò con un sorriso e un inchino, appena accennato.
Kate sentì fortissimo il desiderio di urlare: sarebbe stato uno sfogo impagabile. Ma naturalmente non fece nulla. Il suo istinto era ancora tenuto a freno da una razionalità perlomeno inconsueta.
Non c’era nulla che andasse per il verso giusto. Anzi, più passavano le ore e più gli eventi incalzavano. Adesso anche Steve era sparito. Era veramente andato a farsi un giro? Anche lui era molto strano, quasi come...Altro che appoggio: poteva solo contare sulle sue forze e sull’aiuto, anche se interessato, del tenente Olson.
Non si sentiva più affatto sicura in quel luogo. Stranamente si sentiva osservata e minacciata. Per qualche motivo fu presa dal panico, improvvisamente. Doveva uscire subito da quella sala affollata. Si dimenticò completamente dei due clienti tedeschi che la stavano ancora aspettando accanto al quadro.
Si diresse decisa verso l’uscita, con lo sguardo basso, come se temesse di incontrare occhi che non voleva assolutamente vedere. Disse alla sua collaboratrice che non si sentiva bene e che sarebbe andata a casa. La ragazza la guardò sorpresa e un po' preoccupata. Stava per dirle qualcosa ma Kate era già uscita.
Avvertì sul viso l’aria gelida: ne fu tonificata. Cercò con lo sguardo un taxi. Vide allora, con grande sollievo, un agente che si stava dirigendo verso di lei e la stava salutando con un cenno della mano. Il poliziotto stava per dirle qualcosa ma lei non gliene diede il tempo:
"Devo parlare subito con il tenente Olson!!"
Jack la accompagnò alla macchina e in meno di trenta secondi rintracciarono il tenente.
 

V
 

Lo appoggiarono al sedile dell’auto: stava ancora cercando di parlare. Con calma uno dei due gli tirò su la manica della camicia e con una siringa gli iniettò una sostanza incolore. Nel giro di qualche secondo Steve perse conoscenza, di nuovo.
Un uomo aprì la portiera e si sistemò sul sedile anteriore e ordinò all’autista di partire.
"Signore, tutto a posto?"
L’uomo si voltò e osservò per qualche istante il giovane svenuto. Guardò poi la strada davanti a sè senza rispondere.
Era stato un vero peccato che quel ragazzo, che doveva sostituire Kenz, si fosse rivelato così resistente all’iniziazione. Lo aveva scelto per una sorta di sadismo innato che inizialmente gli aveva provocato un immenso piacere. Ma, col senno di poi, si rese conto di aver esagerato. Aveva compiuto un solo sacrificio ed era già inutilizzabile. Non se la sentiva più di farlo continuare: aveva perso il controllo della sua mente già troppe volte in quei pochi giorni. La ragione era fin troppo chiara: era stata la vicinanza di quella donna, che in quel momento detestava con tutto sè stesso. Poco male. Sarebbe stata la nona vittima. D’altra parte era solo una tappa, la penultima, verso il compimento dell’opera. Satana sarebbe stato soddisfatto: di lì a pochi giorni la sua strada sarebbe stata tracciata e le influenze negative cancellate. Il rito finale sarebbe stato speciale: aveva ormai eliminato ogni dubbio, ogni riluttanza, quella era la donna prescelta. Chiese perdono per l’esitazione e l’incertezza che lo avevano afflitto poco prima.
Fece svoltare l’auto. Si stavano avvicinando al luogo predestinato per chiudere il cerchio di morte. Si rivolse all’uomo proprio dietro di lui e gli disse freddamente:
"Bob tocca a te. È il momento per glorificare Satana!"
Il volto dell’uomo parve illuminarsi di una luce sinistra, i suoi occhi si spalancarono, immobili.
L’auto accostò al marciapiede. Era una strada secondaria e nessuno notò due uomini che stavano appoggiando sul cemento ghiacciato il corpo di un giovane. Uno dei due risalì e l’auto si allontanò. L’uomo osservò la sua vittima con un sorriso grottesco e iniziò la preghiera. Afferrò l’ascia e la calò con forza inaudita sulla testa dell’uomo sdraiato. In un attimo il ghiaccio si arrossì. Appoggiò l’ascia al muro e completò il rito. Satana lo avrebbe ricompensato. Era soddisfatto del suo operato: era stato facile ed appagante. Il suo maestro era stato generoso con lui e gli aveva permesso di essere un suo discepolo. La sua vita era stata così squallida fino ad allora, ma in quel momento era rinato.
Afferrò l’ascia , la sistemò sotto il cappotto e scappò.

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