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UN UOMO NEL BUIO
di: Claudio Pellegrino


CAPITOLO QUARTO

III

Non ne poteva più. Uscì dall’ufficio sbattendo volutamente la porta. Non era possibile che quell’uomo riuscisse a portarlo ad un stato di esasperazione tale che la mente non riusciva più a ragionare. Si sentiva combattuto tra il suo profondo senso del dovere e la gran voglia di strangolarlo. Olson si convinse che nessun altro avrebbe potuto fare meglio per trovare una pista. Gli indizi erano pochi, le prove nulle, ma stava lavorando con un impegno maggiore rispetto ad ogni sua precedente esperienza. Qualcosa aveva pur trovato, "Un uomo completamente pazzo, in un ristorante cinese..." si disse, mollando un poderoso calcio alla lattina di Coca Cola che ebbe la sfortuna di trovarsi sulla sua strada. Il capitano non poteva pretendere che gli trovasse il colpevole nel giro di ventiquattro ore, perché il sindaco lo stava torturando con minacce e ricatti di ogni tipo: era come chiedere a Michelangelo di finire in due giorni l’affresco della Cappella Sistina...
Si vergognò del paragone. Aveva un bisogno estremo di sfogarsi. Pensò a Miriam, così, all’improvviso. Per qualche secondo la sua coscienza si fece degli scrupoli: "Sono settimane che non la vedi, a quest’ora sarà stanca...Sei un bastardo, ti ricordi di lei solo quando ne hai bisogno..." ecc. Ma non riuscì a convincere l’altra parte di lui molto più egoista e così mentre la sua coscienza si dava ancora da fare per farlo riflettere lui salì in macchina, deciso più che mai di sfoggiare una stupenda faccia di bronzo e andarla a trovare.
Il traffico era sempre caotico. Ci vollero più di venti minuti per percorrere tre chilometri.
Si presentò alla Reception e suonò il campanello. Con suo sommo piacere si presentò Miriam. Olson le lesse negli occhi sorpresa e imbarazzo. Per qualche istante anche lui si sentì a disagio e non riuscì a dire altro che un ridicolo: "Ciao, come va?" senza troppo entusiasmo.
Miriam non rispose ma sorrise, un sorriso stanco, disilluso, rassegnato, di chi conosce già il perché, il come e l’epilogo.
Ma non fu scortese, anche se ne aveva il diritto, non fu banale, come lo era stato lui:
"Avevo voglia di vederti!"
Gli prese la mano tra le sue e gliela strinse forte. Olson fu percorso da un brivido intenso che gli fece dimenticare il capitano, le tre croci e tutto il mondo marcio in cui sguazzava ogni giorno.
"Chiamo Bobby e andiamo di sopra, O.k.?"
Fu felicemente sorpreso. Miriam era una donna fantastica e imprevedibile, o semplicemente, a modo suo lo amava.
Erano passate settimane dall’ultima volta che era scappato per uno dei suoi"Hanno bisogno di me alla Centrale". Eppure lei c’era sempre. Non poté far altro che godersi quel momento di pace e di calore umano, così rari per lui e per il mondo in cui affogava. Miriam era nonostante tutto, un punto di riferimento, come il faro per le navi. Non gli piacque molto quel luogo comune, scontato e retorico, ma non riuscì a trovare un altro paragone per riuscire a descrivere a stesso che cosa rappresentava lei per lui.
Ritornò quasi subito, aggirò il bancone e fu accanto a lui.
"Ti posso chiedere che cosa ci fai qui a quest’ora?"
"Non lo so. Ho solo bisogno di sentirmi accanto qualcuno che non sia un poliziotto o un delinquente."
Le aveva proprio fatto un gran complimento. Si rese conto della sua goffaggine e stramaledisse il suo tatto pressoché inesistente. Lei comunque non si offese. Invece lo fissò:
"Olson, dimmi, vuoi venire a letto con me?"
Restò abbastanza stupito dalla sua domanda e si sentì imbarazzato. Lei se ne accorse. Cercò di spiegare:
"Scusami, ma cerca di capirmi... Un mese e mezzo, senza mai una telefonata, una visitina veloce, un saluto. Io non riesco a capire che cosa tu vuoi da me. L’unica risposta che mi sono sempre data è che l’interesse che tu hai per me riguarda esclusivamente il letto. Non ti sto dicendo che non mi va bene, anche se i miei sogni di adolescente erano un po' diversi quando pensavo alla mia storia d’amore. È che vorrei saperlo. Pensi che sia troppo?"
Olson non riuscì a sostenere lo sguardo penetrante di quegli occhioni verdi. Si sentiva un verme. Rispose alla sua domanda, ormai rassegnato ad andarsene:
"Io avevo solo bisogno di passare qualche minuto con te. Parlare o fare l’amore per me, sinceramente, è lo stesso. La cosa che conta è che tu mi stia un po' vicino. Ne ho tanto un bisogno incredibile!"
Le posò sulla guancia un bacio delicato e dolcissimo. La sentì sciogliersi, la sentì disponibile. Per un istante si sentì perdutamente innamorato. Arrivarono al secondo piano, nel corridoio.
Sentirono un lamento sordo, soffocato.
"Che cosa è stato?" Olson era di nuovo poliziotto.
"È quello della camera 237, un tipo strano. Fa dei brutti sogni. Almeno così mi ha detto un giorno. Lascia perdere, dai, per una volta...Vieni!"
Lo prese per mano e lo condusse in un piccolo appartamento. Quando vide i mobili e ne sentì l’odore caratteristico, Olson ridiventò uomo, fu assalito da tanti ricordi e dimenticò i lamenti della camera 237.
Era in quella stanza che lei lo aveva portato per la prima volta anni addietro. Era quella la stanza da cui era uscito tante volte per il lavoro che premeva, lasciandola alla sua solitudine. Era in quella stanza che aveva cercato di parlare, o meglio, di comunicare con lei, di raccontarle il suo futuro. Non pensò più alla camera 237.
Miriam si sdraiò sul letto, rilassata e felice. Olson aveva una voglia pazzesca di lei. Ma sarebbe stato come dar ragione alle sue teorie. Eppure sembrava che lei lo chiamasse, lo provocasse, come se avesse capito che quella sera altro non poteva dargli che il suo corpo. Si avvicinò a lei, le si sdraiò accanto e aspettò. Miriam iniziò a baciarlo e ad accarezzargli i capelli: era il segnale.
Un grugnito attraversò la stanza. Sordo e infernale, attutito dalle pareti. Ci fu un momento di silenzio. Poi un tonfo. Una porta si era chiusa violentemente, una porta vicino all’appartamento di Miriam. Olson non disse nulla.
Sentiva le mani di lei frugare sotto i suoi vestiti, sbottonò la camicia, slacciò la cinghia dei pantaloni. Eppure anche in quel momento la sua testa lavorava, macinava ipotesi, faceva congetture. La porta che si era chiusa era quella della camera 237 e il grugnito era per forza provenuto da lì. Ne era sicuro, come era sicuro che Miriam lo stava eccitando all’inverosimile.
Questa volta la sua mente interruppe le sue funzioni per lasciare il suo corpo in balia della dolcezza e dei sensi. Una sensazione di calore interiore lo pervase e per qualche minuto anche lui fu sereno. Miriam capì che cosa gli stava succedendo e ne fu felice. Forse non era solo il suo corpo che lui voleva, ma aveva soprattutto bisogno del suo affetto e del suo calore.  

IV
 

Brenda era fantastica.
Jack non era più tanto sicuro che stesse fingendo. Infatti nel momento in cui venne era convinto in assoluto che fosse riuscito a farle toccare il cielo con un dito. Brenda ansimava, si contorceva e infine all’apice del piacere gli conficcò le unghie nella schiena. Lui non le sentì neppure.
Sentì solo che era sua, solo ed esclusivamente sua, anche se solo per un momento. Si abbandonò su di lei, esausto.
Brenda gli prese il viso tra le mani e lo baciò teneramente, muovendosi ancora dolcemente, come per prolungare quel momento di intenso piacere. Jack uscì piano da lei e si lasciò cadere sul letto, soddisfatto. Guardò il soffitto e tirò un profondo respiro: era stata una sera speciale, aveva vinto a poker, era stato benissimo con lei. Sapeva che la felicità era un’altra cosa, ma il trucco era sapersi accontentare e lui lo conosceva bene, quel trucco.
"Jack, non ho finto, è stato bello....veramente! Capisci?"
Si era allontanata i capelli dal viso e lo stava guardando sorridendo. Lui non disse nulla. Non sapeva se crederle o no. Ma si convinse che se avesse finto non sarebbe stata necessaria quella ulteriore messa in scena. Fece per alzarsi dal letto ma lei lo fermò, trattenendolo per il braccio:
"Resta qui stanotte, Jack, ti prego!"
"No, non posso. Domani sera... magari."
Non ne aveva molta voglia. Sarebbe stato troppo...intimo. Evitava di dare confidenza alle donne, specialmente a quel tipo di donne, anche se Brenda era diversa. Però anche lei lo faceva per soldi, dopotutto, e quindi dormire sarebbe stato troppo...Non riuscì neppure a spiegare a se stesso quella sensazione che sentiva avrebbe provato se si fosse fermato lì da lei. Gli sarebbe piaciuto, forse un’altra sera...
Decise quindi di alzarsi e fu un errore, un tremendo errore.
Avrebbe avuto forse solo un istante per rendersene conto. Comunque certo Jack non sapeva leggere il futuro e neppure era in grado di conoscere e quindi di tentare di cambiare il suo destino. Proprio quella sera...così magica...
La baciò senza dirle niente. Cercò i jeans e si rivestì in fretta. Quando ebbe finito la guardò e le lesse negli occhi una disperazione e solitudine pazzesche, ma non volle cedere, almeno non quella sera.
"Domani sera, Brenda, domani sera...se ti ricorderai ancora di aver fatto l’amore con me...se non ci sarà nessun altro nel tuo letto domani sera."
Era stato cattivo, ma involontariamente: gli aveva solo detto tutto ciò che gli stava passando per la mente. Lei lo capì e non ne fu ferita. Anzi gli sorrise dolcemente:
"Allora a domani sera...Ci conto Jack!"
Non si dissero altro. La guardò ancora per un istante e sentì che il desiderio di credere a quegli occhi dolci stava prevalendo, ma vinse dentro di lui la parte più cinica e disillusa. La salutò e uscì.
Mentre scendeva le scale gettò lo sguardo sul suo Casio comprato da un portoricano per cinque dollari.
"Cazzo, le quattro. Domani sarò uno zombi!!"
la sua giornata iniziava alle sei e mezza. Un salto al giornale, due parole con le facce inespressive dei colleghi, e poi per la strada a vendere giornali, all’angolo tra la IV Avenue e la Cinquantasettesima Strada. Scivolò nella notte fredda. Calpestò neve fresca e gelata. Alzò il viso verso il lampione e fu assalito da mille fiocchi che turbinavano nell’aria di gennaio. Era tutto così bello, troppo bello.
Avrebbe dormito solo due ore, ma ne era valsa la pena. Era proprio stato fortunato con quel colore e poi con Brenda era stato così appagante, così pieno...La sera successiva se tutto andava come doveva andare si sarebbe fermato a dormire da lei, forse a Brenda lui piaceva veramente...vai a sapere che cosa cercano le donne. Raccolse una manciata di neve e mirò alla sua finestra ma la mancò clamorosamente: lui il baseball poteva solo guardarlo in tivù o allo stadio, non certo giocarci...
Vide in fondo alla strada gli alberi di Wellington Park, strani disegni in un paesaggio di sogno. Non c’erano rumori, macchine, sirene. La città gli sembrò completamente in sua balìa e istintivamente festeggiò quella sensazione di potere iniziando a cantare "Hey, Jude..." senza sapere chi l’avesse scritta. La Brandbury Road finì proprio quando aveva perso il filo della melodia. Non gli riusciva un passaggio e soprattutto aveva scordato le parole.
Vide allora un uomo accanto ad un albero.
Si sentì stranamente a disagio: non riuscì mai a capire se fosse stata solo paura istintiva o un segno premonitore. Avrebbe potuto tornare indietro e passare da un’altra parte, ma quel pensiero non bastò a fargli cambiare la direzione di marcia. Quindi attraversò la strada e si ritrovò a calpestare la neve sulle aiuole del parco. Continuava a guardarsi i piedi che affondavano in quella massa soffice e fredda. Un fiocco di neve gli scivolò giù per la schiena. Alzò istintivamente lo sguardo e si trovò a meno di tre metri dall’uomo accanto all’albero.. Non poté fare a meno di guardarlo e a quell’ora di notte si sentì quasi in dovere di salutarlo: solo lui, quell’uomo e la neve a Wellington Park.
"Salve!"
gli disse senza ottenere risposta. O meglio...nessuna risposta comprensibile. Avvertì solo un verso quasi animalesco, sussurrato a denti stretti. Ne fu sorpreso e lo guardò in modo interrogativo. Fu colpito dai suoi occhi profondi, terrificanti: lo stavano fissando senza vederlo, sbarrati e tetri.
Continuava la sequela di versi incomprensibili, gutturali...
Jack non ne comprese il significato, anche se per lui in quel momento sarebbe stato molto più importante capire che cosa stesse facendo.
Vide finalmente il cappotto dell’uomo aprirsi con un gesto quasi teatrale. Vide l’uomo affermare una sorta di manico. Vide poi l’ascia nella sua macabra completezza. Era sconvolto. L’uomo continuava a fissarlo con due occhi inespressivi mentre continuava a ripetere una sequela di frasi assurde e sconnesse.
Jack finalmente capì che quell’uomo voleva fargli del male, capì che, per qualche oscura ragione, quel tipo ce l’aveva proprio con lui, ma la sua mente fu troppo lenta nel comandare alle gambe di muoversi, in fretta. Vide l’ascia alzarsi e poi una fitta tremenda sulla spalla destra quasi lo fece svenire. L’ascia di staccò dal suo corpo e ricadde inesorabilmente sul suo braccio sinistro che aveva istintivamente alzato per difendersi. Sentì le gambe cedergli e la vista annebbiarsi. Si aggrappò all’uomo nell’estremo tentativo d farlo desistere. La sua mano si serrò su qualcosa di freddo e duro. L’ultima cosa che i suoi sensi registrarono fu il suo corpo sprofondare nella neve. Avvertì una specie di flash accecante in mezzo agli occhi. Poi il nulla.  

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Erano da poco passate le sette, quando un uomo avvolto in una mantella grigia imboccò il viottolo che portava alla fontana del parco. Tutte le mattine alla stessa ora portava fuori Tigre per i bisognini. Era un rito, come andare in ufficio, mangiare, guardare la TV e andare a dormire.
Ma Tigre quella mattina sembrava agitato molto più del solito. Il suo albero preferito era molto più avanti. Il pastore tedesco diede uno strattone al guinzaglio, si liberò e iniziò a correre come un forsennato. L’uomo cercò inutilmente di fermarlo, e vedendo che chiamarlo non serviva a nulla si mise anche lui a correre. Quando finalmente si fermò accanto al suo cane vomitò il the, il toast e le uova strapazzate che aveva consumato neanche mezz’ora prima:
Tigre stava annusando il sangue di un negro, con la testa squarciata, con tre croci sul petto e quattro candele ai lati.

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