UN UOMO NEL BUIO
di: Claudio Pellegrino
IV
Guardò i muri della camera di sicurezza con uno sguardo assente. Non notò lo squallore di quelle pareti insozzate di ogni sorta di scritte e disegni, la sedia su cui era seduto da più di un’ora, immobile, il letto malandato e in disordine.
Si sentiva invece protetto, e non solo fisicamente. Anche la sua mente sembrava più rilassata.
Ripensò ancora una volta a lui, Bob Keaton o Kelton, non ricordava bene. L’aveva sentito da un’agente, che stava rispondendo ad un collega, mentre gli prendeva le impronte digitali. Si ricordò gli sguardi quasi intimoriti delle persone presenti alla Centrale di Polizia, quando era entrato.
Si ricordò i bisbigli che seguirono il suo passaggio nel corridoio affollato di teppisti, prostitute, agenti. Ricordò in particolare una donna dall’aspetto trasandato, sporca, con i capelli arruffati, che gli gridò "Bastardo!!" e gli sputò in faccia...Bob Keaton...
L’aveva letteralmente fatto a pezzi. Adesso ricordava perfettamente tutta la scena. L’aveva visto arrivare, fermarsi, riprendere a camminare, fermarsi nuovamente. La sua mente ripropose, ovattata, la voce di Bob , le sue frasi minacciose, e al tempo stesso gli ricordò le sue sensazioni di estraneità e determinazione. Ricordò che si sentiva come al cinema, ad osservare una scena di un film dell’orrore. Ma non era stato un film, adesso lo sapeva con certezza e rivedeva chiaramente l’ascia prima andare a vuoto e poi tagliare di netto il braccio del poveraccio. I suoi occhi!! Sbarrati, terrorizzati, quasi ridicoli. Poi il colpo secco sulla fronte. Ricordò che una porta si socchiuse nella sua mente martoriata, quasi a mostrargli un’altra realtà... o la sola realtà? Non l’aveva ancora capito. Cosa c’era dietro a quella porta? Forse la risposta a tutto quel sangue. Si rese conto comunque che stava divagando e si costrinse a tornare alla scena: la sua mente, adesso obbediente, gli ripropose al rallentatore l’ascia che calava sulla testa dello sventurato spaccandogliela in due di netto, un colpo preciso e violento. Perchè aveva ucciso quell’uomo? L’angoscia lo assalì all’improvviso quando incominciò finalmente a rendersi conto del male che aveva fatto. Forse non importava molto il perchè. Quello che contava adesso era il fatto nudo e crudo: aveva ucciso un uomo...tutto il resto erano pensieri superficiali. E poi...quante altre persone aveva ucciso? Dicevano sei. Ormai era convinto che fosse tutto opera sua. Prese finalmente coscienza del dolore che aveva provocato, della crudeltà con cui aveva agito, dell’assurdità di ciò che aveva fatto, finalmente pianse di disperazione. Provò la desolazione più profonda e lacerante.
Si sentì come quando si sa che è successo qualcosa di terribile e non c’è nessun modo per farsene una ragione, quando il mondo crolla di schianto senza dare il tempo di trovare un appiglio per poter ancora sperare di salvare dal baratro. Henry Kenz stava finendo in quell’abisso senza ritorno: "Biglietto di sola andata, amico!". Forse desiderava caderci dentro, sotterrare l’assurdo orrore che aveva provocato. "Illuso, sei un povero illuso. Non gliene frega niente a nessuno che stai piangendo i sei morti. È comodo buttarsi sotto un treno dopo aver seminato terrore e dolore. Sarebbe più giusto che vivessi e soffrissi ogni giorno, ogni ora, ogni minuto per il resto dei tuoi giorni..."
La voce della sua coscienza era di nuovo affiorata nel turbinio dei suoi pensieri. Nel buio della cella continuò ancora a parlare a se stesso. "Ti hanno preso, Henry, come tre anni fa e ti hanno di nuovo trasformato in un’arma micidiale." Si alzò dalla sedia malferma e si diresse verso la parete più lontana dalla porta.
"Oh mio Dio!" esclamò, asciugandosi col la manica della maglia il sudore che gli imperlava la fronte corrucciata.
Iniziò a camminare nervosamente, percorrendo tutto il perimetro della camera di sicurezza. Quella porta che tante volte aveva cercato inutilmente di aprire, finalmente si spalancò del tutto. Cercò di nuovo la sedia e vi si lasciò cadere. Tornò indietro nel tempo e finalmente capì.
Era maggio, cinque anni prima.
Henry era in Central Park e stava giocando con suo figlio Ted di dieci anni. Sua moglie, un’adorabile texana di trentadue anni lo stava chiamando. Henry vide che si stava agitando: Voleva che la raggiungesse. Henry lanciò la palla da football a Ted e si avviò verso Paula.
"Che c’è?"
"Là vicino al chiosco degli hot-dogs ci sono due signori distinti che vogliono parlarti. Sembrano molto interessati a quei quadri esposti alla mostra."
Paula sembrava molto eccitata. Gli sorrise e aggiunse:
"Dai, Henry, forse ci siamo!!"
Era molto felice. Lo baciò con foga e lo spinse scherzosamente verso il chiosco, indicandogli i due tipi. Si avviò non molto convinto. Sarebbe stato un colpo di fortuna insperato. Avrebbe risolto alcuni problemi economici che lui era solito chiamare "particolari". Non sbagliava, infatti: erano problemi particolarmente gravi. La banca gli aveva dato due settimane per pagare alcune rate arretrate del mutuo sulla casa. C’erano poi vari creditori più o meno ufficiali che gli stavano dietro, compreso un messicano di nome Juan, che gli aveva promesso l’amputazione di un dito se non saldava un certo debito entro la fine del mese. Insomma sarebbe stato un bel colpo di fortuna piazzare due o tre quadri, o magari tutti... Sarebbe stato la fine di un incubo.
Li raggiunse mentre stavano sorseggiando un caffè.
"Buongiorno, sono Henry Kenz. Piacere!"
esordì brillantemente, per dare subito un’impressione di sicurezza sia emotiva che economica: aveva imparato a suo spese, che negli affari non bisognava mai far capire all’ interlocutore che avevi bisogno dei suoi soldi per tirare avanti.
"Buongiorno."
I due impettiti signori risposero quasi in coro.
"Perchè volevate parlarmi?"
chiese Henry con noncuranza, solo ostentata, naturalmente, come da copione. Se avesse agito come gli dettava il cuore e soprattutto il portafogli, avrebbe detto in ginocchio "Vi vendo tutti i quadri per ventimila dollari, anzi ... facciamo quindicimila e non ne parliamo più" Sarebbe stato il modo migliore per venderli a diecimila, magari ottomila, o peggio, non venderli affatto. Mentre aspettava la risposta si accese una sigaretta.
"Dunque..."
esordì quello che tra i due sembrava il più anziano.
"il nostro, diciamo..., principale sarebbe interessato ad alcuni suoi quadri. In particolare ai due dipinti da lei intitolati..." estrasse dalla tasca un foglietto "da lei intitolati "La solitudine" e "Un uomo nel buio". Ci ha mandato qui da lei per sapere indicativamente qual è la sua richiesta per vendere quelle due tele."
Henry fu molto sorpreso, in quanto si era preparato a rispondere alle solite frasi dell’approccio tipico in situazioni del genere. Invece l’affare sembrava già concluso: si trattava solo di prezzo. Aveva il terrore di sbagliare.
La valutazione fatta dagli organi competenti era stata di settemila dollari per "La solitudine" e di ottomilacinquecento per "Un uomo nel buio". Si sapeva che quella era solo la base da cui si partiva. Il prezzo, in ogni caso, veniva concordato con l’acquirente. Henry era già abbastanza abituato a giudicare un tipo con un colpo d’occhio, per poter stabilire se gli si poteva fare un prezzo diciamo...un pò gonfiato, o viceversa, se era il tipo che diceva "O a questo prezzo o niente!". Cercò quindi di far fruttare la sua esperienza.
Li guardò con attenzione.
Sembravano due persone importanti. Erano ben vestiti, ben curati e uno dei due aveva al polso un orologio d’oro massiccio. La persona per cui lavoravano, il suo acquirente, doveva essere senz’altro un uomo facoltoso. Per una volta nella vita volle esagerare veramente:
"Ha scelto i quadri a cui più sono legato. Per "La solitudine" la mia richiesta è di undicimila dollari e per "Un uomo nel buio" è di quindicimila."
Ecco, l’aveva sparata, e l’aveva sparata grossa. Aggiunse:
"Comunque se ne può parlare..."
Non voleva precludersi la possibilità di venderli: aveva bisogno di concludere quell’affare. I due si parlarono per qualche secondo. Poi il più grosso dei due estrasse dalla tasca interna della giacca nera un foglietto piegato e lo consegnò al suo collega.
"Va bene, ci sembra una richiesta ragionevole. Qui c’è l’acconto. Spero sia sufficiente per concludere l’affare."
Gli consegnò il foglietto. Henry lo prese e lo aprì: era un assegno di diecimila dollari. Cercò di trattenere la gioia e la voglia che aveva di chiamare Paula. Invece disse solo:
"Può andare. Direi che si può fare."
"Ne ero certo. allora tra tre giorni consegnerà i quadri a questo indirizzo. Mr. Kline vuole visionare personalmente le due tele. Se tutto sarà a posto le consegnerà gli altri sedicimila dollari."
L’uomo aveva finito. Gli porse un biglietto con su scritto il nome di una strada e un numero civico. Non c’erano nomi.
Annotò ancora qualcosa su un’agenda tascabile. Quindi salutò cortesemente Henry e, insieme all’altro tipo, si allontanò.
Rimase a guardarli allontanarsi per alcuni secondi, immobile, con l’assegno nella mano destra e il foglietto nella sinistra. Poi un bambino che stava correndo, lo urtò. Allora si scosse e si girò verso il prato dove sua moglie e suo figlio Ted stavano giocando. Iniziò a camminare normalmente, poi più veloce, sempre più veloce. Stava già correndo quando chiamò Paula con la mano, sventolando l’assegno. Lei vide suo marito, ma non capì subito che cosa gli stava succedendo. Ma quando la raggiunse e l’abbracciò non ebbe più dubbi: era riuscito a combinare qualcosa quel giorno.
Ma mai più avrebbe immaginato che l’affare era nato e già concluso nel giro di pochi minuti. Guardò anche lei l’assegno e rimase stupefatta. Questo sì che era un buon inizio. Erano solo le undici e già avevano incassato diecimila dollari. Paula aveva visto giusto ancora una volta.
Passarono i due giorni che seguirono fantasticando e facendo progetti. Henry era sicuro che la vendita delle due tele preludeva a successi futuri.
Il giorno della consegna si alzò di buon’ora. Fece una abbondante colazione, quindi salutò la moglie e si diresse alla galleria d’arte. Era una luminosa mattina di primavera e la periferia di New York sembrava addirittura piena di gioia di vivere. Naturalmente erano solo i suoi occhi che percepivano immagini positive. D’altra parte era comprensibile: questo inaspettato affare costituiva, oltre che una soluzione ai suoi problemi, anche una affermazione personale non indifferente, che premiava in parte anni di sacrifici non solo suoi.
Arrivò alla galleria alle nove in punto. Salutò il custode con enfasi, cosa inusuale per lui, tanto che si sentì quasi in dovere di dare una spiegazione:
"Vado ad incassare una montagna di soldi!!"
Il custode sorrise e fece cenno di aver capito. Giunto nel salone si fermò ancora alcuni secondi a rimirare i suoi due gioielli: "La solitudine" giaceva in penombra e le sfumature erano quasi impercettibili. Al contrario "Un uomo nel buio" paradossalmente era invaso da una luce intensa che filtrava dalle vetrate della grande sala.
Gli piacque saperlo in buone mani. Era in effetti il suo preferito, perchè lo aveva concepito durante un’eclisse solare di qualche mese prima. Lo aveva colpito la luce irreale che aveva pervaso ogni cosa e aveva assolutamente cercato in tutti i modi di riprodurre quell’atmosfera quasi fiabesca. Gli era riuscito proprio bene, a prescindere dal fatto che quella mattina quella felice intuizione gli avrebbe fruttato un bel mucchio di dollari. Imballò le due tele, le caricò sull’auto e finalmente partì.
Non ci volle molto per raggiungere la villa dell’acquirente al 666 di Lester Road. Si fermò davanti al cancello, esterrefatto. Era una costruzione bellissima, al centro di un parco molto ben curato. Misurò con gli occhi ogni metro quadrato di quella tenuta. Era perfetto. Due dobermann inferociti lo accolsero ringhiando minacciosi. Suonò il campanello. Passarono alcuni istanti e quindi i lampeggianti sopra uno dei due pilastri si accesero. Sentì un clack e il cancello iniziò ad aprirsi lentamente. Prima di salire in macchina sentì una voce richiamare i due cani.
Il viale d’accesso correva all’ombra di alte piante che Henry non conosceva affatto. Continuava a ripetere a se stesso, con un filo di voce : "Stupendo!". Ma, nonostante la magnificenza, c’era qualcosa di strano, misterioso. Oltre al rumore dell’auto sul selciato e allo scoppiettio del motore, tutto era silenzio. Non si sentivano uccelli. Tutto era avvolto da un silenzio innaturale.
Venne ad accoglierlo, sotto un gazebo di glicini e rose, un uomo sulla sessantina, robusto, molto scuro di carnagione: i capelli completamente bianchi risaltavano, conferendo al suo aspetto qualcosa di stranamente bello. Aveva il colore degli occhi di un profondo azzurro, accattivanti e gelidi al tempo stesso.
Era una calda mattina di primavera, ma Henry, anche se solo per un istante, sentì freddo.
"Buongiorno, lei deve essere il pittore Henry Kenz, giusto? Io sono quello che le ha firmato l’assegno di diecimila dollari."
Detto questo gli porse la mano, sorridendo.
"Cafone e presuntuoso, che modo di presentarsi!" pensò tra se Henry, mentre gli stringeva la mano.
"Buongiorno."
Rispose al saluto molto freddamente. Continuò:
"Ho portato i due quadri, sono in macchina"
"O.k., l’aiuto a portare ventiseimila dollari."
L’uomo gli sorrise con complicità. Forse stava solo cercando il modo di rompere il ghiaccio, anche se la cosa gli riusciva abbastanza goffamente. Infatti Henry fu negativamente colpito dal modo con cui il suo acquirente cercava di riuscire simpatico. "Ma per chi mi ha preso?" pensò tra se, mentre entravano in soggiorno con le due tele.
"Le trova troppo care?"
"No, per carità, stavo solo scherzando. Se l’ho offesa mi perdoni, è stata una cosa assolutamente involontaria!"
Appoggiarono le due tele alla parete di fronte al divano e iniziarono a togliere la carta che le aveva protette.
"Fantastiche!"
L’uomo brizzolato pareva veramente sincero. Si avvicinò per osservarle meglio.
"Su questo ci puoi scommettere, stronzo!" pensò Henry, indirizzandogli un sorriso ipocrita. Effettivamente il quadro che l’uomo stava osservando concentrato era stupendo. Rappresentava un uomo in ombra, nell’ombra innaturale di un eclisse di sole. Sullo sfondo un’ampia vetrata, che lasciava intravedere, oltre ad un campo di papaveri, un enorme sole nero, contornato da un alone di luce arancione. L’uomo guardò Henry con due occhi penetranti:
"Questo sole...perchè? È così...tetro."
Henry fu come ipnotizzato da quello sguardo. Restò alcuni istanti immobile, rapito. Poi un rumore proveniente dalla stanza adiacente lo richiamò alla realtà.
"Cosa ha detto, scusi? Ah, sì, quel sole. Ho assistito ad un eclisse di sole qualche mese fa. Non si ricorda?
"No."
L’uomo si allontanò dalla stanza. Henry rimase stupito dal suo improvviso disinteresse. Lo vide tornare poco dopo con due bicchieri. Stava di nuovo sorridendo.
"Brindiamo all’affare!"
Henry bevve avidamente. Gli diede una sensazione di profondo benessere, tanto che chiuse gli occhi per cogliere completamente il gusto del whisky che gli era stato offerto. Ma non avvertì solo il gusto dolciastro del Jack Daniels: gli rimase un sapore amaro in fondo al palato, un retrogusto mai sentito prima in un drink.
Ebbe un principio di vertigine. Riaprì gli occhi d’istinto per riprendere il controllo, ma non vide davanti a lui la figura nitida dell’uomo, come si era aspettato succedesse. Sbatté due volte le palpebre per togliere quella patina che sembrava essersi formata sui bulbi. Nonostante i suoi sforzi continuava a vedere tutto sfuocato. Gli tornò la vertigine. Cercò a fatica il divano e si lasciò cadere in modo scomposto. Stava sudando copiosamente. Sentiva le braccia pesanti e la testa come se fosse staccata dal resto del corpo. Ma solo quando udì una sinistra risata realizzò che doveva essere stato drogato o addirittura avvelenato. La sua mente intorpidita, non riuscì, come era prevedibile, a capirne la ragione. Riuscì solo a belare un "Aiutatemi!" senza troppa convinzione. Continuò a fissare l’uomo, o meglio l’ombra, che iniziò ad avvicinarsi a lui con qualcosa in mano. Una macchia bianca, confusa.
"Ecco il tuo assegno, pittore!"
La voce pareva attutita, la colonna sonora di un sogno. Il pezzo di carta volteggiò e infine gli cadde tra le mani. Henry ebbe la certezza che non l’avrebbe mai incassato e quasi gli venne da ridere per l’assurdità della considerazione in una simile circostanza. La penultima cosa che realizzò fu che accartocciò l’assegno in mano. L’ultima fu che si sentì sollevato per le braccia e per le gambe, da figure confuse che ripetevano frasi incomprensibili. Poi il buio cade sui suoi occhi stanchi.
Li riaprì dopo chissà quanto tempo.
Era legato mani e piedi su una sorta di tavolo di pietra, in una caverna illuminata da fiaccole. Sentiva in lontananza voci che si stavano avvicinando. Cercò di alzare almeno la testa per capire che cosa stava succedendo. La prima ragione che gli venne in mente fu che fosse tutta opera di Juan, stufo di aspettare i suoi dollari. Ma si rese ben presto conto che era un’ipotesi poco verosimile, appena mise a fuoco gli ultimi minuti di vita che ricordava.
Le voci adesso erano molto vicine. Vedeva anche che la galleria di fianco si stava illuminando. Disse tra sè:
"Almeno saprò a chi chiedere una spiegazione..."
Henry si stava sforzando di farsi animo, ma appena si trovò di fronte un corteo di incappucciati tutto il suo coraggio si sciolse come neve al sole per lasciare posto al terrore più nero. L’individuo che guidava il corteo indossava una tunica nera, lunga fino ai piedi, aveva il volto coperto da un cappuccio anch’esso nero. Stava tirando un caprone, costretto a seguirlo da una corda rozza e sudicia. Gli altri che seguirono, una decina forse, avevano tuniche e cappucci bianchi e portavano torce accese.
Tutti mormoravano la stessa sequela di parole assurde, dal suono secco e crudo. Sembrava una sorta di preghiera.
Henry si sentì affondare nell’angoscia.
Li guardò disporsi in cerchio attorno a lui. L’uomo che aveva guidato la processione si fermò proprio all’altezza dei suoi piedi. La fatica gli fece ricadere la testa sull’altare.
Le parole che seguirono faticavano ancora adesso, dopo tre anni, a riaffiorare alla mente senza provocargli terrore e angoscia. Ma nel buio della cella volle torturarsi fino in fondo. Voleva, in qualche modo, punirsi per ciò che aveva fatto. Si trattava solo di autocommiserazione. La sua mente tornò in quella maledetta caverna.
L’uomo con la tunica alzò le braccia e iniziò la sua farneticante preghiera:
"Abù label not si karam si tu nibel, altar satù kabal vestrù, niki tolà krambà tabà!!"
Henry udì gli altri in cerchio ripetere con devozione l’assurda sequela. Poi il sacerdote riprese, in un inglese stentato, ma non per questo meno terribile e allucinante:
"Dieci comandamenti diede il Dio maledetto agli uomini, la croce il simbolo della loro fede. Verrà profanata e distrutta dall’avvento di Satana, re e sovrano assoluto del secondo regno del mondo. Fratelli preparate la sua venuta purificando la Via. Per ogni comandamento un credente verrà ucciso e immolato a Satana, e tre croci verranno incise sul suo corpo, due in alto, quelle dei ladroni rubati a Satana, e quella del Figlio di Dio sotto le loro. Il fratello lascerà il suo segno così che Satana lo onorerà all’avvento del suo regno. Dieci comandamenti, dieci sacrifici tutti al confine del Regno di Satana in questo mondo, per proteggerne il tempio e attendere tra le sue mura l’avvento del Distruttore!"
Poi finalmente tornò il silenzio.
"Dio mio, aiutami!" sussurrò Henry, mordendosi le labbra fino a farsi male. Che cosa voleva dire tutto ciò? Che cosa volevano da lui? Era sicuro che l’avrebbero squartato come un maiale. Uno degli incappucciati estrasse dalle cintola un coltello e si avvicinò ad Henry. Chiuse gli occhi iniziando a farfugliare preghiere e imprecazioni.
Sentì una fitta prolungata sul braccio sinistro all’altezza della spalla. Gli stava incidendo la carne, lentamente. Sentì il sangue scivolare sulla pelle fremente. Ma quel dolore era niente in confronto a ciò che si era aspettato.
"Sono solo pazzi invasati, vogliono solo divertirsi un pò!"
pensò Henry, sentendo che il coraggio stava facendo di nuovo capolino dietro un abisso di angoscia. Voltò la testa verso l’uomo al suo fianco, e lo vide inchinarsi e porgere il pugnale all’uomo vestito di nero.
Di nuovo il buio oscurò il tenue e incerto sole del suo coraggio. "Ci siamo" pensò "fai in fretta, bastardo, e piantamelo nel cuore."
Invece l’uomo alzò il pugnale verso la volta di pietra, emise un suono acutissimo e con un gesto fulmineo affondò il pugnale nel collo del caprone. La bestia sbarrò gli occhi e, dopo qualche istante di innaturale immobilità, stramazzò al suolo lordandosi del suo stesso sangue.
Il sacerdote lo afferrò per le corna e continuò ad affondare il pugnale nel collo martoriato fino a quando la sua testa non si staccò completamente dal corpo. Quindi la alzò e ripeté la frase incomprensibile.
Henry restò senza fiato. Gli venne un conato di vomito, ma lo trattenne per timore di restare soffocato.
L’uomo vestito di nero reggeva adesso l’orrendo trofeo proprio all’altezza della sua testa. Sentì colare sulle guance, sulle labbra e sugli occhi il sangue ancora caldo dell’animale. Cercò di sottrarre la faccia a quello schifo, ma fu tutto inutile. Involontariamente sentì il gusto dolciastro caratteristico del sangue. Ne avvertì il calore vitale che aveva abbandonato la bestia distesa al centro della caverna. Questa volta non riuscì più a trattenersi: voltò la faccia e vomitò dolorosamente.
Nel buio della cella Henry Kenz sentì di nuovo quel sapore inconfondibile. Si stupì di quanto i ricordi fossero reali.
A questa sorta di iniziazione , seguirono mesi di orrori. Ormai la sua mente era in balìa di quei pazzi fanatici. Uccise per due volte e per due volte dovette sottoporsi, suo malgrado, al rito di ringraziamento che culminava in una sorta di messa nera, durante la quale veniva immolato il caprone, simbolo di Satana. La cerimonia di sangue degenerava sempre in un’orgia frenetica, esasperata dal suono dei tamburi. Al sacerdote spettava sempre per diritto l’accoppiamento con una giovane discepola che veniva preparata lordando il suo corpo fremente con il sangue ancora caldo del caprone appena immolato.
Tenevano sotto controllo la moglie e il figlio, per avere una sicurezza in più. Seguivano ogni loro mossa, ogni spostamento. Conoscevano perfettamente i luoghi che frequentavano, le loro abitudini. Lui non avrebbe potuto far nulla : ormai era il loro braccio. Da come aveva potuto capire dai discorsi farneticanti avevano altri come lui, sparsi in tutti gli Stati Uniti. Naturalmente non seppe mai chi manovrasse tutto questo. Non conosceva neppure il sacerdote e i proseliti incappucciati che partecipavano ai riti. Una organizzazione perfetta. L’unica traccia che aveva era il facoltoso acquirente dei suoi due quadri. Ma quando si era recato in banca per sapere a chi appartenesse la firma sull’assegno che gli avevano consegnato durante il primo incontro, non ricevette che risposte evasive. Inoltre la sera stessa ricevette una telefonata che lo fece desistere: lo minacciarono di rapirgli moglie e figlio e restituirglieli a pezzi. Lui non ebbe difficoltà a credere a quelle parole.
Riuscì solo a scoprire che la stupenda villa in cui si era recato quella mattina maledetta era intestata a una società immobiliare di San Francisco.
Dopo due mesi di angoscia, si decise di raccontare tutto a Paula per poter trovare insieme una via d’uscita. Ricordava ancora adesso, a distanza di tre anni, tutte le parole di quel dialogo. Dapprima ci fu incredulità, stupore. Poi Paula a poco a poco iniziò a credere a quel racconto assurdo.
Ricordò che insieme trovarono una soluzione per poter fermare quel massacro. Erano praticamente sempre insieme e quando Henry avvertiva che la sua mente stava scappando via, Paula doveva rinchiuderlo in una stanza della casa e se fosse riuscito ad uscire avrebbe dovuto avvertire la Polizia: meglio la galera che continuare ad uccidere persone innocenti. Aveva già due morti sulla coscienza. In effetti aveva passato qualche giorno convinto che avrebbe dovuto costituirsi, ma la stessa Paula l’aveva distolto da quel proposito. In effetti le due persone uccise non sarebbero più tornate in vita e lui avrebbe pagato per un crimine di cui non era responsabile.
Comunque con quel sistema riuscirono insieme ad evitare il terzo omicidio. Henry ricordava perfettamente quell’episodio.
Stava leggendo un libro nel salotto quando udì delle voci che gli giungevano da chissà dove. Chiamò Paula con voce tremante. Lei lo guardò e capì che stava di nuovo per succedere. Lo aiutò ad alzarsi e lo fece distendere sul letto della camera. Quindi chiuse la porta a doppia mandata. Corse fuori nel giardino e sprangò anche la finestra, fermando le persiane con una catena. Poi scoppiò a piangere: era pazzesco tutto questo. Fortunatamente era già tardi e suo figlio stava già dormendo. Seguirono alcuni minuti di urla e disperazione. Poi nella mente di Henry tornò il silenzio. Chiamò sua moglie: lei esitò un momento poi si decise che la crisi doveva essere passata. Stava ancora piangendo quando abbracciò Henry. Era finita. Paula gli raccontò quei minuti eterni. Erano convinti che la storia fosse definitamente conclusa. Ma dopo due giorni di relativa calma, in cui aveva cercato di ricostruire i punti oscuri per capire, almeno in parte, che cosa gli fosse successo veramente, sua moglie e suo figlio, tornando da una visita ad un’amica fuori città, ebbero un pauroso incidente sull’ Interstatale 19 contro un camion impazzito. Entrambi furono dilaniati dalle lamiere del loro fuoristrada. Quando arrivarono i soccorsi, l’autista del mezzo era scomparso. "Loro" si erano vendicati.
Nel buio della cella Henry pianse silenziosamente. Chiamò Paula, sussurrando quel nome tanto amato e lasciò che i ricordi lo torturassero ancora. Rivisse i momenti felici, loro tre insieme, quando erano convinti che insieme sarebbero riusciti a conquistare il mondo. Pensò a suo figlio Ted, a come sarebbe stato adesso se quei bastardi non lo avessero ucciso. Avrebbe dovuti abbandonarli, forse li avrebbe salvati. Avrebbe dovuto andarsene come aveva fatto con Kate quattro anni dopo, appena loro erano ritornati a riscuotere ancora tributi di sangue dalla sua mente sconvolta. Che lui lo volesse o no era un seguace, o meglio, uno strumento di Satana, re del secondo regno del mondo.
Adesso però doveva finire, in un modo o nell’altro. Adesso che la Polizia lo aveva finalmente catturato, aveva la possibilità di fermarli. Lui doveva fermarli. Sarebbe stato difficile far credere la sua versione dei fatti. Ma qualche speranza c’era. Il suo intuito gli diceva che quell’uomo che lo aveva osservato attraverso lo spioncino della camera di sicurezza lo avrebbe aiutato e magari si sarebbe sforzato di credergli.
Doveva parlare con lui, immediatamente.
Si alzò di scatto dalla sedia e iniziò a chiamare a voce alta:
"Agente!! Devo parlare al tenente Olson!!"
Seguirono alcuni istanti di silenzio assoluto.
Poi udì dei passi. Sentì la serratura che veniva azionata dall’esterno. La porta si aprì. Sulla soglia comparve un agente.
L’uomo stava sussurrando qualcosa, parole che Henry capì con un attimo di ritardo.
Un coltello si conficcò nella sua gola e gliela squarciò. Sentì le gambe cedergli. Si portò istintivamente le mani alla gola, ma naturalmente fu tutto inutile. Un istante dopo stramazzò al suolo.
L’agente, continuando la sua preghiera, si chinò su Henry, gli aprì la camicia e con il coltello iniziò a tracciare tre croci sul petto. Quindi concluse con calma il rito e percorse di nuovo il corridoio deserto. Entrò nella stanza affollata di poliziotti, prostitute, spacciatori. Gli si parò davanti un agente che gli chiese che cosa voleva quel pazzo omicida. Non ci volle molto a convincerlo che l’uomo nella cella stava solo cercando di salvarsi dalla camera a gas. Salutò ed uscì dalla Centrale.
Il giorno dopo, in terza o quarta pagina, un titolo in neretto avrebbe riportato che un agente del Dodicesimo Distretto si era suicidato nel suo monolocale vicino a Wellington Park perchè aveva scoperto che la sua Emy non era più solo sua.
Olson, intanto, stava cercando di tenere a bada il capitano Freewell quando un agente, bianco come un cencio, fece praticamente irruzione nel suo ufficio.
"Hanno ammazzato Henry Kenz!!!"
Prese fiato e poi, con la voce rotta dall’emozione, riprese:
"Hanno ammazzato il pazzo, in cella, adesso!!"
Si bloccò con la maniglia della porta ancora in mano, aspettando forse che il capitano o il tenente si alzassero per complimentarsi con lui e appuntargli una medaglia per la sua interessante scoperta. Invece di una patacca d’oro l’agente scelto Scott si prese un "Che cazzo dici?" dal tenente e dal capitano, praticamente all’unisono, riportandolo subito sulla terra, nella Centrale di Polizia del Dodicesimo Distretto strappandolo per sempre dai suoi sogni di gloria e fantasticherie di carriera, peraltro ragionevolmente infondate. Il capitano non ripeté la domanda. La risposta gli arrivò indirettamente dal trambusto che c’era fuori dall’ufficio di Olson. Scattò in piedi con un’agilità inusuale per un uomo di quasi cento chili, prese Olson per un braccio e con l’altro diede uno spintone al povero agente scelto Scott, sfogando almeno in parte la sua frustrazione. Era vero il proverbio che ambasciatore non porta pena, ma in quel momento a Freewell sfuggì la grande verità contenuta in quel noto detto popolare. Avesse potuto a quell’"ambasciatore" avrebbe strappato la lingua. Scott si ritrovò su una sedia, suo malgrado, a meditare sulle profonde ragioni che lo avevano spinto ad arruolarsi in polizia: mancavano ancora cinque giorni alla paga e già quella sera avrebbe avuto problemi per la cena. In quel momento gli venne in mente che aveva chiesto ad un collega, peraltro mai visto prima, che cosa volesse il tipo nella camera di sicurezza.
"Oh Cristo, se il capitano lo viene a sapere mi spella vivo!!" disse tra sè, concludendo che sarebbe stato molto meglio per lui non riferire anche quel fatto. Ma con sua somma delusione vide attraverso i vetri Carter che stava parlando con Freewell: aveva il dito puntato verso l’ufficio e stava chiaramente indicando lui.
"Bastardo ruffiano!!" gli scappò a denti stretti. Adesso ne era certo: avrebbe dovuto continuare il lavoro di suo padre. Avrebbe un bel negozio e avrebbe potuto dire e fare ciò che voleva. Sì, sarebbe stato un ottimo commerciante, avrebbe avuto grosse soddisfazioni, avrebbe senz’altro...
"Scott, parlami un pò del tuo incontro."
Il capitano aveva aperto la porta dell’ufficio con un calcio e gli aveva buttato addosso due occhi carichi di odio. Lo sventurato agente ebbe un’illuminazione: sarebbe stato lui il capro espiatorio.
Avrebbe pagato per tutto quello che era successo dalla creazione del mondo, avrebbe pagato anche per l’omicidio di Martin Luther King, Kennedy, Gesù’...Era disperato: lo avrebbero senz’altro fucilato!! Era comunque meglio che avere gli occhi di Freewell addosso, pesanti e angoscianti come due massi da una tonnellata. Comunque, con voce tremante, riferì che cosa gli era successo. Quindi tacque, aspettando la reazione. Il capitano si limitò a sferrare un poderoso pugno sulla scrivania. Poi, con suo sommo piacere, entrò il tenente Olson nell’ufficio. Guardò lui, guardò il capitano e infine con tranquillità disse semplicemente:
"Thomas, lui non ne può niente!"
L’agente Scott osservò fuori dall’ufficio la sceneggiata che ne seguì: volavano fogli e fermacarte. La sedia su cui era seduto qualche istante prima finì contro la parete spinta da un calcio del capitano. Vide le sue braccia tagliare l’aria, ripetutamente.
La città si svegliò con quindici gradi sottozero e un pallido sole che non dava l’impressione di voler durare a lungo.
Nelle case quotidiani, radio, televisione annunciavano la fine di un incubo:
"Henry Kenz è stato trovato cadavere nella camera di sicurezza della Centrale di Polizia del Dodicesimo Distretto" stava annunciando Harold Walsh della HNBL, mixando la sua voce con un pezzo anni settanta di Bob Dylan.
"Sì, ragazzi, è finita, la Polizia, per una volta ne ha azzeccata una. Wohaw!!! Viva l’America!!"
gridò dissolvendo Dylan e mandando in onda una penosa versione Heavy Metal dell’inno americano. Non molti stavano ascoltando quella sgangherata trasmissione radiofonica di quella sconosciuta stazione. Erano invece una vera moltitudine quelli con gli occhi incollati al televisore per seguire le news della NBC, che stava dando spazio alla notizia della cattura e la successiva misteriosa morte dell’assassino di sei vittime innocenti.
"Finalmente possiamo riprendere la vita normale, senza più avere il terrore di trovarsi soli di notte per le strade di questa meravigliosa città. E ora dal nostro inviato dal Medio Oriente..."
Effettivamente poteva bastare per tirare un sospiro di sollievo. Sarebbe anche bastato per far dimenticare le sei persone uccise per mano della settima. Molte di quelle persone avrebbero dato lo stipendio di un mese per poter avere tra le mani Henry Kenz vivo: gli avrebbero spezzato le gambe, gli avrebbero cavato gli occhi, lo avrebbero massacrato a calci avrebbero dato sfogo alle frustrazioni del cittadino medio, impotente e rassegnato. Ormai era morto. Avevano soddisfatto la loro legittima rabbia e salvato uno stipendio. Già, c’erano anche sei persone uccise...Adesso, che ancora era fresca la rabbia popolare, erano vittime innocenti. Dopo qualche giorno sarebbero diventati solo vittime di una società marcia. Dopo un mese sarebbero stati solo semplici sfigati: su tre milioni di abitanti proprio loro sei dovevano incontrare quel pazzo furioso.? Solo pochi avrebbero ancora cercato una ragione che non c’era e non ci sarebbe mai stata. Tra i milioni di persone che avevano appreso quella confortante notizia due in particolare restarono di stucco di fronte al televisore.
© Claudio Pellegrino - © 1998 ARPANet. Tutti i diritti riservati. Riproduzione vietata.
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