UN UOMO NEL BUIO
di: Claudio Pellegrino
I
Era da parecchi giorni che non aveva un momento per lei.
Kate amava la solitudine, intesa come scelta, come in quel periodo in cui era legata a Steve. Invece quando non aveva nessuno accanto a lei, amante o compagno che fosse, era sempre alla ricerca di contatto umano. In quei momenti non badava alla qualità ma alla quantità e le poche ore che trascorreva da sola erano vissute con una sorta di autocommiserazione. Si sentiva, incompresa, abbandonata a se stessa. Viveva in una dimensione tutta sua: questo era sempre stato il suo problema fondamentale. Si chiudeva in una campana di vetro dalla quale giudicava il mondo in modo asettico e distaccato. In un certo senso si poteva affermare che un pò le faceva paura quel mondo così diverso da come lei avrebbe voluto. Era il lato peggiore della sua personalità: al tempo stesso la inebriava e la deprimeva, la rendeva disperata ed euforica, sconvolta dal presente che doveva affrontare ed eccitata dal futuro che avrebbe potuto costruire. Aveva vissuto quasi due anni in quella condizione di incertezza e contraddizione. Poi aveva conosciuto l’uomo che scoprì successivamente essere il pittore Henry Kenz. La sua vita ne rimase sicuramente sconvolta. Perchè? Sapeva che era andata così ma non era mai riuscita a farsene una ragione. Neppure non era mai riuscita a capire se quello che provava per lui fosse amore o compassione, desiderio o tenerezza, attrazione o curiosità.
Certo che quell’esperienza l’aveva segnata più di quanto non avesse pensato. E infatti, mentre passeggiava per Wellington Park, la sua mente continuava a parlarle di Henry: per Steve non c’era posto. Se ne rammaricò ma non volle costringersi a pensare a lui.
Il suo olfatto fu sollecitato da un odore acre e inconfondibile: hot-dogs. Era una vita che non ne assaggiava uno.
Cercò qualche spicciolo e si avvicinò al chiosco. Il suo palato fu abbondantemente bagnato di saliva, non appena vide il wurstel ricoperto di senape. Lo addentò con foga: dal panino schizzò la senape che le macchiò gli angoli della bocca. Il desiderio fu appagato. I pensieri ripresero a colorarsi.
Cercò di analizzare che cosa aveva provato quando aveva visto la foto di Henry sulla locandina a Firenze. Ciò che le dava da pensare maggiormente non era stata tanto la sorpresa, che le pareva abbastanza comprensibile, quanto il desiderio improvviso di incontrarlo.
Sorrise pensando a come ci era rimasto il povero Steve. Ma il suo sorriso si spense: anche per lui provava compassione? Era possibile che lei dovesse sentirsi sempre al di sopra degli altri?
Ma, abile nel salvare la sua anima da inutili sensi di colpa, si convinse che non doveva complicare troppo le cose e liquidò così l’argomento Steve. Ritornò ad Henry.
Forse era solo stata la curiosità che l’aveva spinta a cercarlo al museo...o c’era dell’altro?
Camminava a testa bassa godendo del tepore che il sole invernale stava diffondendo in quel tranquillo angolo della città. Forse era stato il desiderio di un chiarimento. Infatti da quella famosa sera non l’aveva più rivisto. Chi erano le persone che erano tornate? Di chi aveva paura? Perchè non l’aveva neppure salutata? Due righe, una telefonata... niente. E ancora, perchè le aveva mentito? Era un pittore!! Pazzesco. A troppe domande avrebbe voluto rispondere. I pensieri si fermarono di nuovo.
Poi all’improvviso pensò al ciondolo. Sorrise pensando alla faccia che lui aveva fatto quando glielo aveva regalato. Si era quasi arrabbiato per quel piccolo pensiero, reazione che la lasciava ancora alquanto perplessa. Forse l’aveva giudicato troppo impegnativo o chissà cosa: fatto è che non glielo vide mai al collo. Si ricordò che una volta gli chiese, scherzando, se gli faceva schifo mettere un suo regalo. Gli aveva risposto che non poteva. Già le aveva proprio risposto con un laconico "Non posso".
Era proprio strano quel tipo e a lei piaceva scoprirlo giorno per giorno: era come leggere un romanzo giallo che ti trasforma in detective pagina dopo pagina, parola dopo parola.
Ma in quel momento, mentre stava finendo il suo hot-dog, non era più tanto sicura che fosse solo curiosità.
Trovò per caso la panchina su cui era seduta quando incontrò per la prima volta Henry. Istintivamente si sedette. No, non era più sicura che fosse solo curiosità. Allora, era amore? Forse...Non aveva poi sofferto molto il distacco. Si convinse che più che la sua mancanza fisica avvertiva una mancanza di chiarezza. Perchè se ne era andato così all’improvviso? Forse Henry non le aveva attribuito l’importanza che lei invece sentiva di avere nel loro strano rapporto. Era stata ferita più nell’orgoglio che nel cuore. Questa conclusione le teneva a bada il latente senso di colpa che sentiva nei confronti di Steve per il fatto che i suoi pensieri erano monopolizzati dal ricordo di Henry.
"Steve..." disse tra sè e sorrise. Era incredibile la sicurezza che sentiva nel rapporto con lui. In netto contrasto con l’insicurezza e la precarietà che provava quando era con Henry, anche se con il suo attaccamento e il bisogno che lui aveva di rifugiarsi in lei, era riuscito a farla sentire forte come una roccia. Ma nonostante tutto ogni volta che dovevano incontrarsi lei non era mai sicura che lui ci fosse. Infatti le sue paure non erano infondate. Un giorno se ne era andato e non l’aveva mai più rivisto.
"Un pittore!!" Incredibile... Sì, poteva essere davvero un pittore, per il suo estro, il suo camminare con la testa tra le nuvole, la sua sensibilità quasi esasperata, il suo sguardo perso nel vuoto, le sue paure e fantasie quasi infantili. Ma non era solo questo: era strano, molto strano. Era una sensazione che lei ricordò di provare ogni volta che si vedeva con lui. Sembrava che la sua mente fosse altrove, come prigioniera di incubi atroci. Che tutto questo fosse in qualche modo collegato a "loro"? Forse facevano parte di un suo passato che lei non conosceva.
Sapeva solo che sua moglie e suo figlio erano rimasti uccisi in un incidente automobilistico. E lei, considerando lo sforzo che lui aveva dovuto sostenere per rievocarle quel fatto, non aveva più insistito sul suo passato, non ne aveva il diritto.
Ma in quel pomeriggio di gennaio, seduta su quella panchina, con in bocca ancora il gusto di quel delizioso hot-dog, si rendeva conto che aveva sbagliato.
Forse avesse insistito adesso non sarebbe lì a chiedersi il perchè e il percome di mille cose.
Le venne in mente la prima volta che fecero l’amore. Bello, non eccezionale ma bello: era rimasta più appagata psicologicamente che sessualmente. Ma lo aveva giudicato e lo giudicava anche adesso un fatto normalissimo. Ricordò le parole della sua amica Vanessa al College:
"Gli uomini sono uguali, uno vale l’altro. Tanto a loro interessa una cosa sola..."
Con il passare degli anni Kate aveva capito che non si poteva generalizzare, che un uomo non valeva l’altro. Comunque anche in questo campo Henry era speciale: per lui fare l’amore era una cosa drammatica e l’orgasmo per lui era una manifestazione di rabbia. Quando stava per raggiungere l’apice del piacere si isolava nel suo mondo e dimenticava tutto e tutti, lei compresa. E così, a differenza della prima volta, fu sempre appagata sessualmente ma quasi frustrata perchè, con sensibilità tipicamente femminile, sentiva che mai le loro anime si erano fuse ma solo e sempre i loro corpi.
Più di una volta provò un immenso piacere, sicura di essere a letto non con Henry ma con una macchina che le provocava sensazioni incredibili.
Ricordò, senza pudore, di aver pensato più di una volta di essere sull’orlo della perversione.
Si convinse che era un rapporto anomalo, passionale, che aveva promesso sensazioni forti ma che in fondo si era rivelato povero di contenuti. Mai avevano parlato di futuro, di famiglia, mai avevano fatto progetti che andassero al di là del week-end. Tutto questo la tranquillizzò un pò, anche se una vocina dentro di lei le ricordava la famosa favola di La Fontaine che parlava di una volpe e dell’uva.
Si alzò e si incamminò verso la fontana del parco.
Avrebbe ancora rivisto Henry. Ne era sicura.
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