UN UOMO NEL BUIO
di: Claudio Pellegrino
I
Quando gli comunicarono che molto probabilmente c’era stata la sesta vittima, Olson non si stupì: in un certo senso se l’aspettava. Anzi...doveva esserci! Infatti non si sarebbe mai dato pace se Jack fosse stato l’ultimo. Ciò nonostante si preoccupò non poco della situazione. Probabilmente, visto la sua inefficienza, il Capitano Freewell gli avrebbe tolto senz’altro il caso. Da un certo punto di vista la cosa avrebbe anche potuto non dispiacergli in quanto gli avrebbe levato un bel peso dallo stomaco. Ma, da un altro punto di vista, ciò gli avrebbe provocato una frustrazione e un senso di impotenza notevoli, ora che, oltre alla componente professionale, un’altra motivazione lo spronava a continuare a lottare con tutte le sue forze: la vendetta per Jack.
Lo chiamò il sergente Tompson. In un attimo indossò il cappotto e si accese una sigaretta: i polmoni potevano andare al diavolo, come tutto il resto , d’altra parte...
Si sistemò sul sedile posteriore dell’auto. Sfrecciarono ad una velocità folle per le strade insidiose e deserte. Più di una volta l’agente alla guida controllò per poco la sbandata. Comunque arrivarono praticamente per ultimi: parecchie auto con i lampeggianti accesi ostruivano il vicolo, illuminato in modo innaturale, quasi grottesco: sembrava una discoteca, pensò Olson, sì, proprio una discoteca "Red and Blue"!! Rise per la stupidità del pensiero. L’agente che stava camminando velocemente accanto a lui lo vide sorridere e gli venne spontaneo chiedergli:
"Tenente, si diverte?"
Olson non rispose. Si fece invece largo in mezzo alla piccola folla che si era creata, esibendo il distintivo.
Finalmente lo vide. Come gli altri prima di lui, anche questo era in un lago di sangue. Sembrava il solito rituale...Eppure ad Olson parve mancare qualcosa...
Rivide nella sua mente, in rapida successione, le foto scattate alle altre vittime, come in un film, e alla fine aggiunse l’immagine che aveva davanti agli occhi: qualcosa non quadrava. Si accorse infatti che mancavano le candele, le croci sul petto, il disegno. Eppure il suo istinto gli diceva che era stata la stessa mano a compiere anche questo delitto. Un agente gli portò l’ascia, ritrovata poco lontano dal corpo di Bob Keaton: era ancora sporca di sangue. Senz’altro la Scientifica avrebbe stabilito che quella era l’arma di tutti e sei i delitti. Si unì agli altri agenti che stavano cercando qualche indizio. Osservò con attenzione ogni centimetro quadrato di vicolo. Non passarono cinque minuti che scoprì, semicoperti dalla neve, alcuni cocci di vetro. Li raccolse con delicatezza e si accorse che era coperti da una sostanza scura che aveva tutta l’aria di essere sangue. Di chi era quel sangue? Della vittima o dell’assassino? Se l’ultima della sue ipotesi si fosse rivelata esatta allora era possibile che quel poveraccio, forse, era riuscito almeno a difendersi. Inoltre poteva darsi che il suo uomo fosse ferito...magari gravemente!
Si fece consegnare da un agente della Scientifica un sacchettino di nylon e ripose con cura i cocci. L’agente si fece spiegare da Olson cosa fossero.
"Sarebbe un bel colpo di fortuna!"
Olson si spostò e si accese un’altra sigaretta. Cercò di ordinare gli indizi che adesso aveva: un ciondolo, l’arma del delitto, una descrizione sommaria, forse il suo gruppo sanguigno, forse addirittura le sue impronte digitali sul manico dell’ascia... Era sicuro comunque che, pur ammettendo una possibile ma poco probabile stupidità e inesperienza dell’assassino, gli sarebbero servite a poco, in quanto il suo uomo doveva essere senz’altro incensurato e quindi non schedato. D’altra parte il suo jolly l’aveva già giocato con il caso Ted Spark...
Fu strappato ai suoi pensieri dai flash dei fotografi che stavano immortalando la terribile e poco dignitosa fine di Bob Keaton, manovale, giocatore d’azzardo, alcolizzato, quarantatré anni, sposato, un figlio, incensurato.
Arrivò finalmente il Coroner per gli accertamenti del caso. Anche questo era una vecchia conoscenza di Olson. Si avvicinò per salutarlo amichevolmente.
"Cristo santo, ma quando lo beccate?"
Olson lo guardò senza rispondere. D’altra parte non sapeva che cosa dirgli: una settimana, forse due...magari mai. Infatti se per caso il macellaio avesse deciso all’improvviso di smettere di fare a pezzi la gente probabilmente ci sarebbero stati sei efferati delitti senza colpevole. Per avere qualche probabilità di essere catturato avrebbe dovuto ancora continuare ad uccidere: prima o poi si sarebbe tradito.
Olson si vergognò profondamente della sua cinica conclusione perché voleva dire che altre persone avrebbero sofferto, altre persone sarebbero state fatte a pezzi...
"Presto, Peter, spero molto presto!"
Finalmente gli rispose, dandogli una amichevole pacca sulla spalla. Il Coroner vide la tristezza nei suoi occhi e non insistette. Arrivarono due uomini con una bara zincata e , pezzo per pezzo, ricomposero la vittima, chiudendo finalmente la cassa, togliendo alla vista dei presenti l’orribile spettacolo.
Olson osservò la scena e pensò quante altre volte avrebbe dovuto assistere a quel rituale macabro della composizione di una salma. Forse era proprio stanco, forse non ne poteva proprio più di tutto quel sangue, di quei morti, di quella assurda carneficina. Chi poteva essere così spietato da ammazzare sei persone in un modo così barbaro? Pazzo e lucido: ci voleva sangue freddo a scoprire il petto della vittima, inciderne le carni, accendere quattro candele, lasciare il disegno...e tutto questo dopo aver massacrato una persona!! Veramente non riusciva a immaginare chi potesse essere capace di tanto...Poi magari sarebbe saltato fuori che era un tranquillo impiegato con qualche mania pseudo religiosa, o un’infanzia difficile alle spalle o...Non riuscì ad andare oltre.
Salutò i colleghi, chiamò l’agente che lo aveva accompagnato e lo pregò di riportarlo alla Centrale.
L’agente Johnson cercò di fare conversazione, per rompere il pesante silenzio che era calato nell’auto.
Olson capì le sue intenzioni, ma non lo assecondò: sbuffò e si voltò ad osservare la città che gli scivolava veloce sotto gli occhi.
II
Stava correndo a perdifiato da mezz’ora.
Il freddo aveva contribuito in modo determinante a far rimarginare, almeno provvisoriamente, la ferita sulla fronte e sulla guancia. Stava correndo senza sapere dove fosse finito...stava correndo e basta. La testa gli pulsava dolorosamente, ma la cosa stranamente non lo turbava affatto, anzi era un modo come un altro per sentirsi reale, finalmente padrone delle sue sensazioni.
Si fermò trafelato accanto ad un semaforo: vi si appoggiò, inspirando affannosamente una quantità enorme di aria gelata, che gli provocò ben presto un acuto dolore al torace. Restò qualche minuto con la testa bassa e la mano appoggiata al semaforo: sembrava stesse vomitando.
In quella posizione curiosa, accaldato e affannato, la porta si riaprì.
La luce che ne scaturì gli invase la mente, impedendogli di vedere o pensare altro. La vista gli si annebbiò e le scarpe inzaccherate che stava fissando sfuocarono fino a scomparire. Sentiva voci lontane, oltre la luce: una donna e un bambino...forse. Erano frasi concitate, che si accavallavano. Poi un urlo agghiacciante, poi un secondo, poi un terzo... Sentì il suo nome gridato, urlato, implorato, poi voci che lo rassicuravano...Tornò il silenzio. La luce divenne sempre più tenue fino ad assumere una colorazione rossastra, poi sempre più rosso vivo, fino a diventare una enorme macchia rosso-sangue. Inorridì, di nuovo. Cercò di scacciare quella visione con la poca forza che ancora aveva. La macchia si rimpicciolì fino a scomparire del tutto, lasciando il posto ad un bianco irregolare, macchiato...la neve.
Stava di nuovo guardando la neve, i suoi piedi sul marciapiede. Alzò lo sguardo e vide che, a parte un vecchio magro e piccoletto che lo stava fissando incuriosito, la strada era deserta.
La disperazione lo conquistò, lentamente ma inesorabilmente. La disperazione...qual era il limite della disperazione? Fino a che punto un uomo poteva sopportarla prima di scoppiare? Non lo sapeva, e si rendeva perfettamente conto che non sarebbe più durato a lungo quel calvario.
Si sentiva come sotto una campana di vetro, vedeva il mondo, incredibilmente nitido, come filtrato.
Che cosa stava succedendo? Perché aveva ucciso quell’uomo? Aveva solo adesso preso coscienza che era un assassino. Seguendo i suoi principi avrebbe dovuto costituirsi, ma la sua mente riusciva ancora ad accampare scuse. Lui si sentiva obbligato ad uccidere. Ma...da chi?
Riuscì finalmente a staccarsi da quel semaforo. Forse un po' di movimento gli avrebbe giovato. Imboccò Church Road. E dopo qualche passo iniziò ad accorgersi che quella strada non gli era del tutto sconosciuta: c’era già stato, quei muri gli ricordavano qualcosa. Il suo sguardo cadde su una porta. Vide una macchia densa e scura. Gli rimbombò nella mente una frase: "Mio Dio, ma che fai?". Rivide una donna negra davanti a lui, che gridava terrorizzata, vide le sue mani protendersi per chiedere pietà, vide un’ascia colpirla più volte, la vide cadere a terra in un lago di sangue, vide i suoi occhi sbarrati. Vide mani sicure strappargli la camicia, il reggiseno, vide una lama inciderle le carni, più volte, a formare una serie di tre croci, vide mani insanguinate accendere delle candele, vide...
Sentì una frase perentoria attraversargli la mente "Kon si ku raban!!". Si fermò un istante per capire che cosa stesse succedendo: quelle voci, quelle maledette voci sempre uguali, incomprensibili, conosciute...
C’era però una differenza dalle altre volte: le sentiva estranee, non in lui. Si sentiva sdoppiato: una parte della sua mente conosceva quelle voci e cercava di capirle e ascoltarle, l’altra parte le detestava e cercava di scacciare quei versi animaleschi, fastidiosi...
Eppure sapeva che avrebbe dovuto ancora fare qualche cosa, là in quel vicolo, dopo aver massacrato quell’uomo.
Anche se con riluttanza cercò di rivivere la scena della donna negra e confrontò quella scena con quella accaduta circa un’ora prima. Ecco...mancavano le croci, le candele, il segno. Per cosa? Tornarono le voci: "Il fratello lascerà il sua segno affinché Satana lo riconosca e lo onori nel suo regno..."
"Oh mio Dio!" sussurrò disperato, tenendosi la testa tra le mani "Satana lo riconosca...Satana..."Chiuse gli occhi ancora una volta. Vide una grande stanza, sentì molto freddo. Sentì tante voci che parlavano insieme, in una cacofonia di suoni e urla. Ormai voleva andare fino in fondo, voleva capire. Cercò di respirare profondamente. Si ricordò che una volta il suo medico gli aveva consigliato di fare in quel modo per cercare di attenuare l’ansia che gli torceva le budella all’inverosimile. Cercò di liberare la mente, cercò di scacciare la visione che di tanto in tanto si affacciava di nuovo alla mente. Doveva essere sangue, un abisso di sangue, ma era troppo forte il bisogno che aveva di lasciarsi andare e capire.
Continuò a camminare ancora per una ventina di minuti lungo i marciapiedi deserti. Vide in lontananza un’insegna luminosa: "K FOX DISCO". Il freddo gli era entrato nelle ossa e quindi decise di andarci.
Si avviò deciso in quella direzione e in pochi minuti era sull’ingresso, una porta con una scala illuminata da una luce bluastra.
Si appoggiò al banco della cassa con un biglietto da venti dollari in mano. La cassiera lo osservò con aria interrogativa: nella penombra della discoteca sembrava sporco, con una vistosa macchia scura sulla fronte e sulla guancia. Realizzò ben presto che doveva essere sangue rappreso.
Mentre cercava il resto, la ragazza fece un cenno ad un uomo sulla quarantina, appoggiato ad uno specchio, poco lontano, molto occupato a cercare qualcosa nella narice sinistra. Si staccò dalla parete svogliatamente.
"Che c’è, Karen? Problemi?"
Lei non parlò, ma gli indicò con gli occhi l’uomo che stava ritirando il resto di cinque dollari.
"Ehi, amico! Guardami! A me non interessa se quel taglio le lo ha fatto Jack lo Squartatore, un marito incazzato o se sei caduto dal sesto piano. Tu hai pagato e hai il diritto di entrare. Ma a me interessa solo una cosa: non fare casino, non pensarlo nemmeno. O.k.?" fece una pausa poi concluse il suo sermone: "Ti tengo d’occhio...Attento!"
"Sta tranquillo"
Dovette quasi gridare per farsi capire: la musica era assordante. Finalmente entrò.
Nonostante l’ora tarda gente e fumo erano in abbondanza. Si fece largo tra la massa umana che si agitava e urlava. Sembravano tutti fatti o ubriachi. Vide una poltrona libera, la raggiunse a fatica e vi si lasciò cadere, esausto.
Cercò un fazzoletto, lo inumidì con un po' di saliva e iniziò a pulirsi la fronte. Gli doleva molto più di prima e ne avvertì il gonfiore.
"Nottataccia, eh?"
La voce proveniva da una poltrona vicino alla sua. Abbassò il fazzoletto e guardò in quella direzione. Era una stupenda ragazza di colore, poco più che ventenne, con una minigonna più simile ad una strisciolina di stoffa che ad un indumento.
L’uomo si sentì quasi obbligato a dare una spiegazione per il suo aspetto. Ma gli venne molto male:
"Sono caduto su una bottiglia..."
Ci mancò poco che la ragazza non gli scoppiasse a ridere in faccia per l’assurdità della frase. Capì ovviamente che era una balla, ma capì anche che forse quel tipo non era poi tanto in vena di fare conversazione. Così non fece nulla e si limitò ad aggiungere un banale "Ah". Non andò oltre, anche perché aveva imparato a sue spese che era molto meglio non dar fastidio agli sconosciuti.
L’uomo intanto aveva ripreso le sue operazioni di pulizia.
"Hai una sigaretta?"
Lui non capì. La musica sembrava essere più assordante di prima. Lei ripeté la frase alzando il tono di voce. Gliela porse. Cercò l’accendino e gliela accese. Fece così anche per lui. La guardò mentre inspirava con foga il fumo: la brace le illuminò per pochi secondi il viso scuro. Era molto carina.
"Come ti chiami?"
"Miriam Goldsmith"
Lei gli porse la mano. Lui gliela strinse e si presentò :
"Frank Bishop."
Era il primo nome che gli era venuto in mente. Avrebbe potuto anche dare il suo nome vero, tanto neanche per lui aveva più significato...Henry Kenz...Cercò di non ricadere in pensieri dolorosi. Cercò di interessarsi a quell’incontro:
"Che fai di bello nella vita, Miriam?"
"Studio."
Mentre rispondeva abbassò lo sguardo. C’era una profonda tristezza in lei, come se avesse qualcosa che la stesse tormentando.
"Università?"
Lei sorrise e si lasciò cadere sullo schienale. L’uomo non poté fare a meno di far scorrere lo sguardo sul suo corpo. Ne convenne che era praticamente perfetta. La ragazza parve sentire i suoi occhi su di lei. Si tirò su.
"Anche...Ma a dire il vero faccio un po' di tutto...Non chiedermi che cosa, ti prego!"
Lo guardò e sorrise di nuovo, ma solo con le labbra: gli occhi erano sempre molto tristi.
"Vivi con i tuoi?"
Che domanda stupida! Non era mai stato molto in gamba nelle conversazioni occasionali. Anzi a dire il vero le aveva sempre evitate. Adesso c’era dentro e aveva una gran voglia di interromperla. La ragazza sembrava scocciata da tutte quelle banalità. Il sorriso scomparve. Sembrò non aver sentito la domanda: guardava la pista centrale, stracolma di gente agitata. Muoveva leggermente la testa a tempo di musica. Poi si girò e lo guardò:
"Fino a due settimane fa vivevo con mia madre..."
"Vivevi?"
"Mia madre è stata ammazzata due settimane fa da un uomo che le ha staccato la testa!"
Si voltò di nuovo verso la pista.
Fu in qual momento che l’uomo finalmente capì con chi stava parlando. "Goldsmith!" si ripeté l’uomo. Sentì di nuovo quelle grida, rivide la donna implorare, rivide l’ascia e tutto il resto. La vista si annebbiò: la disperazione che gli aveva dato tregua qualche minuto riconquistò tutto il terreno perduto. "Sono un assassino, sono un assassino..."la sua mente continuava a ripetergli quella frase con insistenza, quasi a convincerlo di una realtà che ormai gli si stava gradualmente manifestando.
Si alzò senza curarsi più della ragazza. Aveva bisogno di bagnarsi il viso. Cercò con gli occhi la porta del gabinetto.
Si diresse verso la parete di destra ed entrò nella toilette in preda ad una evidente crisi nervosa.
© Claudio Pellegrino - © 1998 ARPANet. Tutti i diritti riservati. Riproduzione vietata.
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