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UN UOMO NEL BUIO
di: Claudio Pellegrino


CAPITOLO TERZO

I
 

L’ultima cosa che ricordava era la nebbia.
Una nebbia fitta, spessa, addirittura viscida e densa, tanto densa da avvolgere non solo il paesaggio circostante ma la stessa strada, l’auto...Era come essere in un buio profondo, senza la minima probabilità di poterlo lacerare con un cerino o una luce in lontananza.
Buio assoluto...nebbia assoluta.
Le era addirittura sembrato che stesse entrando nell’abitacolo, scivolando tra le fessure delle portiere, dalle prese d’aria: una sorta di sostanza liquida, densa come petrolio, incolore come l’acqua. Doveva essere entrata da sotto il cruscotto, perché avvertì un senso di freddo, di umido prima sulla caviglia e poi lentamente su per i polpacci, poi per le cosce. Non aveva resistito a quella sensazione sgradevole e aveva dovuto guardare e toccare: i collant infatti sembravano inzuppati nella gelatina. Istintivamente sentì il bisogno di pulirsi e senza curarsi del fatto che stesse guidando si sfregò le gambe con tutte due le mani.
Un istante dopo si sentì sbalzata dal sedile, come se qualcuno l’avesse spinta violentemente su un fianco. Le sembrò di vivere una situazione non sua, come se stesse seguendo alla televisione, in poltrona a casa sua, una scena di un film d’azione. Si vide sbattuta contro la portiera, poi contro il parabrezza...Tutto in una frazione di secondo.
L’ultima cosa che ricordava era la nebbia che stava entrando dal parabrezza frantumato, come acqua attraverso la falla di una nave...
Kate stava seduta sul letto, gli occhi fissi nella penombra della stanza, sudata, ansimante. Era stato un altro incubo, il secondo il tre giorni. l’altro sogno, anche se più nitido, era stato più distaccato in quanto lei non era stata coinvolta direttamente: l’orrore era forse stato maggiore ma era finito appena si era svegliata. Questo invece oltre ad essere stato fin troppo reale l’aveva vista protagonista e il risveglio non era bastato per riportarla alla realtà e permetterle di rimettersi sotto le coperte e riprendere tranquillamente a dormire.
Stava cercando di calmarsi.
Si toccò istintivamente le gambe e le sentì bagnate. Per una frazione di secondo sentì il panico soffocarla, fino a quando la sua mente non realizzò che non poteva e non doveva essere altro che sudore. Si guardò intorno e gli oggetti nella penombra a poco a poco la strapparono all’incubo e la riportarono alla realtà.
Tutto taceva in quella stanza. Sentiva solo in lontananza il rumore delle prime auto del mattino. Si alzò lentamente e si diresse verso la finestra. Guardò attraverso le fessure dell’avvolgibile e vide strisce rossastre, rosa, gialle. Realizzò che doveva essere l’alba, le sei o le sette. Ritornò sotto le coperte e vide Steve profondamente addormentato.
Si sentì finalmente meglio, si sentiva di nuovo reale, strappata definitivamente all’incubo. Accese la luce del comodino e si guardò nello specchio di fronte. Tutto era normale, tutto era ritornato normale. Cercò allora di ripensare al sogno, per poterlo meglio fissare nella mente, ma fu di nuovo percorsa da un brivido quando ricordò la nebbia che era entrata nell’abitacolo e l’aveva fatta sbandare. Cercò allora di pensare alla strada che stava percorrendo per capire dove fosse, ma le sfrecciavano davanti solo alberi alti e robusti, una sorta di viale: nessuna auto, nessuna luce, nessuna casa, bar o insegna luminosa. Tutto era immerso nel buio più profondo solo lacerato dai fari della sua auto. Poi all’improvviso la nebbia, come un muro grigio. Aveva cercato di frenare ma era stato tutto inutile, ora ricordava, perché quella massa densa le veniva incontro...
Fu invasa lentamente da un torpore liberatorio. Si sdraiò di nuovo accanto a Steve e prima di spegnere la luce lo guardò per un istante ancora: quel viso tranquillo come baluardo contro eventuali strascichi del terribile incubo. Quando sentì il clic dell’abat-jour ebbe ancora un attimo di panico, ma nonostante tutto si riaddormentò.
Si svegliò tre ore più tardi per il baccano che Steve stava facendo in bagno. La stanza era inondata da una calda luce.  

II
 

"Sai Steve, ho fatto un sogno molto strano..."
Stavano passeggiando sul Ponte Vecchio in mezzo a turisti e venditori abusivi.
"Di nuovo?"
chiese Steve, abbastanza stupito, mentre si avvicinava ad un africano che vendeva braccialetti e orologi.
"Si, ma questo è stato fin troppo reale, angosciante..."
"Beh, quello dello squartatore...non mi dirai che è stato divertente!"
"No, certo, ma in questo caso io ero protagonista, capisci? Facciamo così, io te lo racconto così potrai giudicare"
Ripresero a passeggiare, mano nella mano, mentre Kate narrava ciò che ricordava e lui pensava a quanto era stata bella la sua idea di fare l’amore quella mattina. Si ritrovarono in una piazzetta inondata di sole. Kate finì il suo racconto evitando molti particolari, in quanto aveva capito che Steve non la stava affatto ascoltando. Si fermò e iniziò a guardare in giro svogliatamente. L’occhio le cadde per caso su una locandina che pubblicizzava la mostra che avevano visitato il giorno prima. Si avvicinò interessata perché a dire il vero non aveva ancora visto di chi fossero quei quadri così enigmatici. C’erano infatti capitati per caso nella sala dell’esposizione, mentre visitavano altre sale di Palazzo Pitti. Lesse a voce alta: "Mostra personale del pittore Henry Kenz - Palazzo Pitti 12-13-14 gennaio 1990"
Chiamò Steve che si stava allontanando:
"Ehi Steve, guarda!"
"Oh no, Kate, questa volta non mi becchi più. Te lo giuro"
Steve era abituato a queste cose: una volta lo aveva praticamente costretto per ben tre volte a sorbirsi la stessa mostra di scultura ... Era stata un’esperienza terribile.
"No, stai tranquillo, non ci tornerei per tutto l’oro del mondo. Te l’ho detto: mi inquietava. Specialmente quel quadro...Come si chiamava? Ah si, "La disperazione"..."
"Che disperazione sei tu!!"
disse Steve sedendosi su una panchina. Ormai era rassegnato: la mostra era scongiurata, ma doveva per forza sorbirsi il suo solito monologo. Ma quella volta si sbagliò.
"Dai, Steve, cerca di capire. Io non intendo parlarti di quel quadro da un punto di vista artistico, come di una scultura, un affresco o che so. Ti voglio far capire che mi ha messo addosso un senso di inquietudine. Quella figura contorta, avvolta da quella tenebra viola lascia veramente trasparire qualcosa, una sorta di angoscia. Quello che voglio dire è che non la rappresenta ma la trasmette. Capisci? Guardando quel quadro mi sono sentita rapita, per un attimo ho avuto la sensazione che mi volesse prendere, che volesse comunicarmi qualcosa, di reale, una sorta di messaggio cifrato..."
"Addirittura?"
Steve si stava facendo coinvolgere da quel racconto molto più di quanto avrebbe voluto. C’era qualcosa di vero, di entusiasmante in ciò che stava dicendo Kate.
"Cosa ne pensi dell’artista? Intendo...come uomo?"
"È proprio questo il punto! Io non capisco come una mente umana possa essere tanto disperata da pensare un quadro come quello. Deve essere in preda ad una sorta di tremenda angoscia, di paura, di...Poi magari è un tranquillo padre di famiglia, con una moglie adorabile, tre bambini e una casa in collina. Chissà..."
Steve restò un attimo a guardarla. Ebbe la sensazione che un giorno o l’altro l’avrebbe persa. Non c’era molta logica in quella sua paura. Forse si sentiva solo diverso, se non addirittura inferiore a lei per la sua profondità e sensibilità, per la sua cultura e la sua personalità fortissima. Ma scacciò subito questo pensiero, convinto che comunque non avrebbe potuto fare molto: lui era Steve, pieno di vita, innamoratissimo di lei. Solo questo poteva mettere sul piatto della bilancia, era tutto ciò che aveva per tenerla.
E come per scusarsi la baciò con dolcezza sussurrando:
"Kate, sei stupenda...Ti amo!"
Lei provò profonda tenerezza per quella spontanea dimostrazione d’affetto. Lesse nei suoi occhi la sua paura, peraltro la maggior parte delle volte mal celata, e disse:
"Ti amo anch’io, stà tranquillo!"
Si alzarono. Era ormai l’ora di pranzo: erano tutti e due affamati. Ripassarono accanto alla locandina della mostra e fu a quel punto che Kate notò la piccola fotografia in basso a sinistra che riproduceva il viso del pittore.
"Steve...è lui!!"
disse , tirandolo a se per la manica del giubbotto.
"Lui chi?"
"Lui! Cristo, Steve...l’uomo vestito di viola che avevo incontrato a Wellington Park, quello di cui ti ho parlato!!"
Steve la guardò: era agitatissima. Sul volto aveva disegnato una sorta di stupore ed entusiasmo al tempo stesso, che però si spense quasi subito. Dal suo viso infatti il sorriso scomparve per lasciare posto ad un senso di angoscia che preoccupò non poco Steve: ebbe la certezza che Kate stesse guardando dentro la fotografia, come se fosse stata incantata dagli occhi infossati di quell’ Henry Kenz che già sentiva di odiare con tutto se stesso.

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