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UN UOMO NEL BUIO
di: Claudio Pellegrino


CAPITOLO QUINTO

III
 

Silenzio...
Cercava silenzio...voleva silenzio.
Ma le voci continuavano ad ossessionarlo. Lo violentavano continuamente. Guardò le pareti e le vide muoversi, contorcersi, cadere su di lui e schiacciarlo. Soffocò a stento un urlo di terrore. Chiuse gli occhi per scacciare la visione. Ma nel buio creato dalle palpebre contratte apparvero puntini multicolori, che vagavano in modo disordinato, come lucciole d’estate. Erano gialle, verdi, azzurre, rosse... soprattutto rosse, sempre più rosse, erano tutte rosse e si stavano ingrandendo, fino a diventare una massa uniforme...rossa, rosso sangue.
Riaprì gli occhi, terrorizzato. La parete di fronte a lui iniziò a sanguinare da una crepa. Ne uscirono disordinatamente ragni di ogni specie e dimensione: invasero il muro davanti a lui, scivolarono sul pavimento, si avvicinarono alla sedia, iniziarono a salire su per le gambe...
Questa volta l’urlo uscì con forza dalla sua gola secca.
Poi tutto scomparve. Avrebbe voluto poter credere che era stata solo una visione, ma la pozza di sangue accanto al suo letto lo costrinse a guardare in faccia la realtà. Si avvicinò al lavandino per lavarsi le mani appiccicose. L’acqua si colorò di nuovo di rosso...ma i ragni non tornarono.
Doveva essere di nuovo accaduto qualcosa di terribile, quella notte. Lo sentiva nella testa che gli doleva e pulsava insistentemente. Ma come al solito, aveva solo un ricordo vago. Aveva ucciso, probabilmente, ma era una cosa che lui doveva assolutamente fare...Ma perché?
Ricordò la neve, un negro, un ragazzo negro...Lui forse aveva ucciso un negro. Perché? Doveva farlo. Era indispensabile. Era comunque la prima volta che la sua mente ricordava qualche particolare. Forse era la volta buona.
Si distese sul letto e cercò di ricostruire la sera precedente. Era andato in una pizzeria, aveva girovagato per un’ora, forse due, e poi era rientrato in albergo. In effetti adesso era in albergo. Ma prima, tra la pizzeria e l’albergo, dove era andato a cacciarsi , che cosa aveva fatto? La neve...il negro...C’erano alberi, forse un parco, un viale, era molto tardi. Un albero...si era appoggiato ad un albero e aveva aspettato. Rivide il negro in lontananza che si dirigeva verso di lui a testa bassa. Poi...
Una fitta tremenda gli percorse la mente, la vista si annebbiò. Forse aveva osato troppo. Strinse i denti e cercò di resistere. La fitta passò, e gli lasciò un senso di rilassante torpore.
Forse era arrivato alla chiave di tutto. Riusciva a ricordare in modo abbastanza nitido la pizzeria: affollata, piena di fumo, soffocante. Aveva caldo, voleva togliersi il pesante impermeabile, ma non lo fece. Era illogico, eppure qualcosa dentro di lui gli consigliò che era meglio non farlo. Aveva mangiato...quasi sicuramente...poi era uscito. La strada era deserta. Quale strada, quale pizzeria? Forse era pretendere troppo da una mente ancora scossa dalla tremenda fitta precedente.
Dunque, probabilmente, aveva di nuovo ucciso. Ma il pensiero di ciò che senz’altro doveva aver fatto non gli procurava rimorso o angoscia, lo lasciava quasi del tutto indifferente, in quanto era una cosa che, lui sentiva, doveva essere fatta, inevitabilmente, come andare dal dentista quando un dente si caria. Eppure la parte meno razionale di lui lo accusava impietosamente. Doveva esserci una ragione per spiegare il fatto che lui fosse un assassino e per giustificare quella sua indifferenza, quella sua fatalità.
Le sue labbra ad un tratto, iniziarono a pronunciare parole a lui completamente incomprensibili:
"Not si karam...."
La fitta tornò, più feroce e violenta di prima. Questa volta non bastò stringere i denti e serrare le dita. Urlò di nuovo.
Passarono alcuni istanti, lunghi come minuti. Poi anche questa volta il dolore diminuì, gradualmente, molto più lentamente di prima. Il torpore che ne seguì gli confuse i pensieri. Si addormentò quasi subito, profondamente.  

IV
 

"Più o meno è andata come ti ho detto. Più o meno... È vero che lo incontrai a Wellington Park, nelle circostanze che ti ho detto. Ma...come dire...non è vero che finì lì"
Si fermò e addentò svogliatamente la fetta imburrata. Steve restò immobile con la tazza del caffè fumante a mezz’aria, indeciso se esultare per la felice intuizione o disperarsi per la rivelazione. Non parlò: si limitò ad osservare lei che masticava silenziosa e assorta.
"Sì, Steve, hai ragione. Ma se ti può consolare fu un grosso sbaglio. Comunque, per farla breve, lui era un poveraccio, molto molto solo in una città che non conosceva. Mi disse che era un tecnico, che sua moglie e i suoi due figli erano morti in un incidente stradale. Mi raccontò tutto della sua vita, o almeno...così pensavo fino a ieri quando ho scoperto che il tecnico fa il pittore e riesce pure a farlo bene, con successo!"
"Ci sei andata a letto?"
"Ecco, signori, vi presento il maschio del 2000. Solo questo conta? Se mi sono fatta sbattere da lui?"
Era furibonda e si era sfogata a voce alta. Il signore accanto al loro tavolo la guardò indignato. Kate se ne accorse:
"Problemi?"
L’uomo distinto prese il suo cappello e se ne andò. Steve rimase a bocca aperta. Non si sarebbe mai aspettato una reazione del genere. Posò la tazza sul tavolo e si passò la mano sulla fronte sudata. Riuscì solo a dire:
"Kate, non hai capito, non intendevo questo..."
Scosse la testa rassegnato. Lei finalmente si calmò. Capì, nonostante tutta la ragione che era sicura di avere, che aveva esagerato. Riprese con calma il racconto:
"Sì, abbiamo fatto l’amore, mi sembra naturale. Ci siamo piaciuti, ci siamo frequentati per un po' e poi una sera accadde che ci trovammo a casa mia a prendere un caffè dopo il cinema...Ma forse è meglio tralasciare i particolari, eh Steve?"
Detto questo gli prese delicatamente una mano e gli sorrise. Lui però non rispose. La mano restò immobile nella sua, senza calore. Le chiese sottovoce:
"Che cosa ci trovavi in quell’uomo?"
"Non lo so Steve, ti giuro, non lo so. Non mi sono innamorata di lui, se questo ti può far piacere. A dire il vero ci ho provato. Volevo aiutarlo, volevo farlo sentire vivo. Ma non ci sono riuscita. Adesso dopo mesi, ripensandoci, mi sembra solo di averlo compatito, e questo non è una gran cosa"
Sorseggiò un po' di caffè. Cadde un profondo silenzio tra di loro: Kate ricordava e Steve immaginava. Il bar era stracolmo di gente infreddolita.
"Perché vi siete lasciati?" si fermò un attimo poi riprese:
"Certo che balle te ne ha raccontate!!"
"Si, forse hai ragione. Forse non è vero niente. Anzi è senz’altro così! Comunque i primi tempi furono belli, non esaltanti, ma diciamo, interessanti. Certo non mi sono divertita con lui, nel senso pieno del termine. Figurati che l’avrò visto ridere tre o quattro volte al massimo. Non abbiamo mai litigato. Il nostro rapporto era come dire...soffice, ovattato, vissuto in punta di piedi, senza gioie e senza dolori. Io volevo farlo cambiare, volevo insegnargli quanto fosse bello il mondo, la vita: avevo uno scopo . Ma ciò che più mi colpì in lui all’inizio, cioè la sua fragilità, la sua insicurezza, divenne, col passare del tempo, un fardello sempre più pesante: i primi tempi mi sentivo importante per lui, dopo qualche mese ero diventata indispensabile e ciò mi spaventò. Più io cercavo di staccarmi da lui per farlo camminare con le sue gambe e più lui, naturalmente, si avvinghiava a me in modo ossessivo. Mi sentii soffocare".
"Una notte accadde un fatto strano.
"Avevamo mangiato a casa mia e guardavamo la televisione. Io dopo un po' mi addormentai. Quando mi svegliai, una mezzoretta più tardi, lui non c’era. Mi sembrò molto strano in quanto non l’aveva mai fatto di andarsene senza dirmi niente, senza salutarmi. Rientrò alcune ore dopo. Era sconvolto e stava sudando copiosamente. Gli chiesi cosa era successo, ma lui non riuscì a spiegarmi niente. Farfugliò qualcosa di incomprensibile. Mi disse che erano tornati, che li aveva visti, che loro sapevano come trovarlo. Ma quando gli chiesi chi fossero quei tipi, lui ebbe una reazione imprevedibile: si avvicinò a me, mi prese il volto fra le mani e scoppiò in una risata fragorosa, quasi isterica. Mi disse che era stato solo uno scherzo, che ci ero cascata come un’ingenua. Però da quella sera io non l’ho mai più rivisto. Strano, vero?"
Kate si sentiva decisamente meglio, aveva finalmente raccontato tutto quello che sapeva o che si ricordava di quella storia, si era in sostanza liberata dal classico peso sullo stomaco.
Steve era assorto, stava contemplando il fondo della sua tazza ormai vuota. Poi all’improvviso alzò lo sguardo verso Kate e le chiese:
"Ora capisco quei quadri così strani e cupi. È vero?"
"Qualcosa di strano aveva, così introverso, così assurdo nelle sue paure e fobie... Sì, adesso che l’hai detto, effettivamente non posso che darti ragione: quei quadri sono la riproduzione su tela della sua personalità contorta..."
Il racconto si poteva considerare finito. Questa volta era stata sincera: Steve ne era sicuro: Improvvisamente svanì in lui la curiosità.
Gli venne improvvisamente voglia di andarsene, voleva respirare una boccata d’aria fresca.
Si alzarono e uscirono. Svoltarono l‘angolo in fretta per rincorrere un taxi.
Non videro perciò che nel bar stava entrando un tipo con un vistoso impermeabile viola. L’uomo si voltò per osservare la loro corsa e per un attimo sul suo volto contratto apparve una luce dimenticata. Fece per seguirli, avrebbe voluto fermarla, chiederle aiuto, forse a lei avrebbe raccontato tutto, forse lei lo avrebbe salvato. Si portò la mano sul collo per toccare l’unica cosa di suo che gli era rimasta.
Ma il ciondolo non c’era più. Si rassegnò a soffrire, da solo...

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