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UN UOMO NEL BUIO
di: Claudio Pellegrino


CAPITOLO QUINTO

I
 

"Stiamo atterrando all’Aeroporto Jackson. Il Comandante vi prega di allacciare le cinture di sicurezza"
Kate ringraziò in cuor suo la Hostess per aver interrotto, con il suo annuncio, la serie di domande con cui Steve la stava mettendo in difficoltà. Era comprensibile la sua apprensione per ciò che era successo gli ultimi due giorni a Firenze, anche se la sua attenzione era concentrata sul pittore Henry Kenz: secondo Steve infatti doveva esserci stato qualcosa di più del semplice incontro e successivi casuali scambi di parole. Doveva esserci stato qualcosa che l’aveva colpita al punto da rimanere esterrefatta quando aveva visto la foto sulla locandina. Kate non poteva certo dargli torto, stava cogliendo nel segno.
Fu per quel motivo che abbassò gli occhi e cercò la cintura di sicurezza, sperando che si distraesse, visto che per Steve l’atterraggio era il momento peggiore di tutto il volo. Ma per sua sfortuna quella volta non aspettò l’impatto con la pista con il cuore in gola: aveva altro a cui pensare.
"Tu ci sei stata insieme, a questo pittore. Non è vero?"
affermò con sicurezza, spostando la testa in basso per poterla guardare negli occhi.
"Te l’ho già detto, l’ho incontrato a Wellington Park. Poi ancora un paio di volte in centro. E se sono rimasta sorpresa davanti alla locandina è solo perché avevo avuto quella sensazione prima, guardando il quadro."
"Guarda che le visioni, come le chiami tu, le hai avute dopo, quando hai voluto a tutti i costi rivedere la mostra!"
"Ho parlato di sensazioni, non di visioni! Capisci la differenza tra queste due parole?"
Si stava nascondendo dietro ad un dito, e per farlo stava diventando cattiva. Lo sapeva, non avrebbe voluto, ma non poteva farci niente. Stava cercando di evitare di essere messa di fronte alla realtà. Sperava di scoraggiarlo, di costringerlo anche al litigio, se fosse stato necessario: non aveva voglia di raccontargli il suo passato. Forse non si fidava ancora di lui.
Toccarono terra alla 12.05, in perfetto orario.
Scesero lungo la scala e salirono sull’autobus, senza rivolgersi neppure una parola. Forse Steve ci era rimasto male. D’altra parte in sei mesi non avevano mai avuto un litigio vero e proprio, di quelli che ti permettono di sfogarti per poi, messe le cose in chiaro, proseguire più leggeri e più sinceri.
Kate, comunque, un qualcosa di positivo già lo aveva intravisto, in quella situazione: Steve aveva dimostrato una determinazione che era andata al di là di ogni sua previsione. Consegnarono i passaporti all’agente federale che li congedò quasi subito con un "Bentornati negli Stati Uniti". Steve gradì molto quella frase di circostanza, in quanto si sentiva sollevato non poco. Proseguirono verso l’uscita.
Ad un certo punto Steve si fermò bruscamente, di fronte al bar dell’Aeroporto. Afferrò Kate per un braccio. Lei fu colta di sorpresa. Steve lasciò cadere la valigia a terra e disse:
"Lo sai che ti amo?. Si, lo sai, non è una novità. Però io devo sapere. Come faccio a fidarmi di te, a voler costruire qualcosa, se non conosco praticamente niente di te? Tu mi stai mentendo e questo io non lo sopporto. Voglio sapere tutto su questo Henry Kenz, qui, subito!"
Aveva finito. Tirò un respiro di sollievo. Finalmente ce l’aveva fatta. Si era liberato della paura che aveva di lei, della soggezione che talvolta provava ancora per l’insicurezza di fronte ad una donna che sapeva sempre ciò che voleva e perché. Ma la sua gioia fu subito sopraffatta dal panico. Lui non aveva il diritto di pretendere questo da lei. Il suo passato lo riguardava fino ad un certo punto. Ma ormai era fatta. "E se lei adesso prende e se ne va, io che faccio?" pensò Steve, ma non disse nulla.
Kate ci mise un momento per credere ai suoi occhi e soprattutto alle sue orecchie. Eppure era Steve, non c’erano dubbi. In cuor suo rise per la gioia di aver scoperto in lui un uomo deciso e determinato. Ma il suo viso ridiventò duro: non poteva certo arrendersi subito.
"Calma, ragazzo!!"
ribatté lei con durezza. Non poteva e non voleva cedere adesso, doveva ancora verificare. Se avesse ancora passato un esame forse gli avrebbe raccontato tutto su quel Kenz.
"Io non ho nessun passato da raccontare, e soprattutto da raccontare a te. E se continui a rompere, mi perdi. Io me ne vado capisci?"
Si era avvicinata tanto da alitargli in faccia il suo finto risentimento.
"E allora vattene!"
gli sussurrò Steve, sostenendo il suo sguardo, senza neppure muovere un sopracciglio, anche se avrebbe voluto risucchiare il fiato che gli era appena uscito per pronunciare quella frase. Ma ormai era troppo tardi.
Kate riprese la valigia e si allontanò decisa. Lui restò imbambolato, incapace di fare o dire niente. Dentro la sua mente c’erano il leone e l’agnello che avevano ingaggiato una lotta furibonda. Kate intanto aveva iniziato a rallentare. Era convinta che l’avrebbe richiamata, doveva farlo. Rallentò ancora e tese l’orecchio, ma sentì solo altoparlanti, vociare confuso, rumori secchi, musica. E se Steve non fosse poi così innamorato e sottomesso come lei credeva? Iniziò a sentir battere il cuore, le vennero vampate di calore e iniziò a sudare: il panico la stava conquistando. Era la prima volta che provava quella sensazione di smarrimento.
Capì, in quell’istante, quanto amasse quel ragazzo così dolce e gentile. Rallentò ancora, era quasi ferma, quando sì toccare la spalla. La gioia improvvisa le scaricò di colpo la tensione che aveva accumulato in quei pochi secondi.
"Steve!!"
"No, non sono Steve. Sono Bob, il tuo compagno di corso. Come stai Kate?"
Senza lasciarle il tempo di rispondere la baciò e la abbracciò goffamente.
"Ti ricordi di me?"
"Ma si, certo...come ti va Bob?"
Kate sentì le gambe cedere. L’adrenalina defluì dalle sue vene come acqua dallo scarico del lavandino.
Bob parlava e parlava, alternando parole, risate, pacche sulla spalla. Lei si sentì invadere dal desiderio di scappare verso Steve. "Steve!" la sua mente si riebbe finalmente dalla spiacevole sorpresa e i suoi occhi lo cercarono in mezzo alla folla: alla fine lo trovò, mentre Bob continuava a parlare a ruota libera, facendo domande e risposte, battute e risate: lo vide andarsene a testa bassa. Fu invasa da una tenerezza infinita. Bob era intanto arrivato a quando si era separato e si era trasferito per cercare nuovi stimoli per il suo libro sull’arte precolombiana. Kate lo guardò un attimo: era sempre il solito sbruffone. "Ma quale libro vuoi scrivere con quella faccia?" pensò tra sè mentre cercava di congedarsi educatamente:
"Sono stata felicissima di rivederti, ma adesso devo proprio scappare. Perdo l’aereo!"
Detto questo si mise a correre verso Steve, lasciando Bob con il suo libro e il suo matrimonio fallito.
Lo vide fermo all’edicola, intento a scegliere una rivista.
"Steve, aspetta!!"
L’aveva raggiunto. Era la prima volta che correva dietro ad un uomo. Steve si voltò, sorridendo. Lei gli fu addosso e lo abbracciò.
"Perché non mi hai chiamato?"
"Io...non lo so. Volevo, te lo giuro, ma non l’ho fatto. Comunque, chi era quello, un altro pittore?"
"Oh mio Dio, ma tu sei proprio geloso!!"
rispose lei baciandolo dolcemente.
Lo guardò ancora un attimo: quell’uomo che lei pensava di avere in pugno le aveva fatto passare cinque brutti minuti.
Le sembrò che lui percepisse i suoi pensieri. Sembrava infatti molto più sicuro di se, più sereno. Ne fu felice.
"Senti, è meglio che parliamo un po' di questo Kenz, O.k?"
"Chi era quello?"
"Era Bob , un vecchio compagno di corso, una palla tremenda, va bene? Adesso non esagerare! Ti offro un caffè."
Entrarono nel bar dell’Aeroporto. Erano da poco passate le tredici. Scelsero un tavolo abbastanza tranquillo e ordinarono due caffè.  

II
 

Olson uscì dalla Centrale con un’idea ben precisa: mangiare un pasto decente, niente hot-dog o patatine. Forse un po' di cucina cinese non gli avrebbe certo fatto male. Anzi non la cucina cinese in generale ma la cucina di Wuang Li, una via di mezzo tra la frutta caramellata e la crusca: qualcosa insomma che placasse la sua gastrite. Si sentiva rilassato all’idea di assaporare qualche manicaretto del suo amico.
Ma la sua mente non era facile da imbrigliare con banali tentazioni di gola.
Tre croci...di nuovo, in modo ossessivo, come una multa che prima o poi devi pagare.
Jack...
Il suo cuore si fermò solo per una frazione di secondo. Lui comunque avvertì ugualmente una strana sensazione, come se il sangue defluisse dalle vene e dalle arterie. La pausa si prolungò: il suo cuore stava segnando il passo.
Jack...il ciondolo...
Il cuore riprese: sentì di nuovo il sangue correre all’impazzata nelle arterie, avvertì una vampata di calore avvolgergli tutto il corpo. Si fermò un istante a guardare le auto che passavano. La sua attenzione fu attratta da un individuo molto distinto, nell’ auto ferma al semaforo. Era sulla sua Chevrolet nuova fiammante (o era solo pulita?): gli parve di avvertire freddezza, cinismo nel suo sguardo svogliato. Inconsciamente iniziò ad odiarlo. Decise che doveva essere per forza un tipo asettico, qualunquista e opportunista e gli venne da pensare perché il destino aveva scelto proprio Jack e non quello stoccafisso. Cercò di avvicinarsi di più per verificare la fondatezza del suo disprezzo, ma un passante lo urtò, richiamandolo alla realtà: si sentì ridicolo e infantile. Guardò il tizio distinto sorridere, mettere la marcia e partire appena scattò il verde.
Jack...
Rivide per un istante la sua testa fracassata, il suo sangue che aveva sciolto un po' di neve scavando un solco abbastanza profondo. Rivide le tre croci sul suo petto liscio come un tavolo di biliardo, rivide la sua mano serrata intorno a qualcosa di importante. Ricordò tutto di lui, in un istante. Si rese finalmente conto che voleva bene a quel ragazzo, che ciò che aveva provato e stava ancora provando non era la seccatura di aver perso un valido informatore ma un sentimento puro, affetto verso un altro essere umano. Ne fu felice.
Jack...il ciondolo...
Si fermò vicino ad un orefice. Cercò in vetrina un ciondolo uguale a quello che la sua mente aveva fotografato in quel tragico momento. Era tutto inutile, lo sapeva. Per tutta la mattina i suoi colleghi avevano visitato decine di gioiellerie, oreficerie e simili, in tutta la città, senza nessun risultato: avevano solo ottenuto tanti "Ma.." "Forse..." "Può darsi...", insomma niente. Olson si rendeva conto dell’assurdità di quella ricerca: era un comune ciondolo d’oro, acquistato circa un anno e mezzo addietro, in quale gioielleria poi? Per quanto ne sapevano non era affatto detto che fosse stato comprato in città.
Brancolava nel buio più profondo, ma nonostante tutto entrò ugualmente nell’oreficeria. Si presentò al titolare, gli mostrò il tesserino, e gli mostrò il ciondolo. Il signore sulla sessantina spostò gli occhiali sulla punta del naso e lo osservò molto attentamente.
"Non è stato acquistato qui."
Olson fu stupito dalla risposta. Volle sapere il perché di una simile certezza, dal momento che nella vetrina erano esposti oggetti molto simili a quello che stava tenendo in mano. Olson sperava gli dicesse qualcosa su cui lavorare.
"È molto semplice...Io non uso questi caratteri per incidere!"
La banalità della risposta deluse non poco Olson che si aspettava chissà quale sconvolgente rivelazione. Ringraziò e uscì. Fece ancora qualche centinaio di metri. Vide Wuang Li sulla porta del ristorante.

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