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L'ISBA
di: Loris Dalla Rosa

Una settimana bianca sulle Dolomiti, coi tuoi figli, i tuoi nipoti, vedrai ti farà bene. Mario Alberti si lasciò convincere. Del resto non aveva alternative, non poteva rimanere in città da solo, con le angosce della vecchiaia, gli acciacchi dei suoi 74 anni. Si sentiva prigioniero delle premure dei due figli, ostaggio dell'esuberanza dei nipoti, un peso inerte ben dissimulato negli occhi delle nuore e, nell'ampio appartamento di Francesco, il figlio maggiore, un costante intralcio alla vita familiare, una seccatura tollerata solo perchè, prevedibilmente, ancora breve. Così non volle opporsi al sacrosanto diritto al divertimento e al riposo dei familiari; era giusto che fosse così, fino al giorno in cui avrebbe tolto il disturbo, per sempre.
L'albergo prenotato per quella settimana di carnevale era a 1900 metri di altitudine, affollato di turisti in prevalenza germanici, sprofondato in un metro di neve, ai piedi della seggiovia che portava a una baita a quota 2400, da dove si diramava un ben organizzato sistema di impianti di risalita, di piste per sci da fondo, discesa libera, slittini, passeggiate a piedi. La salute del vecchio Alberti trasse un certo giovamento dall'aria pura dei luoghi, dalle lunghe passeggiate tra i boschi. Si alzava molto presto, scendeva nella sala da pranzo ancora deserta, scambiava due parole con la cameriera; poi arrivavano i due nipotini, i figli, le nuore, la sala si riempiva del brulichio variopinto delle giacche a vento all'ultima moda, dell'impaziente energia dei bambini, dell'allegro vocìo degli italiani e del più sommesso brusìo dei turisti germanici. Facevano un'abbondante colazione alla tedesca, poi il locale si svuotava, il nipote più piccolo insisteva un po', dai nonno vieni a fare un giro in slitta, i figli si raccomandavano, papà non affaticarti troppo, ci vediamo verso l'una. Rimaneva solo, salvo un'ora per il pranzo, poi per tutto il pomeriggio, fino all'imbrunire. Li intravvedeva, talvolta, alzare un braccio in un saluto da lontano, chi lanciato sugli sci in una discesa veloce, chi impegnato nelle ampie curve dello snowboard, chi intirizzito dal freddo nel risalire della seggiovia. Lui si accontentava di camminare per un tratto, lungo il sentiero in salita che costeggiava il monte, attraverso un boschetto di abeti. Lo faceva sia di mattina che di pomeriggio, arrivava fin dove il fiato glielo permetteva, di solito al punto in cui il sentiero sbucava al di là del bosco, costeggiando la pista da sci, quella nera, riservata ai più esperti, che lì scendeva in uno sbalzo improvviso e in una brusca curva. Il sentiero non era molto frequentato, ma la mattina, verso le undici, e il pomeriggio, verso le quattro, puntualmente incrociava il tedesco che tornava indietro, con quella regolarità quasi maniacale che solo i vecchi sanno darsi, rassicurante intreccio di abitudini, a loro difesa e rifiuto del nuovo. Era un suo vicino di tavolo, anche lui sulla settantina, padre di uno spilungone biondo che pareva la sua fotocopia giovanile, suocero di una donna energica, che teneva a bada con severità teutonica due figli di poco più di dieci anni. Incrociandolo lo salutava e quello rispondeva con un cordiale "Guten Morgen", stirando il viso in un sorriso che per Alberti aveva un che di conosciuto. Una volta cercò anche di fermarlo, "Buongiorno. Ma noi, non ci siamo già visti?", ma quello lo fissò un attimo disorientato, poi ripetè il suo "Guten Morgen" e continuò il cammino. Non sapeva l' italiano, nè le poche parole di tedesco che Alberti conosceva erano sufficienti per iniziare un discorso, stringere un' amicizia.
Il cielo rimase sereno fino a mercoledì. La mattina seguente, era giovedì grasso, cominciò ad annuvolarsi, si alzò un vento crudo e violento, la seggiovia fu bloccata, per ragioni di sicurezza. Così i villeggianti, costernati ma decisi a combattere la noia, allinearono gli sci e le slitte all' entrata dell'albergo, si avventuravano in brevi escursioni nei dintorni, tornavano infreddoliti al bar, mentre i ragazzi, in maschera, sfogavano la loro vitalità tra le auto lussuose del parcheggio, lanciavano petardi e palle di neve, gridavano, si picchiavano con manganelli di plastica.
Alberti, invece, si rallegrò della prospettiva di passare la mattinata al bar, coi suoi figli. Le nuore rimasero con loro per un po', sbirciando spesso dalle finestre il cielo, visibilmente contrariate; poi, con un pretesto, si ritirarono nelle loro stanze. Rimasero soli a parlare del più e del meno, commentarono qualche notizia curiosa del giornale che Giorgio, il più giovane, sfogliava. Poi irruppe rosso e trafelato Luigino, il nipote di nove anni, "Papà, papà, mi dai dei soldi che ho finito i petardi?". Giorgio estrasse il portafogli senza batter ciglio, gli allungò 50000 lire e Luigino si precipitò fuori, senza aggiungere altro. "Eh, magari avessi avuto io tutti quei soldi, ai miei tempi!", esclamò Alberti scuotendo la testa, in segno di disaccordo. "Ma dai papà! I tempi sono cambiati da un pezzo. Lo sai no?", replicò Giorgio un po' seccato dell'osservazione; poi si immerse nella lettura del giornale. Allora Francesco, per ingannare il tempo, gli propose una partita a carte. Ma non la terminarono mai, perchè a un certo punto squillò il telefono cellulare e il figlio si immerse in una lunga telefonata di lavoro. Parlavano di fondi di investimento, di indice telematico, di flusso di capitali, parlavano di milioni come si parla di spiccioli. Alberti provò, allora, quasi un senso di vergogna, ripensando alla sua modesta pensione di ferroviere a riposo: aveva insistito a lungo con Francesco perchè l'accettasse, "quale contributo alle spese di famiglia"; e il figlio, alla fine, aveva acconsentito, per non umiliarlo. Ma poi prevalse in lui l' orgoglio, per quei due figli istruiti, per la loro posizione sociale e per se stesso, che li aveva fatti studiare, mantenuti all'università, sapeva lui con quanti sacrifici; anche se loro, con l' ingratitudine tipica dei figli, parevano non ricordarsene, dandoli come per ovvi e scontati. Si distrasse da questo pensiero molesto e si guardò intorno. Qualche tavolino più in là c'era anche il tedesco, solitario e pensieroso, beveva una birra e fumava un sigaro pestilenziale, ogni tanto tossicchiava. La sua figura massiccia era a disagio nello spazio angusto della panca, ogni tanto si passava la mano sulla faccia rossa e grassa, la testa calva piegata in avanti, gli occhi azzurri fissi nel fondo del bicchiere. Muoveva impercettibilmente la bocca, come se parlasse da solo, sembrava perplesso, preoccupato di qualcosa. Quando si accorse di essere osservato e riconobbe Alberti, alzò la mano in un cenno di saluto e stirò la bocca in un sorriso di circostanza, che a Mario, ancora una volta, ricordò qualcuno.
Già prima di mezzogiorno, in anticipo sui tempi della cucina, tutti gli ospiti erano in sala da pranzo, chi impaziente, chi annoiato, chi infastidito dalle trombette e dagli scherzi dei ragazzini. Attesero ancora a lungo prima di poter mangiare, ma, nel frattempo, il vento cessò all'improvviso, cominciò a nevicare, ma non forte. La seggiovia, con uno scatto, si rimise in funzione. Allora una nuova allegria serpeggiò nella sala, le madri sospirarono di sollievo, gli uomini cominciarono a sollecitare le portate, trangugiavano in fretta i digestivi, allungavano marchi e biglietti da 50000 ai figli, pur di toglierli di torno. E tutti sfollavano in fretta all'aperto, le tute firmate, gli scarponi nuovi fiammanti, berretti e occhiali civettuoli, gli sci di marca in spalla, verso la coda della seggiovia. Nella sala da pranzo rimase solo Alberti, anche il tedesco se ne era andato, lo vide proprio in quel momento attraverso la finestra: si chiudeva la giacca a vento, bianca e un po' trasandata, si copriva la testa lucida con un berretto rosso di lana grezza, si accingeva alla sua passeggiata pomeridiana. Decise di fare altrettanto, salì un momento in camera, uscì dall'albergo e s'incamminò per la salita. Vide il tedesco due o trecento metri davanti a lui, cercò di raggiungerlo, ma lui camminava più in fretta. Poi cominciò a nevicare più forte, a falde sempre più larghe, lo perdeva di vista, ne intravvedeva appena il berretto rosso. Finchè, era ormai fuori dal bosco, quasi alla curva della pista nera, il berretto rosso all'improvviso sembrò precipitare a terra e non lo vide più. Cosa faceva il tedesco? Doveva aver perso il sentiero, finendo sulla pista. Cercò di accelerare il passo, finchè lo vide riverso e immobile sulla pista, vicino al berretto rosso. In quel mentre Alberti avvertì il rumore di un gatto delle nevi che scendeva dall'alto, realizzò il pericolo: in quelle condizioni atmosferiche rischiava di travolgere il tedesco, mimetizzato nella sua giacca a vento bianca. Raggiunse ansimando la pista, afferrò il bavero, cominciò a trascinare con tutte le sue forze l' uomo, che non dava segni di vita, mentre lo sferragliare si avvicinava rapidamente. Riuscì a sottrarlo ai cingoli proprio quando il gatto delle nevi si affacciò al salto e scese veloce, senza accorgersi di nulla, sfiorando i piedi del tedesco.
L' uomo aveva battuto la testa cadendo, ma era solo intontito e dimostrò subito di essere cosciente del pericolo scampato. "Tu salvato mia vita", disse appena si fu ripreso del tutto, poi cercò, senza trovarla, qualche altra parola di ringraziamento nel suo pessimo italiano. Alberti l'aiutò a rialzarsi e accennò a tornare indietro, ma lui lo trattenne stringendogli la mano. "Tuo nome?", "Mario, Mario Alberti", "Io Heinrich, Hoffmann Heinrich". "Meglio su", aggiunse, indicando prima il monte e facendo poi un rapido gesto con la mano, verso il basso. Ripetè il movimento e Alberti capì che riteneva conveniente salire ancora e scendere in seggiovia. Infatti salirono ancora per dieci minuti, lungo il tratto di sentiero ad Alberti sconosciuto, e arrivarono alla baita a monte della seggiovia. Avevano freddo, nevicava ancora più forte, Mario si accorse che Heinrich era a capo scoperto: avevano dimenticato il berretto rosso. Lui sorrise, facendo segno che era lo stesso. "Adesso noi bere", disse indicando l' entrata della baita, tra una selva di sci piantati nella neve. Entrarono nel locale rustico, tra una marea di gente, una bolgia di giovani urlanti, la maggior parte in maschera, molti già ubriachi. Si fecero largo verso il tavolino più remoto, l' unico libero, spintonando alcuni giovanotti, che li squadravano come intrusi. Ordinarono due grappe, che li riscaldarono e li aiutarono a superare l' impaccio della lingua. "Mario, come si chiamano tuoi figli?", "Francesco e Giorgio. E tuo figlio?", "Hans. E quale lavoro?", "Giorgio è architetto, Architekt. Francesco...", come poteva spiegargli che era operatore di borsa?, "... ingegnere", ripiegò. "Ah, Ingenieur. Anche Hans ingegnere, in grande industria, in Muenchen". "Tu quanti anni?", "Settantaquattro", e siccome non capiva mostrò il sette e poi il quattro con le dita. Allo stesso modo lui gli fece capire che ne aveva settantasei. Ordinarono altre due grappe e Heinrich si accese un sigaro, ma alla prima boccata fu preso da un accesso di tosse, fino a divenir paonazzo. Mario lo guardò e, con un gesto eloquente, gli fece capire che il fumo non giovava certo alla sua salute. Allora lo sguardo di Heinrich si smarrì in un attimo di silenzio, poi il suo tono di voce si abbassò, ma rimase fermo e pacato. "Tu salvato mia vita. Grazie. Ma mia vita finita. Domani io Muenchen, ospedale, operazione, grave operazione. Verstehen Sie?", disse e proseguì appoggiandosi una mano sul petto "Mein Herz. Mio cuore malato, molto malato. Operazione solo...come dire...Experiment. Mia vita già finita". "Noch zwei Schnaps, bitte!", ordinò gridando al cameriere. Ma prima che arrivassero le grappe si avvicinò un giovane in tuta mimetica, con un elmo in testa, alzò un manganello di plastica e percosse violentemente il loro tavolo, "Silenzio vecchi!", gridò, poi se ne andò barcollando e ridendo. Heinrich sorrise, "Soldato. Lui non sa cos' è soldato, non sa cos' è guerra. Questo è guerra", e così dicendo si rimboccò la manica sinistra della camicia, scoprendo una lunga cicatrice. "Sì, i nostri giovani sono fortunati, non conoscono la guerra, la fame, se non alla televisione. Ma non sanno apprezzare chi ha reso posssibile tutto questo, sono cinici, non hanno più valori", disse Mario, senza curarsi delle difficoltà linguistiche di Heinrich. Ma lui pareva comprendere l'essenziale e riprendeva a tono. "Ja. Giovani solo denaro. Figli niente rispetto, rispetto per niente, solo per denaro. Mogli di figli poi...", fece un gesto volgare ma eloquente con le mani. Risero, ordinarono ancora grappa. "Eh", sospirò Mario, "bisogna rassegnarsi, noi la nostra vita l' abbiamo fatta. Bella o brutta è stata questa e ora dobbiamo pensare solo a noi, ad affrontare l' ultimo capitolo, la morte". "Questo è giusto, Mario. Io non paura della morte, io pronto. Giovani sì, loro non pensare mai a morte, non sanno cos' è morte. Ma io non più paura, visto morte tante volte in guerra. E adesso importante solo una cosa: guardare morte con coraggio, con... come dire Wuerde in italiano? Uomo è veramente uomo solo davanti a morte". "Sì, Heinrich, ho capito quello che vuoi dire e sono d'accordo. L'uomo è veramente uomo se sa conservare fino in fondo la sua dignità, ma questo non lo saprà mai, se non quando si confronterà con la morte. E, se è per questo, l'ho vista fin troppo anch'io la morte, in Russia...", "Tu stato in Russia?", "Sì, divisione Julia", "Ah, alpino! Anch' io stato in Russia. Brutto, molto brutto. Nikolajevka?", "Sì". Allora ordinarono ancora da bere, ricomposero pian piano un doloroso mosaico di memorie comuni e continuarono a bere, per ricordare e dimenticare insieme.
Si accorsero che il tempo era volato quando ormai imbruniva. La baita era quasi deserta, la seggiovia stava per cessare il servizio. Si affrettarono fuori, barcollando. Nevicava ancora e a Mario, tra i fumi dell'alcool e dei ricordi, il luogo non sembrò più quello. Si volse verso la baita carica di neve, che gli ricordò qualcosa: "Heinrich, guarda! L'isba". Heinrich si girò a sua volta. "Isba? Ah, ja, isba. Aufwiedersehen, tovaric!", gridò ridendo e alzando un braccio teso verso la finestra illuminata. Poi gli inservienti della seggiovia li caricarono a forza, ridendo, li avvolsero in coperte e li spedirono a valle.
Quei dieci minuti di discesa in solitudine, nel freddo pungente della sera, bastarono a far smaltire gran parte della sbornia. Con i familiari in apprensione Mario voleva giustificarsi, raccontando l' episodio accaduto, ma essi furono sollevati al semplice vederlo e non vollero sapere altro. Anche perchè il tempo stringeva e fervevano i preparativi per la serata di carnevale: sarebbero andati ad un veglione in maschera nella grande discoteca a valle, avrebbero fatto tardi e gli sarebbero stati grati se si fosse occupato lui di mandare a letto Paolo e Luigino a un' ora decente. Così, la sera, erano tutti in maschera e si cenò in un clima di elettrizzante attesa. Francesco era travestito da straccione, Giorgio da muratore. C'erano donne vestite da uomini, uomini da donne, vecchi da giovani e giovani da vecchi. E tutti parevano sinceramente felici di scambiarsi i ruoli, fraternizzavano tra loro in un mondo capovolto, in una ribellione collettiva alla noia della condizione abituale. Dopo cena si avviarono verso la discoteca, a coppie e in piccoli gruppi. Giorgio e sua moglie, poi, avevano avuto l'originale idea di scambiarsi i partners con una coppia di Milano, conosciuta due giorni prima.
Rimasero in pochi nell'albergo. I nipoti di Mario si piazzarono nella sala della televisione e così fecero quelli di Heinrich, nella sua stessa condizione. Loro due si trasferirono al bar, in un andirivieni di maschere, di passaggio da un locale all'altro. Ma erano stanchi e per loro il carnevale era finito da un pezzo, svanito l'incanto e la sbronza della vita. Bevvero tè caldo e Heinrich appestò il locale coi suoi sigari. Raccontò a Mario che aveva perso la moglie negli ultimi mesi di guerra, sotto un bombardamento. L'aveva ancora nel cuore. Poi erano venuti i tempi duri del dopoguerra, si era arrangiato in decine di lavori, ma era riuscito a crescere e far studiare il figlio, rinunciando a tutto, meno che alla sua dignità di uomo. Verso le dieci anche i ragazzi cominciarono ad avvertire la stanchezza. Venne a cercarli prima il biondino più piccolo, che chiedeva della mamma, poi arrivò Luigino. Aveva gli occhi arrossati dal sonno e anche lui chiese quando tornava la mamma. In quel mentre entrò una maschera con irruenza, portandosi dietro una scia di gelo; si guardò intorno, poi il teschio avvolto nel mantello nero avanzò verso i ragazzini, brandendo minaccioso la falce di gommapiuma. "Sono la morte!", ghignò, e se ne andò ridendo. Ma Luigino ebbe un sussulto di paura e stava per piangere. Allora Heinrich lo prese sulle ginocchia, gli accarezzò dolcemente i capelli, "Non avere paura. Uomo non piange mai. Non è questo la morte", lo consolò. Poi mandarono tutti a letto, si ritirarono nelle loro camere singole e sprofondarono nella solitudine e nel sonno.
L'indomani mattina fecero tutti colazione più tardi e facce stravolte dalla nottata si aggiravano tra i tavoli. Giorgio e la moglie non c'erano e Francesco spiegò che avevano bevuto troppo e sarebbero scesi solo per l'ora di pranzo. Ma doveva essere succeso qualcos'altro, perchè neanche la coppia di Milano c'era. La nuora accusava un forte mal di testa e pregò il marito di occuparsi lui di Paolo e Luigino, che si intestardivano a non fare colazione. Francesco era di cattivo umore, diede dei soldi ai ragazzi, "andate pure, se vi viene fame compratevi qualcosa", ed essi corsero liberi e innocenti, nel loro mattino terso e luminoso, con la slitta in spalla. Dopo colazione Francesco andò a prendere un giornale e un po' d'aria fresca, sua moglie prese un'aspirina e tornò a letto, Mario uscì per la sua passeggiata solitaria. Ma aspettò di poter salutare Heinrich, che era in partenza. Avevano già finito di caricare i bagagli nella grossa Mercedes nera, Mario s'inoltrò nel parcheggio e gli andò incontro. "Heinrich, ci rivedremo ancora? Vorrei il tuo indirizzo. Deine Adresse". Lui lo guardò per un attimo in silenzio e Mario capì. "Aufwiedersehen, Heinrich", e lui gli strinse con forza la mano, "Addio, Mario". Salutò il resto della famiglia con un cenno, poi si incamminò su per la salita per una decina di metri. L' auto si mise in moto, Mario si fermò e salutò ancora con la mano; allora Heinrich abbassò il finestrino, si sporse con la testa e stese in alto le braccia, in un saluto che pareva un trionfo. Poi la macchina accelerò, scomparve dietro la curva e Heinrich partì per l' ultimo suo viaggio, a testa alta verso il suo destino. "Danke, Heinrich", mormorò Mario tra sè, "grazie per la tua dignità, per la tua lezione".
Poi riprese a salire rimuginando un pensiero: quell'ultimo saluto di Heinrich gli ricordò all' improvviso dell'altro, qualcosa che ancora gli sfuggiva. Scavando nel loro comune passato aveva scoperto di averlo incontrato in Russia, nel gennaio del '43, ma non riusciva ancora a ricordare in quale luogo esatto, in quale precisa circostanza. Immerso nei suoi pensieri arrivò alla curva della pista nera, quasi senza accorgersene. Si fermò, guardò il luogo dell'incidente e, con sua grande sorpresa, vide che il berretto rosso di Heinrich era ancora lì: con la nevicata del pomeriggio precedente doveva essere sepolto sotto almeno venti centimetri di neve fresca. Evidentemente doveva essere passato il gatto delle nevi, che lo aveva dissepolto, agganciandolo in qualche modo con i cingoli. Doveva essere proprio così: si vedevano, infatti, le impronte marcate dei cingoli vicino al berretto. Ma, ad un tratto, quei segni lo precipitarono nel passato.
Alberti guardò in alto, verso la baita, verso l'isba del '43, e all'improvviso la memoria si spalancò, con la violenza di un pugno allo stomaco. Un gruppo di sbandati della Julia. Si ritirano a marce forzate, incrociano cinque carri armati tedeschi, proseguono assieme per un tratto. Giungono in vista di un'isba. All'improvviso uno dei carri scarta sulla destra, punta a tutta velocità contro la casa, la sfonda da parte a parte. Un ragazzo con un berretto rosso in testa fugge, il carro armato lo insegue. Il ragazzo grida, inciampa, cerca di rialzarsi, ma il carro gli è sopra, lo stritola sotto i cingoli. E dalla torretta aperta il sergente Heinrich Hoffmann ride, alza le braccia in segno di trionfo, grida qualcosa che Alberti adesso ricorda bene.

Allora Mario serra forte gli occhi, mentre Heinrich grida e ride, sotto una maschera di dignità. Poi li riapre, pieni di lacrime, sulla pista nera. Ma il berretto rosso è ancora lì.

Aufwiedersehen, tovaric.

Loris Dalla Rosa

© Loris Dalla Rosa - © 1998 ARPANet. Tutti i diritti riservati. Riproduzione vietata.
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