UN UOMO NEL BUIO
di: Claudio Pellegrino
II
Sorseggiò il caffè con le mani che ancora tremavano. Olson la stava osservando in silenzio. Avrebbe voluto poter entrare in quella testa e sapere che cosa stava pensando. Stava ricordando qualcosa di nuovo? L’avrebbe voluto con tutto se stesso. Ma, andando contro al suo istinto, le concesse ancora qualche secondo di silenzio. Lei bevve un altro sorso di caffè. Tirò un profondo respiro e poi alzò lo sguardo, sorridendo, quasi per dargli il segnale per iniziare le domande.
"Mi vuole spiegare che cosa le è successo? Premetto che mi sforzerò di credere a tutto ciò che mi racconterà. Lo giuro!!"
Alzò solennemente la mano destra, sorridendo anche lui.
"Mi è sembrato che...parlasse. Mi ha detto, o almeno credo, che loro erano tornati e lo avevano costretto a uccidere ancora."
"Loro chi? Insomma, finga di sostenere un normale interrogatorio e risponda sinceramente. Non si preoccupi se ciò che sta per dire può sembrare assurdo. Riprendiamo: loro chi?"
"Non lo so, sinceramente. Io suppongo siano sempre gli stessi, quelli che lo ossessionavano. Ma io purtroppo non so chi sono. Non ne ho la più pallida idea !"
Si fermò un attimo per mettere a fuoco gli ultimi istanti vissuti così assurdamente con Henry in quel maledetto obitorio. Proseguì, finalmente, staccando gli occhi da quelli di Olson. Adesso stava di nuovo tremando vistosamente.
"Mi hanno anche detto che mi sono già molto vicini..."
Lui non commentò l’ultima frase. Cercò invece nel cassetto un foglio e una matita.
"Poi mi scriverà i nomi di tutti quelli che frequenta di solito e occasionalmente, soprattutto le persone conosciute ultimamente. Non escluda nessuno. Mi scusi, vada avanti."
"Mi è sembrato, ad un certo punto, di...come dire...di entrare nella sua mente. Ho visto con i suoi occhi, credo, una caverna, alcuni uomini con il volto coperto da cappucci. Uno di loro stava pronunciando una frase senza senso, incomprensibile. Non ricordo esattamente, parole sconosciute. Diceva : "Abu tibel...no, aspetti, Abu label...Tenente, mi passi quel foglio!"
Olson ebbe un attimo di smarrimento. Cosa stava facendo nel suo ufficio con una paranormale che vedeva attraverso gli occhi di un assassino morto? Ma, nonostante tutto, sentiva che c’era qualcosa di vero in quel racconto assurdo. Le passò il foglio e la matita. Kate si precipitò a scrivere. Quando ebbe finito consegnò il pezzo di carta al tenente, che si trovò di fronte la frase più assurda che avesse mai letta in tutta la sua vita.
"Lei ha idea di che cosa significhi?"
"Purtroppo no, tenente... Mi fa rileggere la frase che ho scritto?"
Scorse le parole attentamente. All’ultima frase si bloccò. Oltre alla sequela assurda c’erano anche alcune parole, scritte in lingua inglese: "Un uomo nel buio". Cosa voleva dire? Chi era l’uomo nel buio? Era forse Henry? Era la chiave di tutta quella storia pazzesca e si poteva collegare ad Henry: lei lo sentiva.
Guardò Olson: stava aspettando una domanda che la distogliesse da quei pensieri, ma il tenente non aveva più nulla da chiederle.
III
Si lasciò cadere sul divano. Guardò il Rolex: aveva ancora circa due ore prima di andare alla galleria. Van der Haalt le aveva chiesto se, per favore, poteva accompagnare nella visita alla galleria due facoltosi uomini d’affari tedeschi, in cerca di un’opera d’arte su cui investire parecchie migliaia di dollari. Era un incarico difficile: il suo tedesco, infatti, era un po' arrugginito e nonostante questo suo limite avrebbe dovuto sostenere una conversazione brillante e spigliata. Aveva ancora addosso gli occhi vitrei di Henry e ancora sentiva le sue parole tremanti, orribili.
Il telefono squillò, lacerando il silenzio della camera. Kate sobbalzò. Alzò la cornetta. Era Steve, finalmente.
"Si può sapere dove ti eri cacciato?"
"Scusami, ma sono stato poco bene. Un po' di influenza, credo."
"Avevi la febbre a 41? Potevi almeno telefonarmi!"
Ci fu un attimo di silenzio: Kate intuì che Steve stava cercando una giustificazione che però non trovò:
"Hai ragione, potevo telefonarti. Mettiamoci una pietra sopra, O.k.? Per favore..."
"Va bene. Comunque avevo bisogno di te, avevo bisogno di parlare con qualcuno. Stamattina sono andata dal Tenente Olson del Dipartimento di Polizia e ho dovuto riconoscere Henry Kenz."
Si interruppe, aspettò le domande di Steve ma , con suo grande stupore, lui cambiò subito argomento:
"Ah, bene. Oggi ci vediamo? Ho il pomeriggio libero"
Kate restò di stucco. Un simile disinteresse non era certo normale in Steve. Lo sentiva lontano migliaia di chilometri, e , improvvisamente, le vennero in mente quelle sensazioni che aveva avvertito appena lo aveva visto, qualche ora prima. Ebbe la tentazione di aggredirlo, ma si trattenne. Preferiva guardarlo negli occhi per capire che cosa gli stava succedendo. Rispose:
"Ho da fare in galleria, ma se vuoi mi puoi accompagnare. Anzi, potresti addirittura aiutarmi. Come va il tuo tedesco?"
"Tedesco? Sì, va abbastanza bene."
"O.k. allora. Mi passi a prendere tra un’ora e mezza ?"
Steve la salutò con uno stanco "Va bene" e riattaccò. Kate rimase ancora qualche istante con la cornetta in mano: la sua freddezza gli aveva fatto male. Fu assalita da un profondo senso di solitudine. Tra non molto, comunque, l’avrebbe visto e forse avrebbe avuto una spiegazione esauriente. Cercò di alzarsi ma un senso di vertigine la fece desistere. Cercò di fissare e fermare un punto sul muro, ma la stanza iniziò a girare vorticosamente. Chiuse istintivamente gli occhi, attese qualche secondo e li riaprì: tutto era al suo posto. Era madida di sudore, ma era passata. C’era però un altro dolore fastidioso alla base del cranio: leggere fitte ad intervalli regolari. Restò immobile, aspettando pazientemente che passassero. Ma così non fu, anzi gli intervalli divennero sempre più brevi tanto che il fastidio iniziale si trasformò in un acuto dolore prolungato. Non aveva mai provato nulla di simile. Non era neanche da paragonare all’emicrania che ogni tanto la colpiva, specialmente quando era sotto stress. Appoggiò le mani sulla parte che le pulsava dolorosamente, ma non ne ebbe alcun beneficio. Anzi l’intensità aumentò. Era in preda al panico: era sola in casa e incapace di gridare. Con grande difficoltà cercò di comporre il numero di telefono del Pronto Soccorso, ma la cornetta le scivolò dalle mani sudate. Le venne da piangere. Poi all’improvviso il dolore scemò fino a scomparire del tutto, lasciandola però senza forze. Sentì un gusto dolciastro sulle labbra. Si toccò e si guardò le dita. Ebbe un sussulto:
"Sangue? Ho sanguinato dal naso? Oh mio Dio!!"
Era una cosa molto strana: non le era mai capitato, neppure da bambina, quando giocava con le peggiori pesti del quartiere a football, a baseball. Più di una volta aveva ricevuto violenti colpi al naso, ma non aveva mai versato una goccia di sangue. Dopo trent’anni si trovava a guardare inebetita le dita sporche del sangue che le era appena uscito dal naso, senza aver subito colpi, senza aver fatto sforzi. Subito lo collegò al mal di testa. cessato da pochi istanti ed ebbe paura. Cercò sull’elenco telefonico il numero di un chirurgo che conosceva. Rimise la cornetta al suo posto per liberare la linea e, nel preciso istante in cui stava per riprendere il ricevitore, il telefono squillò. Lei rispose ma dall’altro capo del filo nessuno parlò. Sentiva solo un respiro rauco. Ripeté "Pronto!!" ormai convinta che fosse il solito stupido scherzo. Invece qualcuno parlò e disse:
"Adesso tocca a te, Kate!"
Poi il segnale prolungato della comunicazione interrotta riempì la sua testa. Erano loro, ne era sicura. Il panico la investì con l’intensità di un ciclone. Come avevano potuto arrivare fino a lei?
Erano passati mesi dall’ultima volta che aveva incontrato Henry e comunque, in ogni caso, non aveva mai saputo di questa sua doppia vita, mai aveva interferito o cercato di sapere cose che neppure aveva sospettato. Lasciò cadere la cornetta, come se scottasse. Fece per alzarsi ma il telefono squillò di nuovo. Una vampata di calore la fece sudare copiosamente. Di nuovo il telefono squillò...poi ancora...e ancora. Kate si fece coraggio e riprese con rabbia il ricevitore e , senza aspettare che qualcuno parlasse prima di lei, gridò con tutto il fiato che aveva in gola:
"Bastardi!! Lasciatemi stare!"
Poi attese, sperando di essersi sbagliata, sperando che una voce conosciuta le dicesse: "Sei impazzita, Kate? Sono io!!". Invece non accadde nulla di tutto ciò: solo altro silenzio e il suo coraggio svanì. Perchè non parla? La sua attesa, comunque, fu di breve durata. Una voce femminile sussurrò:
"Ora tocca a te, Kate. Sia lode a Satana."
Non aspettò più il segnale prolungato: sbatté la cornetta con forza. Questa seconda chiamata ebbe l’effetto, paradossalmente, di riportarle un po' di calma e razionalità. La prima cosa che pensò fu che doveva essere protetta. Il tenente Olson avrebbe dovuto proteggerla, per forza. Non l’avevano ancora presa. Doveva solo riprendere il controllo di sè e pensare ai suoi impegni di lavoro. Prima di iniziare a prepararsi, fece ancora una telefonata.
Il tenente cercò di rassicurarla, le promise che si sarebbe occupato lui di tutto, lei non doveva agitarsi, tutto sarebbe andato per il meglio, e via dicendo. Olson cercò di tranquillizzarla ma alla fine della telefonata non fu molto sicuro di esserci riuscito.
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