L'IDENTIKIT Si risvegliò di soprassalto, improvvisamente sobrio, il colpo secco che ancora gli rimbombava nella testa. Restò per qualche attimo disorientato, disteso sulla panchina del giardino ben curato, all’angolo della villa a due piani, sotto la grande luna estiva quasi piena. Forse perché annebbiato dall’alcol, si era azzardato a salire fino alle villette della zona residenziale, sulla collina a Nord della città. Il vagabondo si drizzò in piedi, preso da improvviso panico, per guadagnare il cancello aperto sul vialetto ghiaioso. Ma aveva fatto solo pochi passi, quando la porta della villa si spalanca, ne esce un uomo dall'andatura veloce, elegante abito chiaro, stringe qualcosa che balugina alla luce lunare, nella mano destra che sembra guantata. Si ferma un attimo a metà del vialetto, si guarda attorno con circospezione. Il vagabondo realizzò il pericolo: era a una decina di metri da lui, non ne distingueva i tratti del viso, perché aveva la luna alle spalle, ma lui doveva vederlo benissimo, per il motivo opposto. Ma l’uomo scruta per un attimo nella sua direzione, poi raggiunge in fretta il cancello, getta lontano l’arma, sale sulla grossa Mercedes al di là della recinzione, si dilegua indisturbato. © Loris Dalla Rosa - © 1998 ARPA Publishing. Tutti i diritti riservati. Riproduzione vietata.
di: Loris Dalla Rosa
Ora il vagabondo intuiva il pericolo trascorso: qualcosa di terribile era stato commesso in quel luogo esclusivo dell’alta borghesia, di persone importanti, di piscine, di donne abbronzate e altezzose. Osservò la facciata della villa: al secondo piano una luce era accesa. Tutt’ intorno le villette isolate parevano sprofondate in un sonno indifferente e gli infusero il coraggio di entrare, giusto il tempo di riempirsi le tasche e andarsene. Lo prese un certo timore, ma varcò la soglia, come quella di una cattedrale. Non osò accendere la luce al pianterreno, si orientò al chiarore che filtrava attraverso i vetri a illuminare debolmente una vasta sala dai mobili laccati, sedie e divani antichi, quadri alle pareti e una miriade di altri oggetti, di cui non conosceva neanche la funzione. Salì per la scala di marmo passando accanto a una statua che lo sovrastava, un robusto atleta dall’aspetto fiero che gli incuteva una certa soggezione, guidato adesso dalla luce che proveniva indiretta dal piano superiore. La stanza era un ampio studio, alla parete di fronte una spaziosa libreria, una lunga scrivania nel mezzo, dov' era l’uomo che gli dava le spalle, seduto su una sedia girevole di pelle nera, la testa reclinata sulla destra, come assopito, davanti ad un monitor ancora acceso.
Il vagabondo si avvicinò in punta di piedi, quasi nel timore di svegliarlo, anche se sapeva che era morto. Gli andò vicino e ne vide il viso abbronzato e ben rasato, i capelli neri leggermente brizzolati pettinati all’indietro. Gli occhi chiari, spalancati, sembrano fissare con intensità e stupore il computer, che elabora misteriosi dati, punteggiando il monitor di numeri in continua mutazione. E' vestito in giacca e cravatta, appena allentata sul collo, il suo corpo robusto emana un leggero profumo di pulito, solo all’altezza del cuore si allarga una macchia sulla camicia bianca, come un fiore rosso all’occhiello. Sulla destra della scrivania un orologio digitale, che segna le 23.42, un giornale finanziario, un telefono, un pacchetto di sigarette e un accendino d' oro massiccio; sulla sinistra una quantità di penne e matite disposte in ordine, una piccola pila di biglietti da visita, "Financial Times", "Wall Street Journal", un dossier aperto, scritto in inglese. Il vagabondo cercò di orientarsi in quel mondo che gli incuteva soggezione, in cui ogni cosa aveva una sua collocazione precisa, ogni particolare un senso e un peso a lui sconosciuti. Prese piano piano confidenza con gli oggetti, cominciò a comprendere vagamente la funzione di qualcuno di essi, prese in mano il dossier aperto, non ne capì nulla ma notò che erano state strappate 17 pagine. Lo richiuse, lesse sul frontespizio "Chemical research", lo posò con cura, quasi timoroso di turbare quell’ordine funzionale. Ragionò che quelle pagine doveva averle strappate l’assassino, perseguendo un preciso disegno, un progetto che aveva a che fare con qualcosa di molto importante. Ma per lui quel mondo era insondabile e si dedicò, infine, a ciò che più lo interessava. Aprì il primo cassetto della scrivania, il secondo, nel terzo c' erano tre carte di credito e due banconote da centomila lire, che intascò con gli occhi che brillavano di soddisfazione. Poi si avvicinò al cadavere, gli tolse il prezioso orologio dal polso, fece un po' di fatica a sfilargli il grosso anello dall’anulare. Poi prese una sigaretta dal pacchetto, l’accese, soppesò tra le mani l’accendino, lo intascò. In quel momento il computer richiama la sua curiosità: ha finito di elaborare i dati, ora il cursore ammicca sul monitor, accanto a un punto di domanda, gli chiede qualcosa. Allora osa mettere le mani sulla tastiera, penetrare al buio in quel tempio affascinante e misterioso. Preme un tasto, il computer fa qualcosa, si avvia una stampante laser che sforna un istogramma a barre. Poi legge la nuova schermata, in alto a sinistra: "New York. Local time 15:55:43". Subito sotto: "ON-LINE". Sotto a sinistra il cursore lampeggia: "Insert your name". Crede di capire, prende uno dei biglietti da visita del morto: "De Benedictis Cavalier Giovanni". Inserisce quel nome e il computer continua a dialogare con lui, che preme tasti a caso, fallisce, riprova febbrilmente, penetra sempre più a fondo, in un labirinto oscuro di ordini telematici, nei segreti di quell’uomo che conta, di cui fuma le sigarette e prende le decisioni importanti, decisive per lui, per migliaia di persone. "Are you sure (y/n)?". Capisce che deve premere una delle due lettere; sceglie la "y" e il computer ora si acquieta, non gli chiede più nulla. In quel mentre squilla il telefono, come se per quella via inaspettata gli arrivasse una prima reazione a chissà quali disposizioni impartite. Squillò tre volte, prima che si attivasse la segreteria telefonica. Non era certo per lui la chiamata, lui non era nulla in quel mondo, non era qualcuno in nessun altro mondo. Cercavano quell’uomo, che era morto, ma che pareva vigile e in attesa, che non aveva più futuro, ma aveva ancora un presente. Lui, invece, non aveva nè futuro nè presente, ma solo qualche brandello di un passato: rimosso, ripudiato, affogato nell’alcol, dopo il naufragio della sua esistenza. Si diresse verso il mobile bar, prese la prima bottiglia che gli capitò tra le mani, un whisky secco e forte. Si lasciò cadere sul divanetto soffice vicino alla finestra, da cui vedeva il cadavere di profilo, pallido come la statua del piano inferiore. Non lo impressionava affatto e cominciava a sentirsi a suo agio in quell’ambiente. Poi perse il senso del tempo e della prudenza, tracannò abbondanti sorsi del liquido che gli bruciava lo stomaco digiuno, finchè lo prese un' euforia irresistibile e un incontenibile sonno.
Si risvegliò ai primi chiarori dell’alba con la testa ritronata e faticò a mettere a fuoco la situazione. Il cadavere sembrava essersi afflosciato, sprofondato ancor più nella poltrona di pelle, sul monitor adesso lampeggiava perentorio il punto di domanda, sul tappeto ai suoi piedi dilagava il whisky della bottiglia rovesciata. Doveva andarsene alla svelta, prima che arrivasse qualcuno o lo notassero nei dintorni, incolpandolo del delitto. Si affrettò verso il cancello di entrata e, quando fu sulla stradina, pensò di abbreviare la fuga attraversando il piccolo parco di fronte alla villa. Faceva chiaro in fretta, ma non si vedeva ancora nessuno. Solo quando fu all’altezza della piccola fontana, proprio in mezzo al prato, vide un uomo in tuta ginnica avvicinarsi, correndo ad andatura sostenuta. Cercò di nascondersi alla meglio, accucciandosi dietro la fontana. Ma quello non lo nota e attraversa tutto il parco, sparendo tra gli alberi. Tirò un sospiro di sollievo e stava per rialzarsi, quando la sua attenzione fu attirata da qualcosa che luccicava tra l’erba, vicino ai suoi piedi, ai raggi del sole ormai sorto. Allungò la mano, afferrò la pistola di cui l’assassino si era liberato. La rigirò, la soppesò pensando a cosa potesse ricavarne. Ma poi pensò a cosa poteva succedergli se gliel’avessero trovata in tasca. Fu preso dal panico, vaglielo a dire ai poliziotti che lui non c' entrava, meglio farla sparire. Trovò il tombino di una roggia, a lato della strada appena al di là del parco, lo alzò senza fatica e vi gettò l’arma.
Camminò di buona lena giù per la discesa, per uscire in fretta dalla zona, verso la città che si animava di automobili, mentre si risvegliavano i semafori, si spegnevano i lampioni. Cominciò ad avvertire la fatica, a sentirsi abbastanza lontano e al sicuro, anche se ancora in zona residenziale. Si risvegliò in lui la sete inesausta, affondò la mano nella tasca, fece scricchiolare le due banconote. Per un bel po' adesso era ricco, doveva comprarsi da bere. Girovagò ancora per un poco, in cerca di un bar aperto, finchè non lo vide proprio alla fine della discesa, un elegante locale dalle pareti esterne ricoperte di edera, un piccolo giardino con quattro ombrelloni già aperti. C' era gente che entrava e usciva frettolosa, mattinieri uomini d' affari in abiti eleganti, che parcheggiavano auto lussuose davanti all’entrata, sparivano per pochi minuti, uscivano sfogliando con gesto deciso il giornale, ripartivano rapidi perché non avevano tempo da perdere. Rimase a guardare indeciso. Poteva fidarsi ad entrare in quel locale? Vestito di stracci, sporco, con la barba incolta? Non lo avrebbero cacciato a malo modo, prima ancora di entrare? Ma doveva urgentemente bere, in fin dei conti i soldi li aveva, il tempo di comprare una bottiglia di vino e via. Entrò, attraversò l’ampia sala pavimentata di marmo, verso il banco lucido di palissandro, passò accanto a tre uomini dalle cravatte sgargianti, che discutevano a voce alta e sembrarono non accorgersi di lui, verso il banco dove un quarto avventore, seduto su un trespolo, sfogliava un giornale e beveva un liquido giallognolo. "MONACO: SCHROEDER SFIDA KOHL E ATTACCA L’ALA DURA DEL PARTITO...", una radio nascosta diffondeva le ultime notizie e il cameriere dai lunghi baffi curati, in giacca scura e farfalla, robusto e alto sulla pedana dietro il banco, si muoveva con energia. "TI POSSO ANCHE DARE RAGIONE, PURCHE’ SIA UN INVESTIMENTO A LUNGO TERMINE E IL QUADRO POLITICO REGGA...". Si mise di fianco all'uomo che leggeva, fino a sfiorarne le dita che reggevano la pagina, con la sua camicia unta a quadrettoni, dalle maniche rimboccate. Quello alza un attimo lo sguardo, come avvertisse qualcosa, poi scaccia con fastidio la mosca che gli ronza sul bicchiere. "MA LA FINANZIARIA VA ANTICIPATA E APPROVATA SUBITO...".Stava per chiedere al cameriere, che adesso guarda al di sopra di lui verso l’entrata. "GIOVANNI, UN ESPRESSO! MA IN FRETTA PER CORTESIA, CHE’ DEVO PRENDERE L’AEREO", "SUBITO COMMENDATORE!". Il cameriere sembrava non vederlo, come fosse trasparente, un fantasma senza nome. Vorrei... "IN BULGARIA NON C’ E’ PIU’ PANE E LA FOLLA INFEROCITA ASSALTA I FORNI...". Possibile che non gli desse retta? Cosa doveva... "OK. PURCHE’ SI VADA AD ELEZIONI ANTICIPATE IN PRIMAVERA...". "LE FACCIO IL CAPPUCCINO, DOTTOR ROSSI?". Adesso si era stufato, doveva sputare?, pisciare per terra per farsi intendere?. "OH, BUONGIORNO DOTTOR VIRDIS, BELLA GIORNATA EH...?". Estrasse le due banconote e le tenne in bella mostra, appoggiò i gomiti sul banco, lo guardò con insistenza. "IN RUSSIA, INVESTA IN RUSSIA, CREDA A ME, LI’ E’ IL FUTURO DEGLI INVESTIMENTI". No, sembrava proprio non vederlo. "GIOVANNI, MA COS’ E’ SUCCESSO A VILLA DE BENEDICTIS? SONO PASSATO DI LI’ ED E’ PIENO DI POLIZIA". A quelle parole il vagabondo fiutò aria di pericolo, "DOLLARO IN LIEVE FLESSIONE SUI MERCATI FINANZIARI...", rinunciò al suo proposito e si diresse all’uscita indisturbato, "ARRIVEDERCI COMMENDATOR PETRI. CI RIVEDIAMO AL SIMPOSIO DI LONDRA, BUON VIAGGIO...".
Fuori cominciava a far caldo e il vagabondo si sentiva in crisi d' astinenza, aveva anche fame, si spinse ancora per un quarto d' ora verso la città, ormai fuori dalla zona delle ville. Finalmente trovò un piccolo bar molto più alla mano e potè mangiare un panino e placare la sua sete. Poi riprese il cammino senza meta, ma all’improvviso si ritrovò, non seppe neanche lui perché, sulla strada di non molto prima, sulla salita verso Villa De Benedictis. Si fermò per riprendere fiato e riflettere. Un grosso cane nero, dal pelo lucido e ben curato, trotterella giù per la discesa, zigzagando muso a terra, inseguendo una sua pista olfattiva. Il vagabondo si fece ancora più in disparte in un' attesa timorosa, ma l’animale lo incrocia, si ferma e fiuta l’aria per un attimo, poi prosegue nella sua ricerca. Che cosa l’attirasse ancora lassù non lo sapeva, ma continuò a salire finchè giunse in vista della villa. C' è ancora un' auto dei Carabinieri, con il lampeggiante acceso, un piccolo capannello di persone che commenta l’accaduto, qualcuno chiede spiegazioni al carabiniere rimasto ad aspettare alla guida, che risponde laconico ma gentile. Spinto da una curiosità irrazionale si unì al gruppetto, vicino ad una donna bionda ed elegante, che profuma di fresco e non si accorge di lui. Allora si avvicinò al carabiniere, sebbene sapesse che era molto imprudente, e gli chiese anche lui cos' era successo. "Circolare, circolare per favore", dice il carabiniere a voce alta, ma più che a lui al gruppetto che comincia ad essere troppo numeroso. Allora il capannello si disperde, ognuno ritorna alle sue faccende e lui rimase solo, vicino alla "gazzella". Dopo una decina di minuti dalla villa escono, confabulando tra loro, i due carabinieri che hanno concluso i rilievi, gli passano accanto senza badargli, raggiungono il collega in auto, partono in gran fretta. E lui restò a guardare la villa sigillata al di là del cancello, indisturbato. Considerò che era stato molto imprudente: aveva in tasca l’accendino, l’anello e l’orologio del morto, denaro di cui gli sarebbe stato difficile spiegare la provenienza, e lui era andato a cacciarsi proprio in bocca ai carabinieri. Ma, assieme al sollievo di averla fatta franca, provava anche un senso di delusione, di cui non era perfettamente cosciente. Si attaccò alla bottiglia che teneva sul petto, dentro la camicia. Aveva caldo e il vino tiepido non lo dissetava, ma gli fiaccava le gambe, inondandolo di un torpore profondo. Doveva riposarsi un po'. Concepì l’idea di penetrare ancora nel giardino della villa, reso temerario un po' dall’alcol un po' dall’impunità fino ad allora goduta. Scosse il cancello, ma era chiuso a chiave, girò tutto intorno, cercando nella recinzione un varco che non c' era. No, non era proprio possibile: in quella villa si era introdotto per sbaglio e non ci sarebbe mai più entrato. Allora se ne andò nel parco di fronte e si distese sull’erba, vicino a una siepe. Passarono uomini, donne, ragazzi con i cani, ma nessuno lo notò, perché era come invisibile; e lui dormì indisturbato quasi fino a sera.
Si svegliò che l’orologio tolto al cavaliere segnava le sei e cinque. Quando era sobrio e riposato era anche in grado di organizzarsi, di fare qualche piccolo progetto: aveva in tasca denaro e oggetti preziosi, roba che scottava. Doveva sbarazzarsene, piazzarli ricavandone altro denaro, doveva farlo il più presto possibile. Sapeva bene dove andare di preciso, nella periferia degradata della città. Doveva ritornare nel suo ambiente abituale, dove era al sicuro, e lì si diresse. Rifece la strada della mattina, ma questa volta aveva una meta precisa e camminava in fretta. Ripassò davanti all’ingresso del bar, dove due uomini discutevano in piedi. Uno era alto e magro, aveva in mano una borsa di pelle nera e gli sembrava di averlo già visto. Sì, poteva anche essere l’assassino. Passandogli accanto lo guardò meglio e anche lui per un attimo incrocia il suo sguardo, che subito distoglie, con indifferenza. Ma se anche fosse stato, non aveva niente da temere da lui, perché il criminale sapeva che nessuno avrebbe dato mai retta alla parola di un barbone e poi si stava abituando all’idea di essere invisibile. Eppure, dopo l’assassino, era colui che sapeva di più sul delitto di Villa De Benedictis, bastava che glielo chiedessero, che lo stessero ad ascoltare. Ma quelli non erano fatti suoi e con la polizia meglio non averci a che fare. Non era quello il suo ambiente, non doveva intromettersi in quel mondo che lo affascinava e rifiutava al tempo stesso. Non avrebbe più avuto a che fare con tutta la faccenda, perché per entrare in quella villa bisognava esserci nati, con la chiave in tasca. Oppure con la forza, come aveva fatto l’assassino, che adesso si godeva il frutto del suo crimine e parlava di politica e di economia, che aveva un nome che contava e tutti si rivolgevano a lui con rispetto: "Buongiorno dottore", "Desidera un caffè commendatore?", "Bella giornata oggi, vero avvocato?". No, non era quello il suo mondo. Ma qual era, allora?
Si era spinto ormai dentro la città vecchia, lungo il viale alberato, che mostrava i primi segni dell’autunno. Era stanco e amareggiato dai suoi pensieri e un sordo rancore gli batteva nelle tempie, verso quella gente che non lo vedeva, verso il suo destino, verso il mondo intero. Così prese la decisione improvvisa e cambiò il suo programma iniziale, appena vide la stazione dei carabinieri. Era una vecchia villetta riadattata di due piani, dal colore giallognolo, seminascosta tra i palazzi di nuova costruzione. Si fermò a riflettere, estrasse la bottiglia e bevve per darsi coraggio, la lasciò vuota ai piedi del platano. Doveva stare attento a quello che diceva, avrebbe raccontato tutto, ma fino a un certo punto, per non rimetterci anche lui. Al piantone che gli si parò davanti disse che aveva qualcosa da riferire sul delitto di Villa De Benedictis. Quello alza le sopracciglia, ma lo fa entrare, accompagnandolo per un vestibolo con un grande attaccapanni ed uno specchio incastonato. "Qui c' è uno per il caso De Benedictis", annuncia appena entrato nell’ampio ufficio dai mobili moderni, le finestre aperte per il caldo stagnante. Il maresciallo Federici è in maniche di camicia, seduto dietro il tavolo di fòrmica a leggere un verbale e a fumare. Alza gli occhi neri e penetranti sul nuovo venuto, lo squadra da capo a piedi. "Coraggio, sentiamo", dice con un sospiro di rassegnazione, accingendosi ad ascoltare per dovere d' ufficio. Lo fa sedere all’altro lato del tavolo con un cenno della mano. "Sentiamo!", dice con aria di sufficienza, senza chiedergli altro, neanche il nome. Il vagabondo cominciò a raccontare per filo e per segno ciò che ricordava della sera prima, ma fino a un certo punto: aveva visto bene l’assassino, poi, spaventato, era fuggito in fretta dalla villa. Il maresciallo lo guarda fisso per qualche secondo, con lo sguardo incredulo e una piega ironica sulla bocca. "Appuntato De Rosa!", dice a voce alta, piegando appena il capo verso la porta aperta alle sue spalle, "Un identikit. Procediamo". Sulla porta appare De Rosa, sudaticcio e senza berretto, con dei fogli in mano, trascina rumorosamente una sedia e si siede sbuffando, vicino al maresciallo. -Allora- dice il maresciallo- com' era questo assassino? Hai detto che l’hai visto da vicino, no?-. -Era alto e magro, aveva una pistola in mano, aveva i guanti...-; -Sì, sì, ma la faccia, i tratti del viso com' erano?-. E adesso, cosa gli raccontava?. -Era così?- comincia a chiedergli l’appuntato, mostrandogli un viso stilizzato su un foglio, -Oppure così... o così?-. Gli mostrava i fogli in fretta, finchè il vagabondo non vide un ovale che assomigliava vagamente all’uomo dalla borsa nera, davanti al bar. -Bene. E i capelli? Com' erano i capelli?-. L’appuntato prende ad uno ad uno i trasparenti alla sua sinistra, li sovrappone al disegno scelto, lo guarda un attimo in cerca di conferma, cambia il foglio... -Ecco- disse al sesto o settimo, quando i capelli neri e lunghi, un po' arruffati, corrisposero più o meno alla sua immaginazione. -Adesso gli occhi e le sopracciglia!-. Sì, quelle sopracciglia grosse e gli occhi un po' sporgenti potevano andar bene. Per la bocca andava bene quella lì, sottile e un po' piegata in giù. -Com' era il naso?-. -Questo qui ad aquila va bene-. A questo punto il maresciallo e l’appuntato si scambiano un' occhiata, poi scoppiano in una sonora risata. -E magari aveva la barba!-, dice De Rosa, scarabocchiando in fretta con un pennarello sul disegno quasi completo e mettendoglielo davanti al naso. -Sei sicuro di non aver bevuto più del solito ieri sera?-. -Sparisci, dai! Non farci perdere altro tempo- dice il maresciallo Federici, ridacchiando ancora. Allora il vagabondo, che non aveva ancora capito, si alzò dalla sedia, disorientato. Si diresse all’uscita, attraversò l’atrio con il grande specchio. E passando lanciò un' occhiata a quel relitto d' uomo. Dio mio, da quanto tempo non si guardava allo specchio? Ma quell’essere alto e magro dalla barba incolta era lui, suo era quel naso aquilino sulla bocca amara, suoi quegli occhi sporgenti sotto le sopracciglia folte, e i capelli neri, lunghi e arruffati. Sì, è lui sotto quegli stracci sporchi, proprio lui: Franceschi, Giovanni Franceschi! Quarant' anni, alcolizzato, ma ancora robusto, visibile, presente; capace di pensare, di soffrire, di decidere… Anche di uccidere, se vuole.
Allora torna sui suoi passi, s' avvicina al maresciallo che lo guarda con aria interrogativa, mette una mano in tasca. "Questo è l’accendino del cavalier De Benedictis", dice con voce forte, gettando l’oggetto sul tavolo, "la pistola è nella roggia". Adesso il maresciallo Federici non ride più, lo guarda intensamente con occhi indagatori e severi. "De Rosa!", grida. L’appuntato arriva subito e si siede alla macchina per scrivere: si accinge a verbalizzare e Giovanni Franceschi a confessare il delitto.
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