UN UOMO NEL BUIO
di: Claudio Pellegrino
II
Olson osservò attraverso lo spioncino la figura curva su se stessa dell’assassino che avevano appena catturato. Ripensò al breve interrogatorio svoltosi subito dopo l’arresto in discoteca. C’erano parecchi punti che Olson giudicava quanto meno anomali.
Henry Kenz non si era appellato al suo diritto di non rispondere se non in presenza di un suo legale. Aveva invece ammesso tutto quanto gli era stato contestato. Non aveva neppure provato ad addurre qualche giustificazione, senz’altro inutile ma comprensibile in quasi tutti i casi di arresto in flagrante. Niente di tutto questo. Anzi, quasi si erano trovati impreparati ad un interrogatorio del genere.
Alle loro domande "Hai ucciso tu Bob Keaton?" "Hai ucciso anche Mary Goldsmith?" rispondeva semplicemente "Si" e non "Si, ma..." oppure "Si, perchè...".
L’accusa era di omicidio plurimo di I° grado, la pena la camera gas. Ma la cosa non sembrava creargli particolare angoscia. La sua mente era altrove, quasi al di sopra di quelle implicazioni prettamente umane, futili...
L’uomo sulla sedia nella camera di sicurezza alzò la testa e fissò i due occhi attraverso lo spioncino.
Olson si sentì improvvisamente a disagio, ma si sforzò di sostenere il suo sguardo. Si sentiva attratto e respinto al tempo stesso da quegli occhi infossati.
C’erano troppe cose che non quadravano. Non era riuscito a vedere pazzia in quegli occhi e non aveva sentito paranoia o schizofrenia nelle sue parole. Mai una volta era caduto in contraddizione nel raccontare l’ultimo omicidio. Pur tuttavia delle altre morti se ne era solo attribuita la responsabilità’, ma non era riuscito a raccontare nessun particolare. Sembrava quasi che scoprisse di aver ucciso altre persone nel momento stesso in cui Olson o il capitano Freewell gli facevano domande o avanzavano ipotesi. Lui aveva confermato seccamente e senza batter ciglio aveva firmato la confessione. Effettivamente non era stata una procedura molto regolare in quanto quel documento non controfirmato da un avvocato non sarebbe stato prodotto in tribunale come prova a carico. Ma il capitano si era accontentato e aveva insistito per avere, così si era giustificato, una sorta di assicurazione per il colloquio con il magistrato.
Era troppo importante per la sua figura e posizione dare in mano al Sindaco il colpevole "al di là di ogni ragionevole dubbio". Olson non condivideva questo suo comportamento, anzi lo detestava, ma non si oppose. In fin dei conti anche per lui era la fine di un incubo. Un epilogo che comunque non lo aveva colmato di quella soddisfazione che pensava di provare per aver finalmente catturato l’assassino di Jack. Quando si era trovato il corpo dell’amico macellato aveva giurato a se stesso che se avesse scovato quel bastardo da solo, senza testimoni, lo avrebbe ammazzato come un cane. Eppure non solo non lo aveva fatto per ovvi motivi, ma neppure non ne aveva provato il desiderio, anzi ad essere sinceri, non ci aveva neppure pensato. Perchè? Si ripeté ancora una volta che l’uomo che aveva davanti era quello che aveva ucciso Jack, quasi per risvegliare in se stesso un sentimento di vendetta che lo avrebbe salvato dal senso di colpa che ora a poco a poco stava provando.
Come poteva non odiare quell’uomo? Come non poteva non provare almeno il desiderio di aprire la cella e ammazzarlo a calci? Si convinse che comunque quel gesto non avrebbe di certo riportato in vita Jack.
Anche se considerava che il caso era definitivamente chiuso non riusciva ad essere completamente felice. Si rendeva conto che era anche l’inizio del suo tramonto. Forse si era concluso il suo ultimo caso. Forse... Lo spettro della pensione lo stava aspettando al varco. Ma una vocina dal fondo della sua mente gli stava sussurrando che forse non era poi tutto finito. D’altra parte, se ripensava attentamente a tutto l’interrogatorio, Henry Kenz appariva quasi del tutto estraneo alle croci, al disegno, al rituale nel suo complesso. Era l’assassino, reo confesso. Ma...niente di più.
Era sicuro che quasi tutti si aspettassero con curiosità quasi morbosa che scendesse nei particolari: "Facevo le croci perchè..." "Il disegno stava a significare che...", Invece tra la delusione generale non ci fu niente di tutto questo: solo laconiche affermazioni a precise domande.
Non quadrava.
Olson richiuse lo sportellino della camera di sicurezza e andò alla ricerca del decimo o undicesimo caffè della giornata. Quasi automaticamente si ritrovò a pensare all’altro pazzo furioso che gli aveva fruttato tanta gloria: pensò a Ted Spark. Dovevano ancora finire di chiudergli le manette che già gridava a tutti il motivo della sua follia omicida: "Le ho uccise perchè erano sporche, peccavano spudoratamente, senza rispetto per Dio e per se stesse..."
Aveva continuato in quelle sue farneticanti giustificazioni per più di un’ora dopo l’arresto. Olson ricordò la luce nei suoi occhi. Vi lesse profonda soddisfazione, quasi una forma di eccitazione, in certi punti del suo racconto pareva raggiungere una sorta di orgasmo, provocato dalle sue rievocazioni perverse. Ted Spark era pazzo, pericoloso e omicida. Il rapporto dello psichiatra dott. Lamont era stato praticamente inutile. Ripensò ai suoi sentimenti in quel caso. Era tutto così chiaro e definito: Olson era stato freddo e calcolatore, non aveva provato né pietà né odio per quel pazzo, era stato un perfetto investigatore, prudente e determinato. Chissà dov’era adesso il famigerato assassino delle prostitute. Le ultime notizie che gli erano state riferite sul suo conto gli erano arrivate dal manicomio criminale di Cleveland dove aveva aggredito una dottoressa e gli aveva quasi cavato l’occhio sinistro. Era pazzesco pensare che la giustizia americana tollerasse che un uomo simile potesse continuare a vivere solo perchè era stato riconosciuto da una autorevole équipe medica "incapace di intendere e di volere". Forse sarebbe stato molto meglio ammazzarlo subito, durante la cattura, fingendo una sua aggressione. Bah, ormai era tardi per recriminare. Esaurì l’argomento Spark e ritornò a pensare a Henry Kenz.
"Pittore..." si disse, scorrendo con lo sguardo le notizie che aveva raccolto sul suo conto. Sorseggiò il caffè e si rilassò sulla poltrona. Ripensò alla rassegnazione con cui si era lasciato arrestare. Aveva ucciso sei persone, le aveva circondate di candele, aveva inciso loro le carni e poi si era praticamente lasciato portare via dal K-Fox come un bambino, impaurito e rassegnato ad una punizione esemplare.
Da quando lo aveva incontrato per la prima volta, cioè nel momento stesso dell’arresto, gli era parso assente, demotivato. Ecco, aveva forse finalmente trovato la parola più giusta per definirlo: era demotivato, anche se l’aggettivo stonava abbastanza con il termine assassino.
"Assassino demotivato...assassino demotivato..."Mah, forse non era poi così assurdo come abbinamento. Aveva perduto lo scopo di uccidere... già, facile! Ma perchè poi aveva ucciso? Olson si trovava di fronte un caso abbastanza anomalo. Generalmente aveva avuto davanti persone fortemente indiziate con più di un movente che negavano anche l’evidenza. Adesso aveva un reo confesso senza una motivazione logica che giustificasse il suo crimine.
Olson continuò a pensare per altre due ore, senza approdare a niente, mentre Sindaco e Capo della Polizia si concedevano soddisfatti a cronisti e fotografi, dopo settimane di imbarazzanti conferenze stampa.
Alla fine si addormentò stremato, con gli occhi di Kenz ben stampati nella mente.
III
Steve si svegliò in piena notte, sudato.
Ci mise un momento a capire che era nella sua stanza al 427 di Spring Street. Si guardò intorno quasi sorpreso di non vedere più le pareti irregolari della caverna in cui si trovava disteso fino a pochi istanti prima. Era ancora sconvolto dalla testa mozzata del caprone, grondante di sangue.
Un sogno...Doveva essere stato solo un tremendo sogno.
Eppure aveva ancora nel naso l’odore, o meglio, il tanfo di muffa, di marciume e il puzzo selvatico del caprone...
Si sforzò istintivamente di ricostruire il puzzle. Ricordò le mani che stringevano i polsi e le caviglie. Ricordò che era disteso sulla roccia umida e fredda. Ricordò l’uomo incappucciato con la tunica nera che pronunciava frasi assurde. Un brivido gli percorse la schiena quando ricordò il resto.
Tra una cacofonia di voci e canti, il sacerdote (Steve si sentiva di scommettere che quello era un sacerdote) prese il caprone e lo decapitò con un colpo d’ascia. E poi...
Si passò le mani sul viso. Aveva ripreso a sudare copiosamente. Cercò di fermare i suoi ricordi, ma ormai la sua mente era inarrestabile. Ricordò allora che il sacerdote si avvicinò a lui con la testa del caprone nella mano sinistra. Grondava sangue. Avvertiva ancora lo sforzo che aveva fatto per liberarsi, ma mani forti continuavano a tenerlo immobilizzato sulla fredda roccia. L’uomo con la tunica nera si fermò all’altezza della sua faccia e gli fece cadere il sangue ancora caldo sui capelli, sugli occhi e sulle labbra. Sentì ancora in bocca il gusto dolciastro. Ricordò ancora una fitta tremenda al braccio più o meno in prossimità della spalla, poi un’altra...poi un’altra ancora...come se qualcuno gli penetrasse nelle carni.
Il sogno era finito.
Eppure c’era ancora qualcosa che mancava per completare il quadro. Un piccolo particolare che aveva accresciuto la sua inquietudine. L’uomo con la tunica aveva qualcosa di strano, di assurdo. Le mani del sacerdote erano piccole, affusolate, sembravano mani femminili.
Cercò di alzarsi per riprendere il contatto con la realtà, ma si lasciò ricadere sul letto, esausto. Sul soffitto della stanza i fari di un’auto, filtrando attraverso le persiane, facevano giochi di luci. Guardò l’orologio: erano solo le quattro e trenta. Riprovò ad alzarsi, riuscendovi finalmente. Si avviò verso il bagno. Accese la luce e si chinò sul lavandino: fece scorrere l’acqua e si risciacquò il viso, ripetutamente. Alzò gli occhi e si guardò nello specchio. Fu allora che si accorse della ferita che aveva sulla parte alta del braccio destro. La guardò meglio. Pareva una sorta di croce con un tondino in cima. Cercò di ricordare dove avesse potuto farsi un simile graffio, anche se inconsciamente già ne conosceva l’origine. Si sfiorò il sangue già coagulato. Per un istante rivide il sacerdote con la tunica nera. Si era sfilato il cappuccio. Il volto che gli apparve non era del tutto sconosciuto. Gli ricordava qualcuno anche se in quel momento non riuscì ad associare quel viso ad un nome.
I pensieri si confusero. Si ritrovò a guardare il lavandino.
Non riusciva assolutamente a capire che cosa gli stesse succedendo. Quello che aveva ricordato era un sogno o realtà? La ferita a forma di croce, il gusto dolciastro che ancora sentiva in bocca, l’uomo incappucciato...erano tessere di un mosaico assurdo. Forse stava solo impazzendo. Forse, per qualche oscura ragione, il suo cervello era improvvisamente andato in tilt? Già, così, senza ragioni...No, si rendeva conto che non poteva essere una spiegazione.
Cercò allora di interpretare il tutto come conseguenza di un incubo., ma sì, era tutto normale: magari era stato il cambio di fuso orario, tutte quelle ore in aereo...forse.
Uscì dal bagno e accese la luce della camera da letto. Sentì freddo e si strinse le spalle con le mani. La fitta che ne seguì gli ripropose l’argomento che gli distrusse in un attimo la tesi dell’incubo: la ferita...quella c’era, era lì e aveva appena sperimentato quanto fosse reale. Anche i polsi...erano ancora indolenziti.
Sentì un rumore secco nella sala. Ascoltò, immobile.
Di nuovo un altro colpo. Un brivido...Trattenne il fiato. Il rumore si sentì di nuovo. Decise allora di andare a vedere. Cercò qualcosa che gli desse una qualche possibilità di difesa: istintivamente ebbe paura di trovarsi di fronte qualcuno. Avanzò cercando di non fare rumore. Arrivò sulla porta. Sentì di nuovo quel tonfo. Accese la luce con la mano libera, alzando contemporaneamente l’altra che stringeva una statuetta di bronzo.
La stanza era vuota. Tutto sembrava normale.
Il colpo secco si ripeté alla sua sinistra.
"Porc...la finestra!!"
Il cuore riprese a pulsare regolarmente. Ma il sollievo durò poco. Sentì qualcosa muoversi dietro il divano. Passarono alcuni istanti, lunghi come minuti. Alla fine ne sbucò un gatto impaurito, entrato senz’altro dalla finestra aperta, forse per cercare un pò di tepore o qualcosa da mangiare. Steve si diresse verso di lui sorridendo. Ma il gatto, appena lo vide avvicinarsi, si bloccò e lo fissò. Poi, all’improvviso, inarcò la schiena e gonfiò la coda mettendosi di traverso, in un chiaro atteggiamento di ostilità. Gli soffiò in modo inequivocabile, mostrando i denti e abbassando le orecchie, come se Steve fosse il peggiore dei suoi nemici. Steve fu colto di sorpresa da quella reazione.
Aveva appena visto un gatto indifeso trasformarsi in una belva in agguato. Che cosa ci poteva essere di così minaccioso in lui da spingere l’animale ad una simile reazione?
Si rese conto che teneva ancora in mano la statuetta di bronzo. Abbassò il braccio e la posò sul tavolino di vetro.
"Ehi, non hai capito! Vieni, ti do qualcosa da mangiare"
Si chinò verso di lui per prenderlo in braccio. Fu un imperdonabile errore. Il gatto lasciò partire una zampata fulminea che gli produsse una profonda ferita nel dorso della mano. Steve, colto di sorpresa, non poté far altro che stringersi istintivamente la mano sanguinante.
Il gatto, in un attimo, fu sul ripiano di marmo della finestra e sparì nella notte.
Steve restò inebetito a fissare la tenda del soggiorno, agitata da un vento gelido. Si sedette sul divano, dopo aver chiuso la finestra. Era stata una giornata pazzesca. Neppure la serata passata con Kate lo aveva soddisfatto. Era stata assente nella conversazione: era chiaro che per tutta la sera aveva pensato ad altro. A Henry Kenz?
Certo, lei non lo aveva voluto ammettere, a lui ne era praticamente sicuro. La cosa lo stava rendendo sempre più nervoso. Gli si stavano insinuando dei dubbi sempre più insistenti riguardo al suo rapporto con lei. Aveva fatto bene a fidarsi dei suoi occhi sinceri, o meglio, che lui aveva ritenuto tali? Era simpatica, intelligente...era bella, provocante. Ma in quel momento si chiese se tutto questo poteva bastare per proseguire una relazione che lui giudicava così importante per la sua vita. Ripensò al suo incubo...
Si sarebbe ricordato quella notte per il resto dei suoi giorni.
© Claudio Pellegrino - © 1998 ARPANet. Tutti i diritti riservati. Riproduzione vietata.
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