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UN UOMO NEL BUIO
di: Claudio Pellegrino


CAPITOLO UNDECIMO

IV
 

Wuang Li salì la lunga scala che lo portava all’appartamento 132 pensando una sola cosa: il saggio avrebbe dovuto aiutarlo. In effetti aveva passato le ultime ore a meditare su ciò che Olson gli aveva comunicato verso le dodici. L’amico, informandolo che il suo ristorante si trovava nel bel mezzo di un ipotetico cerchio, tracciato col sangue delle vittime della fantomatica setta, aveva cercato di sdrammatizzare, evitando toni melodrammatici. Ma lui non ci era cascato. Fosse stata solo una coincidenza ininfluente il tenente avrebbe evitato di dirglielo: invece lo aveva tenuto al telefono per più di venti minuti parlando della donna che era andata alla Centrale, del cerchio che anche lei aveva notato, e infine ridicolizzando, ma non troppo, la deposizione della ragazza stessa. Era quel "ma non troppo" che aveva fatto accendere una lampadina nella sua mente, peraltro ancora acutissima. Forse c’era del vero in ciò che la donna aveva raccontato e forse era proprio il suo ristorante la spiegazione di tutto. Il ristorante o quello che stava sotto al ristorante? I sotterranei gli avevano sempre trasmesso una sorta di disagio irrazionale, che lui comunque aveva sempre deciso di ascoltare. La telefonata di qualche ora prima non aveva fatto altro che avvalorare queste sue sensazioni, e così gli era tornato alla mente un fatto di qualche tempo addietro.
Era autunno. Era sceso nella cantina per prendere alcune lattine di coca cola, quando aveva sentito rumori provenienti da qualche luogo sotto di lui. Per quanto ne sapeva al piano inferiore altro non c’era se non qualche cunicolo della vecchia metropolitana. Aveva posato le lattine su una cassa e si era chinato, appoggiando l’orecchio al pavimento. Si era reso conto allora che più che rumori si trattava di voci confuse. Gli era parso anche di aver udito un grido. Il fatto, a quel tempo, lo lasciò perplesso. In quel momento, invece, quel ricordo gli fece accapponare la pelle. Voleva un consiglio dal vecchio Quo Weng La.
Bussò tre volte, come era stato convenuto, e nello stesso momento pensò che forse il suo connazionale ne aveva avuto abbastanza del precedente incontro cui aveva assistito anche il suo amico Olson. Si accorse che la porta era aperta.
C’era qualcosa che non andava. La spinse lentamente, con il cuore in gola. In fondo alla stanza vide il vecchio e si rassicurò. Comunque non lo accolse cordialmente, anzi, a dire il vero, non lo salutò neppure. Era seduto su cuscini rossi e gialli, immobile, inespressivo, pallido come mai Wuang Li lo aveva visto. Lo salutò con un inchino più profondo del solito. Il vecchio Quo Weng La non rispose: infatti, quando si rialzò, notò la stessa espressione sul suo volto e i suoi occhi continuavano a fissare un punto non ben definito al di sopra della sua testa. Si avvicinò, parlandogli timidamente. Quando finalmente giunse a meno di un metro da lui si rese conto che c’era qualcosa di innaturale nello suo sguardo: le palpebre erano come incollate e per tutto il tempo che lui lo fissò non sbatterono mai. Pareva in trance. Allora Wuang Li si fece coraggio e lo scosse leggermente. Il corpo del vecchio finalmente si mosse, esitò un attimo e poi cadde pesantemente sul tappeto su cui era seduto. Wuang Li ebbe allora la conferma dei suoi timori: un alone rosso scuro faceva da cornice al manico di un coltello, profondamente conficcato nella schiena del cinese.
Si sentì mancare, ma tenne duro. Si precipitò all’uscita e percorse la lunga scala con una rapidità impensabile fino a pochi minuti prima. Si ritrovò in strada con un libro in mano: ci mise qualche secondo per ricordarsi che lo aveva raccolto accanto al corpo del suo amico.
 

V
 

Kate uscì dalla doccia leggermente rinfrancata. Sentì suonare il videocitofono. Doveva essere senz’altro l’agente promesso da tenente. Ripensò ancora una volta alle due telefonate ricevute neanche mezz’ora prima: era pazzesco come gli avvenimenti stessero precipitando. Fino ad un mese prima tutto era filato liscio, tutto perfetto, quasi noioso. E ora in poche ore aveva visto in televisione Henry Kenz, aveva dovuto riconoscerlo, aveva ricevuto due telefonate minatorie.
Arrivò all’entrata e guardò il video. Il nome sul tesserino corrispondeva a quello che le aveva comunicato Olson. Pigiò il pulsante per sbloccare la porta. Aprì anche la porta d’entrata, la lasciò socchiusa e si diresse in bagno per asciugarsi i capelli. Passarono forse due minuti prima che sentisse lo scatto della porta. L’agente era arrivato. Alzò la voce per farsi sentire:
"Si accomodi, arrivo subito."
Non ci fu risposta. Per un attimo pensò ad una cosa assurda: "E se non è lui, ma sono loro?" Spense l’asciugacapelli e lo appoggiò sul bordo del lavandino. Si guardò nello specchio e vide rivoli di sudore percorrerle le tempie e scivolare sulle guance accaldate. Si maledisse per la sua imprudenza. Perchè aveva aperto la porta ed era andata in bagno? Adesso qualcuno poteva già essere comodamente seduto in poltrona, nel soggiorno, con un’ascia appoggiata sulle gambe...
Cercò di convincersi che erano passati solo pochi minuti, che stava esagerando. Finalmente si decise ad uscire dal bagno. Era un agente, o meglio, era vestito da agente: su questo non c’erano dubbi. Si sentì subito più sicura. Comunque l’agente doveva essere appena entrato perchè non si era ancora seduto: era in piedi di fronte al tavolino del soggiorno e stava toccando qualcosa con un espressione di disgusto sul viso. Guardò meglio il suo tavolino e notò una massa scura appoggiata sul vetro. Anche lei rimase senza parole. Si avvicinò lentamente e finalmente capì il perchè di quell’espressione di ribrezzo sul viso del poliziotto. Sul suo tavolino era mollemente disteso un gatto nero sventrato. Le interiora erano fuoriuscite e il sangue stava colando lentamente sul Kilim. I due si guardarono senza dire niente. Poi Kate allentò i muscoli irrigiditi e si abbandonò ad un urlo di orrore.
Era ancora sconvolta quando Olson entrò nel suo appartamento. Cercò di rincuorarla ma lui stesso si rendeva conto che le sue parole e i suoi gesti erano perlomeno inadeguati, se non completamente inutili. Fu assalito da una rabbia interiore che non riuscì, per ovvi motivi, a sfogare adeguatamente.
Guardò anche lui il gatto nero. "Poveraccio anche lui" pensò tra sè mentre cercava di far allontanare il più possibile i curiosi che si erano affacciati sulla soglia della porta d’ingresso. Allontanò anche gli agenti: ormai il loro lavoro era finito. Kate parve calmarsi.
Guardò l’orologio: aveva poco più di un’ora per prepararsi ed andare alla galleria: a tutti i costi non voleva farsi influenzare dagli avvenimenti degli ultimi tempi. Aveva sbagliato a lasciare la porta socchiusa e non l’avrebbe più fatto. Doveva assolutamente convincersi che la sua vita era in pericolo e lei quindi doveva agire di conseguenza. Tutto qui.
"Tenente, io vado a prepararmi, devo uscire"
Fece per andare in bagno ma si fermò, tornò indietro verso il tenente e gli sussurrò:
"Ho paura. Sanno dove abito. Possono ammazzarmi quando vogliono. Mi aiuti, la prego."
"Stia tranquilla, Kate. La accompagnerò io alla galleria d’arte. La terrò d’occhio per tutto il tempo. Poi comunque dovremo prendere dei provvedimenti: qui non è più sicura."
Sorrise e fece un cenno col capo per confermare ciò che aveva appena detto. Kate si sentì un po' più tranquilla: quell’uomo le infondeva una certa tranquillità.
Finì di truccarsi e Steve ancora non era arrivato. La cosa le parve molto strana. Quando ormai aveva perso ogni speranza di vederlo sentì il campanello dell’ingresso. Si precipitò a rispondere: era lui. Sì, era lui, però...Le bastò un’occhiata nel piccolo monitor del videocitofono per capire che quello che stava per salire era solo il fantasma di Steve. Per un attimo associò quello sguardo vuoto ad un altro che aveva visto tante volte: sembravano gli occhi stanchi e vacui di Henry Kenz. Schiacciò il tasto con riluttanza. Cosa stava succedendo alla sua vita? Finì di prepararsi e quando Steve apparve sulla soglia, era pronta.
 

VI
 

Durante il tragitto nessuno parlò. Il tenente fischiettò per tutto il tempo, quasi a dare un’impressione di indifferenza, di noncuranza, nei confronti dei due passeggeri che aveva a bordo, come dire loro: "Se volete parlate pure, tanto io non ascolto!". Ma a quanto sembrava nessuno dei due aveva la minima intenzione di fare conversazione. Arrivarono alla galleria in perfetto orario. Olson parcheggiò in seconda fila. Si girò verso Kate e disse:
"Qui sarà al sicuro, c’è molta gente. Io devo assolutamente andare. Il mio numero ce l’ha. Quando decide di andare a casa mi avverta. Ovviamente, non vada n giro con qualcuno che non conosce. Questo è molto importante."
Kate lo ringraziò per le sue attenzioni. Dopo essersi assicurata che a casa ci sarebbe stato un agente ad aspettarla, scese salutandolo cordialmente. Steve, neppure in quella circostanza, parlò. Quando finalmente furono soli Kate non riuscì più a trattenere la domanda che le pesava da quando aveva visto nel monitor il volto stravolto:
"Cosa ti sta succedendo, Steve?"
Non parlò subito. Parve infatti cercare le parole più adatte per giustificare il suo stato. Ma non trovò altra spiegazione se non nel fatto che non si sentiva affatto bene, da qualche giorno. Si sentiva strano e depresso a non ne conosceva la ragione. Kate in quel momento forse capì il perchè delle sue stranezze, ma scacciò subito quella possibilità: non poteva essere, era solo esasperata.
Arrivarono sulla porta d’ingresso della sala d’arte.
Nel mezzo del salone, dietro una scultura abominevole di uno strano artista giapponese, sbucò Van der Haalt, che venne loro incontro, sorridendo. Steve si bloccò appena lo vide. Qualcosa, nella sua testa, si stava muovendo a fatica, ma una fitta tremenda lo fece desistere. Impallidì vistosamente, ma nessuno parve accorgersi di quel particolare, neppure Kate, che era davanti a lui e si stava dirigendo a sua volta verso l’olandese. Steve restò indietro, immobile. Poi qualcuno lo toccò su una spalla e lo invitò a seguirlo. Steve guardò sconsolato Kate che stava per essere presentata a due uomini distinti. Ebbe di nuovo la sensazione che non l’avrebbe più rivista. Infine seguì l’uomo verso una zona in penombra.
Kate stava intanto recitando le frasi di circostanza con un tedesco stentato, ma con sollievo apprese che i due parlavano un corretto inglese. Fu liberata dall’imbarazzo di costruire frasi in una lingua che conosceva poco e dimenticò completamente la presenza di Steve. Van der Haalt la accompagnò solo per pochi minuti, poi si congedò dai due illustri ospiti.
Uno dei due clienti la prese sotto braccio e la accompagnò verso un quadro in fondo al salone. La targhetta in metallo riportava il titolo dell’opera: "Un uomo nel buio".
Kate ebbe un sussulto.

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