MA LEI, CHI CREDE DI ESSERE?
di: Loris Dalla Rosa


John Smith guidava agilmente nel traffico della 25^ strada, alla periferia della megalopoli tentacolare.
Quel tratto di viale l’avrebbe fatto ormai ad occhi chiusi, perché da quindici anni lo portava da casa sua al posto di lavoro. E poteva sembrargli un laborioso mattino qualsiasi, se non fosse che il sole volgeva al tramonto e che ora non avrebbe proseguito diritto, seguendo l’onda dei semafori sincronizzati, fino alla cittadella industriale. Ora doveva, invece, piegare a destra, oltre il ponte di ferro, sulla vecchia superstrada che portava ai piedi delle colline, al grande complesso degli Ospedali Tecnologici Riuniti. Quella deviazione dal percorso usuale gli sembrò la dolorosa metafora dell’unica vera svolta nella sua esistenza, capitatagli la mattina stessa di quello sventurato giorno di novembre.
Era andato al lavoro dopo una notte agitata e insonne, aveva preso il suo posto alla catena di montaggio e, all’improvviso, l’aveva assalito un senso di vertigine profonda, si era come spalancato un baratro davanti a lui e aveva perso i sensi sul nastro trasportatore. L’avevano immediatamente portato all’infermeria aziendale, dove il medico, dopo un accurato monitoraggio, aveva introdotto nel computer una lunga serie di dati, aveva esaminato attentamente l’output e lo aveva scrutato per qualche secondo, con aria professionale. Poi aveva compilato un modulo in fretta. "Qui bisogna intervenire d' urgenza. Può guidare tranquillo, ma passi in Amministrazione e si rechi oggi stesso all’ospedale, con questo", gli aveva detto porgendogli il foglio, in tono pacato e asettico. Ma per John quelle parole erano equivalse a una condanna a morte e provò un senso di disperazione, mai sperimentato prima.
Gettò uno sguardo sul cruscotto, all’ordine di ricovero immediato in bella vista, "Ospedali Tecnologici Riuniti; Reparto Chirurgia Psichiatrica", rilesse preoccupato, per la centesima volta. Cercò di concentrarsi nella guida. Ma ora, convinto che qualcosa di grave e irrimediabile era accaduto sotto la sua calotta cranica, non trovava senso alcuno ad affrettarsi. Si fermò al semaforo, prima ancora che scattasse il rosso. Lasciò passare immaginari pedoni e una malinconia profonda l’invase, mentre osservava il lungo stelo di metallo, come se vedesse per la prima volta l’occhio rosso, che lo fissava con assurda intensità: domani sarebbe stato ancora lì, alla stessa ora, a fissare qualcun altro, con la stessa indifferenza. E così dopodomani e fra dieci anni o cento; e quand' anche non ci fosse stato più un solo essere sulla terra, sarebbe stato lì, a svolgere il suo compito divenuto assurdo, in scrupolosa obbedienza a un ordine elettronico.
Del resto la sua vita non era stata molto diversa, finora.
Ma perché doveva rendersene conto proprio adesso? Perché gli affioravano domande inconsuete, alle quali intuiva non esserci risposta? E chi doveva ringraziare di tutto questo? Perché, in fin dei conti, non aveva chiesto lui di venire al mondo. Eppure un qualche artefice supremo, vissuto ed estinto prima della grande esplosione, aveva messo in movimento il tutto, creato a sua immagine e somiglianza, per qualche scopo recondito, tutta la sua specie; e con ciò lui stesso, infuso in lui la vita, radicato il seme del pensiero. Che senso aveva avuto gettarlo nel mondo, perché vi crescesse, vi operasse giorno dopo giorno, per lunghi quaranta anni, per poi strapparlo alle radici, nel volgere di un attimo? O forse nessun essere supremo era vissuto e aveva regnato al di là delle colline, nei tempi remoti di cui tanto si fantasticava. E allora nessun senso avevano le sue domande.
John sobbalzò al clacson che lo sollecitava e ripartì di scatto. Guidò ancora per una ventina di minuti, incontro alle colline che via via si ingrandivano, ammantandosi di vaste ombre serali. Quando fu in vista del complesso ospedaliero, parcheggiò con facilità, prese con sé la piccola valigia e, chiudendo a chiave l’auto, si sorprese a pensare che quella era l’ultima volta che compiva quel gesto così semplice e abituale; che per l’ultima volta avrebbe mangiato, bevuto, lavato i denti e poi dormito. Qualsiasi azione, grigia e meccanica nel susseguirsi del banale quotidiano, ora si fissava nella mente come l’ultima della sua esistenza, con una stretta al cuore, nell’eco di quell’aggettivo estremo. Alzò lo sguardo verso la collina, al sole che dolcemente si inabissava in una conca e, per la prima volta, i suoi occhi si accorsero di un tramonto di novembre, dell’aria che si faceva più frizzante e strascicava le foglie di un tardo autunno, stemperato in cento gradazioni di colore e di malinconia. Sì, si accorgeva di un tramonto per la prima volta e comprese che ciò gli accadeva perché quella, in realtà, era l’ultima. Ma imboccando il viale dell’ospedale, per un attimo, assurdamente, si sentì felice.
All’accettazione l’accolse una ragazza bionda, con un sorriso affabile stampato negli occhi e sulle labbra. Gli chiese con cortesia un documento ed egli le consegnò la tessera aziendale e l’ordine di ricovero. Lei si accostò al terminale e digitò i dati: "Smith John. Cod. 183: ", mentre lui ne osservava il dolce profilo, quasi a volerlo portare con sé nell’ultimo suo viaggio. "Corsia numero 120", disse restituendogli la tessera. Ma doveva aver notato la sua aria smarrita, perché indugiò su di lui con lo sguardo, quasi sorpresa per quella inquietudine infondata, accentuando il sorriso. "Gli infermieri si occuperanno di Lei. Domani uscirà in perfetta forma", disse con voce tranquilla, ma che per John suonò come una pietosa menzogna.
Lo misero in una stanza a quattro letti, con altri tre degenti. Quando entrò stavano ridendo, con aria complice, di chissà quale barzelletta spinta. Lo accolsero con simpatia, con un' allegria che gli pareva innaturale in quel luogo e in quella contingenza. Ma dovette ricredersi, perché, man mano che passava il tempo, non un' incrinatura della voce o un improvviso silenzio, che denunciassero uno stato di disagio. Notò che il suo vicino di letto doveva essere il più grave dei tre, perché un pallore cadaverico accentuava la sua magrezza esasperata; eppure era il più attivo nello stimolare la compagnia, con battute pronte e scherzi quasi infantili. Sembravano considerare l’ospedale quasi un albergo, la degenza una vacanza inaspettata. Accolsero con un' ovazione allegra l’arrivo dei carrelli con la cena, furono sinceramente meravigliati del fatto che John non avesse appetito e attinsero abbondantemente alla sua frutta. Dopo cena trascinarono John, quasi a viva forza, nel soggiorno, per un' interminabile partita a carte. Ma John sbagliava spesso a giocare la carta, perché il suo pensiero era altrove. Quei singolari compagni d' ospedale lo frastornavano, ma non poteva fare a meno di invidiare la loro incoscienza o il loro coraggio e indomabile ottimismo. O, forse più semplicemente, quello stato d’incoscienza faceva parte del loro quadro psicopatologico. Solo verso le dieci la loro esuberanza degradò in sbadigli, inviti al silenzio e, infine, in sonno profondo.
Allora John si sentì solo nel suo angolo insonne di disperazione, come l’ultimo animale di una specie estinta. Per lunghe ore ascoltò il silenzio angoscioso della notte, poi, prima ancora che sorgesse il sole, sentì i passi degli infermieri, che lo condussero per un dedalo di lucidi corridoi, in una stanza verde, dove il chirurgo e gli assistenti si preparavano con gesti misurati e professionali.
"Sindrome maniaco depressiva", lesse qualcuno dalla sua cartella clinica. Attese qualche minuto, poi gli praticarono un'iniezione, mentre lui fissava con insistenza gli occhi impassibili del chirurgo. Tanto che questi si avvicinò con aria interrogativa. Allora John, quasi con vergogna, gli confidò che aveva paura. La bocca del chirurgo si stirò in un sorriso, che voleva essere rassicurante e bonario, ma che John percepì come un'oscura minaccia. "Ma Lei, chi crede di essere?", riuscì a sentire che gli diceva, prima che l’anestetico facesse effetto. Allora i sensi cominciarono ad assopirsi ed egli comprese la domanda e ne seppe la risposta: "Un uomo", credette di rispondere. Cercò di lottare contro il torpore che lo invadeva e si aggrappò alla sua paura, come a una consolazione, a quel flebile vagito della sua coscienza, come al sorriso di una madre. Ma era tardi e fu ben presto il nulla.
E quando si svegliò era nuovamente in sé, rifece la valigia in fretta, salutò i compagni di corsia e si avviò all’accettazione.
Lì consegnò il numero alla signorina sorridente, che trafficò brevemente alla tastiera. Il terminale scorreva in fretta lettere e cifre, finché non trovò il nome e il relativo codice "Smith John. Cod. 183: ". Allora la signorina sorridente completò la stringa con rapidità e perizia: "riparazione eseguita. Sostituito chip 7409".

Loris Dalla Rosa

© Loris Dalla Rosa - © 1998 ARPA Publishing. Tutti i diritti riservati. Riproduzione vietata.
La violazione del copyright e/o la copia illecita del materiale riprodotto in queste pagine, la diffusione dello stesso in qualunque forma contravviene alle normative vigenti sui diritti d'autore e sul copyright.