ELOGIO DELLA CLONAZIONE
di: Loris Dalla Rosa


"…la disperazione è chiamata la malattia mortale: quella contraddizione penosa, quella malattia nell’ io di morire eternamente, di morire e tuttavia di non morire, di morire la morte." (S. Kierkegaard, "La malattia mortale").

Fu relativamente tardi, alle soglie della sua pensione, nell' estate del 2095, che si decise ad inoltrare regolare domanda al Dipartimento della Salute Pubblica e, in copia conforme, al Dipartimento della Difesa Nazionale degli Stati Uniti e al Comitato Nazionale di Bioetica.
Del resto la sua situazione non era più sostenibile di fronte alla gente. Non che la cosa avesse particolare rilevanza; in fondo era un uomo rispettato da tutti, da molti anche invidiato per la sua posizione sociale e la brillante carriera militare. Ma le rispettose allusioni di conoscenti e vicini, divenute via via più frequenti in ufficio o in ascensore, e le bonarie battute sui suoi capelli bianchi, da parte di coloro che si ritenevano più in confidenza, gli avevano insinuato il sottile disagio di trovarsi in una situazione quasi clandestina. Certo nessuno dei suoi subalterni gli aveva mai parlato chiaramente in proposito, ma sempre più spesso gli pareva di cogliere nelle loro parole il velato rimprovero di non comportarsi in modo adeguato al suo ruolo sociale, di non adottare le debite precauzioni di fronte alle insidie del tempo.
La realtà era, semplicemente, che non ci aveva mai pensato in modo serio. Non gli mancava il denaro, avrebbe potuto sottoporsi da tempo al piccolo intervento, frutto sofisticato e risolutivo dell' ingegneria genetica. Ma il semplice pensiero di questa possibilità rassicurante l' aveva spinto a rinviare di anno in anno la sua decisione, aveva fatto come da sfondo inconscio al corso avventuroso della sua vita, aveva offuscato in lui la coscienza reale del pericolo, divenendo l' angolo superficiale, l' abito leggero della sua esistenza.
Ma quanto più a lungo non ci aveva pensato, tanto più intenso doveva essere in lui il contrappasso della presa di coscienza.
Si accorse di quanto fosse stato irresponsabile e imprudente a non premunirsi contro i rischi del suo mestiere di soldato, soprattutto quando il pericolo era all' ordine del giorno. Gli vennero in mente le innumerevoli situazioni critiche del suo passato, le frequenti missioni, da giovane ufficiale, nelle zone ribelli ed instabili del mondo, lo scoppio della mina cui era scampato per puro miracolo. Gli piovve addosso, improvvisa e irrazionale, la paura di tutti i pericoli trascorsi.
Si chiese perchè, mentre gli altri si erano messi da tempo al riparo, lui avesse sfidato così insensatamente i rischi del lavoro e della vita in generale. Pensò di trovarne spiegazione in una sorta di inerzia psicologica connessa alle sue origini. Il suo stato anagrafico, infatti, lo collocava, se non proprio in una condizione irregolare, tra quella minoranza di individui nati da una coppia di genitori naturali; tra coloro che non erano cloni di se stessi, chiamati popolarmente (non senza una punta di disprezzo) 'figli del caos': perchè figli di genitori che avevano rinunciato all' immortalità genetica, in favore delle imprevedibili mutazioni della biologia naturale. Questo fenomeno sociale, caratteristico dei paesi sottosviluppati, era anche molto diffuso, per insondabili ragioni, in Europa; e i suoi genitori erano, appunto, europei (precisamente danesi).
Dopo l' inoltro della domanda passò lunghi mesi di angoscia crescente, nel timore che accadesse nel momento della consapevolezza ciò che non era accaduto nei molti anni di irresponsabile condotta; nel terrore che un destino beffardo gli togliesse in un attimo il dono dell' immortalità, a lungo da lui stesso rifiutato.
Molte volte si chiese se fosse moralmente lecito lasciare una questione di tale portata al completo arbitrio dell' individuo, affidare una decisione di cruciale importanza all' iniziativa del singolo e alle vie tortuose di un lungo e costoso iter burocratico. Il governo avrebbe dovuto diventare parte attiva, intervenire con una legge e finanziamenti adeguati, obbligare la scelta fin dalla nascita, come qualsiasi vaccinazione, snellire le procedure. Oltretutto ne avrebbe beneficiato il Paese intero in tutti gli aspetti della vita economica e sociale: si sarebbero eliminate le imprevedibili fluttuazioni demografiche, colmati definitivamente gli squilibri occupazionali, regolarizzato l' equilibrio della domanda e dell' offerta.
Il fatto era che le scelte dei politici non erano al passo col progresso della società civile, che dietro il pretesto della salvaguardia della libertà individuale, questo antico vizio americano, le Istituzioni abdicavano al loro preciso dovere di promuovere il bene comune, di permettere a tutti di fruire dei risultati più alti della civiltà tecnologica. Era immorale il divario tra chi viveva i frutti del presente e chi, sia pure una minoranza, soffriva ancora il male di un lontano passato. Lui stesso, pur rimproverandosi i torti personali, si sentiva vittima di questo generale stato di cose.
Si ripromise di fare tutto ciò che era in suo potere, si sarebbe battuto per una maggiore sensibilizzazione dell' opinione pubblica al problema, avrebbe firmato le petizioni dell' opposizione. Ma intanto si dibatteva nel suo dramma personale, attanagliato nella morsa di un' anacronistica paura. Tanto che era diventato estremamente prudente, usciva di casa solo il tempo necessario per il suo lavoro, aveva smesso di bere e di fumare, attraversava la strada con mille precauzioni, la sera leggeva molto (soprattutto antichi testi di autori della sua terra di origine), nella spasmodica attesa del nulla osta del Dipartimento.
Per sua fortuna la domanda fu evasa in tempo inaspettatamente ragionevole, tanto che già nell' autunno dell' anno successivo fu convocato all' ospedale distrettuale per il piccolo intervento.
Fu allora che vinse per sempre la paura della morte.
Gli estrassero due centilitri di midollo osseo. Una parte venne depositata in una cella criogena, con precise disposizioni in caso di decesso suo o del futuro figlio, perchè aveva pagato la clausola completa della polizza di assicurazione. L' altra venne immediatamente innestata nell’ incubatrice, in sinergia con un ovulo umano conservato.
Così già l' estate seguente provò la duplice gioia di un figlio e di un essere che era lui stesso. Se ne occupò di persona, perché non voleva in casa donne in pianta stabile. Lo crebbe amorevolmente fin dai primi vagiti, lo chiamò col suo nome, come era uso comune, andò in pensione e si occupò solo di lui e della sua educazione.
Crebbe robusto, come robusto era cresciuto lui; e non passava giorno che non riconoscesse, nelle forme somatiche rozzamente abbozzate della fanciullezza, qualcosa di identico a lui: prima negli occhi, poi nelle mani, poi ancora nell' attitudine all' azione e man mano nei tratti emergenti del carattere, fin nelle pieghe più recondite dei sentimenti. Ed ogni volta provava una nuova gioia e una pace crescente, definitiva, di fronte all'evento che sentiva incalzare.
Ma via via che passava il tempo s' accorgeva anche dell' inutilità del suo intervento educativo, perchè quel figlio che era lui stesso lo ricalcava perfettamente, al punto da poterne prevedere, in qualsiasi situazione, anche le più piccole reazioni, i più sottili moti dell' animo. Ne scoprì, o quasi ne dedusse, il gusto per il rischio, l' amore per i cani, quella strana idiosincrasia per gli specchi. Fin quando il figlio non fu un ragazzo fatto e la gioia del riscontro delle somiglianze si mutò in rispecchiamento insopportabile, in incubo e disperazione. Allora cercò meticolosamente un qualche tratto, sia pur minimo, di diversificazione, un gesto qualunque, gratuito ed unico, sfuggito all' improbabile distrazione di un gene.
Si illuse di averlo trovato in una certa inclinazione malinconica e autolesionista che non gli era propria; si ricordò anche, per quanto ancora gli riusciva, del rapporto conflittuale, quasi violento, con i suoi genitori: niente di più diverso tra lui e suo figlio. Ma l' illusione durò poco, perchè ciò che aveva trovato era solo e ancora se stesso. Riscoprì in suo figlio la predilezione per gli sport e le attività più pericolose, il sordo rancore nei suoi occhi quando nasceva un diverbio qualsiasi, quasi un rimprovero di averlo messo al mondo. Comprese che rischio e incoscienza giovanile erano la maschera superficiale della sua malinconia profonda, che si rivelò piano piano come anelito di un passato irripetibile e unico; che si chiarì, infine, come istinto e nostalgia di morte.
Non gli servì a nulla parlarne con i vecchi amici: nessuno lo comprese; qualcuno, anzi, diede chiaramente a intendere che dubitava delle sue facoltà mentali. Allora capì di essere malato, che lo era da sempre, che lui stesso altro non era se non la sua anima malata all’ origine e comprese di aver radicato in eterno il seme di quella sua malattia metafisica.
Così un giorno, quando suo figlio se ne fuggì in Danimarca, informò per telefono l' ospedale distrettuale. Poi prese la pistola da un cassetto e compì il gesto senza alcuna speranza o dolore, davanti all' unico specchio della casa. Mentre un laboratorio asettico di Boston replicava e scandiva il programma genetico di riserva.

Loris Dalla Rosa

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