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UN UOMO NEL BUIO
di: Claudio Pellegrino


CAPITOLO NONO

I

Con un cenno chiamò il cameriere e ordinò due "Whiskies on the rocks". Il giovane restò un attimo perplesso: erano le nove del mattino. Con un sorriso si lasciò scappare un "Però che coraggio!!" che non fu raccolto. Cercava semplicemente di riuscire simpatico ai due seduti al tavolino. Ma evidentemente non era giornata per sbruffonate. L’uomo con gli occhiali a specchio lo liquidò con un gesto della mano. Aspettarono le loro ordinazioni senza parlare, perfettamente immobili. Il cameriere posò sul tavolino i due bicchieri, provocando un leggero tintinnio. Quel suono parve ridare vita a due statue sedute. Questa volta però non si azzardò più a fare commenti e si allontanò subito.
L’uomo che aveva ordinato cercò qualcosa nella tasca del cappotto. L’altro uomo, sulla cinquantina, abbronzato, brizzolato, con due occhi freddi come la notte appena trascorsa, si mosse lentamente e prese il bicchiere. Bevve avidamente. Quell’altro finalmente tolse la mano dal cappottò e posò sul tavolino un pacchetto di sigarette e una foto Polaroid.
"È lui."
Si accese una Pall Mall e tirò una lunga boccata, soddisfatto.
Foster posò il bicchiere ormai vuoto e prese in mano l’istantanea. Il suo viso inespressivo fu scosso da una emozione. Per un attimo un ghigno gli alterò leggermente i duri lineamenti.
"Dove e quando?"
"Church Road, se vuoi anche oggi stesso. Ricorda che cosa devi fare dopo. Devi rispettare scrupolosamente le istruzioni. In caso contrario non avrai più un dollaro."
Gli consegnò una busta e prese il suo bicchiere. Foster indugiò ancora un attimo con la Polaroid, quindi la ripose nella tasca interna della giacca con la busta gialla. Prese anche lui una sigaretta e l’accese. Iniziò a tossire nervosamente. L’irritazione cessò.
"Posso farti una domanda?"
L’uomo con gli occhiali a specchio non parve gradire la curiosità dell’altro. Il suo tono di voce rivelò la sua stizza.
"Cosa vuoi?"
"Per me va bene così, ovviamente. Ma perchè non ve lo fate voi questo lavoretto? Voglio dire, avete paura di dannarvi l’anima?"
Trovò la sua frase divertente ed accennò una risata. L’altro, in un primo tempo, parve non sentire la domanda. Continuava a fissare da dietro le lenti il cameriere che si girava continuamente verso il loro tavolo. Lo innervosiva, anche se erano senz’altro casuali quegli sguardi che il giovane lanciava di tanto in tanto.
"Non possiamo"
Fu la sua laconica risposta.
"Non potete? Ma vuoi scherzare?"
Foster stava ridendo, divertito. L’altro comunque non aveva più nessuna voglia di continuare quell’inutile conversazione. Buttò un biglietto da dieci dollari sul tavolino e se ne andò senza salutare, lasciando Foster con il suo sorriso ebete stampato sulla faccia incavata. Improvvisamente ebbe un tremendo sospetto: forse non si trattava del solito regolamento di conti o di una vendetta. C’era qualcosa di dannatamente strano in quella storia. Foster si ripeté la frase: "Noi non possiamo". Ma come, non potevano? Una organizzazione come la loro...
Infilò di nuovo la mano nella tasca interna della giacca e riprese la fotografia. In fin dei conti era un lavoro di quindici minuti non di piu. "Cinquemila dollari per un quarto d’ora! Fanno...ventimila all’ora! Pazzesco, guadagno più del mio dentista!!" rise di nuovo, da solo, attirando l’attenzione degli altri avventori del bar.
Ma perchè poi farsi tanti problemi! Si tranquillizzò quasi subito e per festeggiare la ritrovata serenità ordinò un altro drink. Il giovane cameriere che aveva, peraltro, osservato la scena si affrettò a servirlo. Quest’uomo gli sembrava più gentile dell’altro che era appena uscito e quindi abbozzò di nuovo una conversazione. Ma ben presto anche in questo caso capì che era meglio andarsene.
Foster finì il suo whisky e se ne andò. Era tranquillo, eppure...
Non era poi così sicuro di potersi godere quei soldi.
 

II
 

Posò il bicchiere sul tavolino di cristallo senza guardare, ma lo mancò per un soffio: il caffè cadde sul tappeto, accompagnato dal tonfo sordo del vetro sul pavimento. Il piccolo disastro che aveva causato al Kilim della sala, se non altro, la strappò dallo stato di ipnosi in cui era caduta quando sullo schermo da ventotto pollici era apparsa la fotografia di Henry Kenz, tecnico (o pittore?!), ma ora solo e maledettamente assassino, spietato esecutore di efferati delitti. Lui, proprio lui, la persona che lei aveva cercato di salvare, di guidare...Lui, la persona che aveva cercato di amare sinceramente, la persona con cui aveva fatto l’amore; lui che aveva visto sulla locandina a Firenze e che aveva cercato invano; lui, che a Firenze non c’era più e invece era lì, nella sua città, che faceva a pezzi le persone..."Pazzesco!" sussurrò con un filo di voce, ancora intontita da quella rivelazione.
Guardò con aria sconsolata il tessuto che aveva assorbito avidamente tutto il liquido versato. Si alzò di scatto, si sistemò l’accappatoio e corse in cucina per cercare una spugna e tentare quindi di salvare il suo Kilim. Ma non tardò a rendersi conto che quel gesto assurdo altro non era che una fuga per non sentire più il giornalista che ripeteva per la terza volta un elenco interminabile di morti ammazzati per mano di...Ecco, era quello il punto che la sconvolgeva: non la Goldsmith decapitata, o Jack, che tra l’altro conosceva anche lei, con la testa fracassata in mezzo a Wellington Park. No, quello poteva andare: era la frase "uccisi per mano di..." che le fece venire un conato di vomito. Non era stato Jack lo squartatore o John Smith di Kansas City, ma Henry Kenz, proprio quello che forse lei avrebbe potuto fermare, chissà...
Rinunciò a cercare di limitare i danni al tappeto e ritornò nel soggiorno dove ora la NBC stava trasmettendo nelle case di tutto lo Stato le immagini della cella ancora sporca del sangue del maniaco omicida. Il giornalista, ora corrucciato, si stava domandando se l’uccisione di Kenz era stata opera di un improvvisato giustiziere, magari parente di qualche vittima, o semplicemente di un cittadino ormai stanco di vivere nel terrore di essere la prossima vittima.
"Anche se" ammetteva Tom Bowlman "non può essere stata un’azione avventata. L’assassino o il giustiziere, come preferite, si è introdotto nella Centrale di Polizia con una divisa, eludendo così la sorveglianza. È stata quindi una vera e propria azione da professionista. E se così fosse, chi potrebbe aver commissionato un così pericoloso delitto?"
Kate comprese completamente solo quell’ultima frase.
"Sono stati loro!!" esclamò, come colpita da una folgorante intuizione. Già, loro...Loro chi? Henry non le aveva mai voluto dire chi fossero quei tipi che, secondo lui, erano tornati. Certo, ricordava bene quanto fosse sconvolto quella sera, l’ultima sera che lo aveva visto. In quel momento le venne in mente Steve.
Si precipitò al telefono e compose il numero. Sentì il segnale, era libero. Chissà cosa le avrebbe detto: era curiosa di conoscere la sua reazione. Come l’avrebbe presa? Sentì il secondo segnale. L’avrebbe senz’altro torturata con mille domande. Il terzo segnale...Poi il quarto, il quinto, il sesto. Steve sembrava non essere in casa. Strano, molto strano. Lui stesso le aveva detto di chiamarlo intorno alle nove per organizzare insieme la giornata. Lasciò ancora suonare un po' il telefono: forse era solo sotto la doccia e non poteva sentire gli squilli. Doveva essere così per forza.
Eppure, quando posò il ricevitore dopo l‘ennesimo squillo, fu assalita da una inquietudine inspiegabile. Si sentì improvvisamente sola. Quello che fece subito dopo non fu solo dettato da un improbabile senso civico, ma soprattutto da quel senso di vuoto che la stava angosciando. Si sentiva abbandonata da tutti, si sentiva terrorizzata, controllata, spiata, braccata.
Rialzò la cornetta, compose il numero del Distretto di Polizia e chiese di parlare con chi stava conducendo le indagini su Henry Kenz. Pronunciò quel nome con un filo di voce. L’agente dall’altro capo del filo non capì subito e le chiese di ripetere. Kate ebbe la tentazione di riattaccare, ma non lo fece, anzi...Respirò profondamente e ripeté tutta la frase dal principio, coraggiosamente.

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