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UN UOMO NEL BUIO
di: Claudio Pellegrino


CAPITOLO SETTIMO

III
 

Si chiuse nel suo ufficio. Il capitano Freewell stava ancora urlando verso di lui: quando la porta sbattè un istante dopo, le sue orecchie trovarono un po' di pace.
Si lasciò cadere sulla poltrona imbottita. Sulla scrivania trovò il rapporto della Scientifica sul cadavere mutilato di Bob Keaton, sull’ascia e sui cocci di vetro. Purtroppo, a differenza di ciò che sperava in cuor suo, sotto le unghie del povero Bob non era stato trovato nulla, né tracce di tessuto, nè pelle, né capelli. Lo rincuorò il fatto che almeno era stato stabilito il gruppo sanguigno dell’assassino: AB Negativo...almeno non era il gruppo più diffuso. Ma anche questa notizia, dopo un primo momento di euforia, lasciò Olson con l’amaro in bocca: se infatti il suo uomo non era mai stato schedato, a nulla sarebbe servito quel particolare. "Sei morti..." stava parlando a voce alta, come se stesse spiegando ad un fantomatico interlocutore come stavano le cose. Gli sarebbe piaciuto poter parlare ancora con Wuang Li, ma, dopo l’esperienza con Quo Weng La, il cinese gli aveva chiesto con la solita gentilezza di non importunarlo più e di non parlargli più di quella storia. Obiettivamente non poteva certo biasimarlo in quanto l’amico stava forse rischiando qualcosa anche lui: quel tipo era già stato nel suo locale e poteva tornare per eliminare un potenziale testimone.
Olson sorseggiò un po' di caffè. Sentiva un senso di impotenza restando seduto mentre magari fuori il pazzo stava già seguendo la sua settima vittima. Eppure doveva pensare. Doveva per forza riuscire a capire il processo mentale che lo portava ad uccidere. Ormai era convinto che si trattasse sempre della stessa persona: infatti l’idea della setta era stata scartata quasi completamente. Forse erano state solo fantasie. Eppure... Comunque fosse, freddo assassino solitario o adepto di chissà quale fanatica congrega, restava il problema fondamentale: come poteva lui entrare nella testa di uno psicopatico? La sua più grande dote era stata senz’altro la logica basata sull’analisi dei fatti. Ma in questa indagine il metodo, almeno momentaneamente, si stava rivelando poco efficace. Doveva trovare altre strade da percorrere, in quanto si rendeva perfettamente conto che il tentativo di usare la magia orientale per le sue indagini si era dimostrato pressoché inutile: aveva ottenuto una ridda di imprecazioni in cinese con un cenno folcloristico a demoni e potenze del Male.
Mai avrebbe preso in considerazione una simile assurda ipotesi: in tutto questo mare di sangue stava sguazzando un indemoniato! Pazzesco, ma soprattutto, assurdo.
Collegò l’episodio del ciondolo incandescente con un altro strano incontro che aveva avuto qualche giorno prima con Padre Edward. Anche lui aveva accennato al demonio. Era solo una coincidenza? Certo, poteva essere: d’altra parte tutti e due rappresentanti religiosi di culti diversi, di esperienze, di origini differenti ma ambedue con un concetto di fondo basato sul Bene e sul Male. Oltre alle parole di Padre Edward "Esorcista...bah!", ricordava in modo molto nitido la strana sensazione che aveva provato tra le mura umide della cattedrale. Forse era stata solo autosuggestione, senz’altro era stato solo quello...Eppure...
"Olson!!"
Un agente, attraverso il vetro gli fece cenno di uscire. Smise malvolentieri di dondolarsi sulla sedia: il movimento ritmico lo stava rilassando. Senz’altro il capitano aveva dimenticato qualche insulto. Ma contrariamente a quanto si aspettasse, l’agente si avvicinò e gli disse:
"Tenente, quella donna con il bambino, laggiù’, è la donna del tipo ammazzato stanotte."
"Ah..."
Olson non disse altro e si diresse verso la coppia.
"Si accomodi, signora. Vuole una tazza di caffè?"
La donna non rispose: continuava a fissare un punto non ben definito della scrivania. Si alzò ed entrò nell’ufficio.
"Le mie condoglianze, signora. Mi dispiace ma per ora non posso dirle molto. Le posso assicurare che stiamo facendo tutto il possibile per catturarlo!"
Avrebbe dovuto interrogarla, cercare un indizio, qualcosa di anomalo nei suoi comportamenti i giorni precedenti la sua morte. Ma non aprì bocca, sapeva già la risposta: nessuna delle precedenti vittime aveva dato segni di nervosismo, di una qualche preoccupazione...Chissà cosa poteva ancora chiedere o dire a quella povera donna che lo stava fissando inebetita. E che poteva dire al bambino di circa dieci anni che stava giocherellando con un video game tascabile: forse non sapeva ancora, forse la madre gli aveva pietosamente risparmiato i particolari dell’orribile fine che era toccata a suo padre. Olson si sentiva a disagio.
La donna parve scuotersi e lo tolse dall’imbarazzo.
"Lo odiavo, quel bastardo!"
Scoppiò a piangere convulsamente. Il tenente rimase alquanto sorpreso da quella confessione. Guardò l’agente che si strinse nelle spalle, restituendogli l’occhiata interrogativa. La donna riprese, singhiozzando.
"Era...era un bastardo, ma non si meritava quella fine...Non si meritava di essere fatto a pezzi..."
Mentre la donna riprendeva fiato, Olson si sentì in dovere di intervenire e di confortare quell’infelice. Stava per parlare quando lei continuò:
"Io credo di aver visto chi lo ha ammazzato!"
Olson lasciò cadere la matita che aveva in mano. Fece cenno all’agente di passargli il registratore tascabile. Chissà, forse quella era la volta buona.
"Dunque, signora, cerchi di calmarsi e mi racconti tutto!"
La donna si asciugò le lacrime con la manica del giaccone.
"Non c’è molto da dire. Avevamo litigato, come al solito, e come sempre mi aveva di nuovo picchiata e aveva preso a schiaffi mio figlio Manuel..."
Si volse verso il bambino seduto accanto a lei: stava continuando il suo gioco. Smise per un istante e guardò la donna. Gli occhi della madre avevano iniziato a gonfiarsi di nuovo d lacrime. Riprese:
"Dopo lui è uscito. Ho colto l’occasione al volo e ho deciso di andarmene per sempre. Ho preparato un borsone ho preparato mio figlio. Avevo chiamato un taxi, ma era in ritardo e per evitare di essere sorpresa in casa da Bob sono uscita e abbiamo iniziato a percorrere la strada che il taxi avrebbe dovuto fare per venire a casa nostra. Stavamo camminando quando ad un certo punto ho sentito delle urla nel vicolo vicino a noi. Mi pareva una voce familiare. Mi avvicinai incuriosita vidi, anche se era molto buio, mio marito Bob che stava discutendo con un tizio..."
"Quanto è alto suo marito?"
"Circa un metro e settanta..."
"Quell’uomo era più alto di suo marito?"
"Sì, direi di sì, anche se non di molto"
"Un metro e ottanta? O.k. Vada pure avanti."
"Aveva un cappotto o un impermeabile. Lo ha allargato ha tirato fuori qualcosa e ha colpito Bob più volte. Ho sentito le sue urla. Poi non ce l’ho più fatta e sono scappata..."
La donna parve aver esaurito ogni energia e riprese a piangere, disperata.
"Aspetti un momento, signora, per favore. Mi dica, lo ha visto in faccia?"
"Era molto buio. Posso dirle che aveva i capelli lunghi..."
"Si sono parlati? Ricorda qualche frase, un nome? Secondo lei, si conoscevano?"
"No l’uomo non ha parlato. Solo Bob stava gridando e poi...ho sentito solo le sue urla. Dio mio!!"
Scoppiò di nuovo a piangere, tenendosi il viso tra le mani. Manuel stava ancora giocando con il suo video game, a testa bassa. Ma all’improvviso scoppiò anche lui in lacrime, abbracciando la madre esausta.
Olson cercò di continuare ancora l’interrogatorio tra mille difficoltà, ma non ottenne più nulla di utile. Salutò la donna e la fece accompagnare dall’agente. Richiuse la porta dell’ufficio. Il suo sesto senso gli diceva che qualcosa si era inceppato nella mente dell’assassino. Perché non aveva terminato l’opera? Forse il colpo infertogli dalla vittima gli aveva scombussolato qualcosa nel suo freddo e perfetto comportamento. Aveva addirittura abbandonato l’ascia. Probabilmente era scappato chissà dove. In una città di otto milioni di abitanti era un’impresa riuscire a trovarlo.
"Ehi, Olson!!"
Era di nuovo l’agente Johnson che lo stava chiamando, indicandogli la cornetta che aveva nella mano destra. Un istante dopo il telefono squillò:
"Parla Olson"
"Ciao, onorevole amico!"
"Wuang Li, ma non dormi mai tu?"
"Puoi ringraziare il cielo che in questo periodo non riesco facilmente a prendere sonno. Pensa che per riuscire ad addormentarmi devo..."
"Wuang Li, per favore!"
"Devo darti una gran bella notizia. Stavo tornando a casa questa notte, in tutta fretta, perché sai, faceva molto freddo..." il cinese sogghignava.
"Taglia corto o metto giù"
"Non ti conviene, onorevole amico, perché ho visto l’uomo che stai cercando!"
"Oh Cristo, sei sicuro?"
Olson scattò sulla sedia, prese penna e taccuino e chiamò l’agente Johnson.
"Certo, perché l’ho guardato bene. Mi sembrava sconvolto. Ti sto telefonando da una cabina di fronte alla discoteca K FOX. È entrato lì e non è ancora uscito...Contento?"
"Non ti muovere e soprattutto non fare cazzate.. Arrivo subito. Ah già...grazie Wuang!!"
Sbatté giù il telefono, mentre l’agente entrava nell’ufficio con aria assonnata. Ci pensò Olson a svegliarlo.
"Ascoltami bene. Manda subito due auto alla discoteca K FOX. Sai dov’è? Bene. Senza sirene, senza fare casino. Se per caso esce un tipo con un impermeabile, sulla quarantina, brizzolato, capelli lunghi, alto circa un metro e ottanta, bianco....Hai scritto? Lo devono trattenere. Basta. Non devono entrare nella discoteca. O.k.? Hai capito tutto? Io sto andando là."  

.............................
 

Scese velocemente dall’auto e andò incontro a Wuang Li.
"Freddo, eh? È ancora dentro?"
"Sì, certo!"
Olson tirò un sospiro di sollievo.
"Ti devo chiedere una cosa. Non sei obbligato a farlo. Tu sei l’unico che può riconoscerlo. Dovresti venire dentro."
"Certo, andiamo!"
Il cinese non ebbe la minima esitazione. Olson non capì subito la sua improvvisa disponibilità, dal momento che pochi giorni prima l’aveva pregato di non coinvolgerlo più in quel caso. Forse il suo era una sorta di eroismo o lo faceva perché aveva un suo codice d’onore? Probabilmente Wuang Li aveva solo il desiderio di far finire presto quella storia: voleva solo togliersi il dente che gli faceva male.
Olson si presentò alla cassiera esibendo il distintivo. La ragazza trasalì. Cercò con gli occhi il titolare.
"Stia tranquilla, non siamo qui per una retata. Stiamo cercando un tipo con un impermeabile viola. Sappiamo che è qui. È un tipo un po' strano, forse è ferito... capelli lunghi..."
La ragazza fece cenno al tenente di fermarsi un momento:
"Forse so di chi state parlando."
"Molto bene. Allora se, mentre noi siamo dentro, quel tipo dovesse uscire lei non deve far altro che dirlo all’agente che resterà qui. O.k.? Grazie per la collaborazione"
Olson entrò con Wuang Li e tre agenti in borghese. Fortunatamente a quell’ora la discoteca era quasi vuota. Wuang Li guardò in giro ma non vide nessuno che potesse assomigliare a quell’uomo. Si fecero strada tra i pochi che ancora si ostinavano a resistere benché fossero le quattro del mattino. La musica era assordante e le luci psichedeliche rendevano indefiniti i tratti somatici dei volti. Per una frazione di secondo Wuang Li lo vide tra i ragazzi appoggiati al bancone del bar. Informò Olson, che subito notò il lungo impermeabile. Si avvicinò e si accorse della ferita sul volto. Lo attraversò un fremito: era sicuro che quell’uomo era l’assassino. Chiamò l’agente alla sua destra e gli indicò il tipo. Fece cenno a Wuang Li di fermarsi.
In una frazione di secondo gli furono addosso.
L’uomo non oppose resistenza. Anzi Olson gli lesse negli occhi una sorta di rassegnazione, di sollievo.
In un angolo un ragazzo stava osservando la scena. Iniziò a recitare una sequela di parole incomprensibili.

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