SUI FIUMI DELLA SOMALIA Devo premettere che il nuovo lavoro Paolo se lo inventò dopo una gita in barca sul fiume Uebi Scebeli in Somalia. Questo fiume viene giù dall'Etiopia perpendicolare alla costa e a una trentina di chilometri dal mare si volge a sud parallelo alla stessa fino a perdersi in una grande palude. Questo salvo anni rarissimi di grandi piene in cui dopo le paludi riprende il suo corso e si versa nel Giuba vicino alla foce di questo e al mare. Per i primi cinque o seicento chilometri del suo corso è stretto e profondo e anche navigando al centro vedi sempre l'altra sponda e in certi punti, la puoi toccare. Nei periodi di secca (Marzo-Aprile) sparisce. Si e no rimane una pozza d'acqua qua e la dove si concentrano gli ippopotami, i coccodrilli e si abbeverano gli uomini, le antilopi, gli elefanti e i buoi. Con tutti questi assetati, chiaramente quella povera e sporca acqua dura molto poco. ***** "Il racconto che precede è ambientato negli anni 50 all'inizio del periodo dell'Amministrazione Fiduciaria Italiana in Somalia. Oggi tutto quanto descrive è completamente cambiato. Ben poco rimane delle foreste fluviali private dei loro alberi secolari che sono serviti a far carbone e del fitto sottobosco distrutto per permettere, per non più di qualche anno, sfruttando lo strato di humus accumulatosi in ere geologiche e rapidamente reso sterile dall'esposizione ai raggi del sole. la coltivazione di povere "sciambe" E gli ippopotami privati dalle macchie folte e ombrose dove rifugiarsi nei periodi di secca del fiume e dell' erba delle radure di cui nutrirsi , e i coccodrilli dei luoghi dove deporre e tenere al sicuro le uova, e gli uccelli dei grandi alberi dove fare il nido. si vanno rapidamente estinguendo. Intere specie di antilopi, di cui alcune esclusive della Somalia, sono state sterminate per ricavarne pochi centesimi di dollaro a pelle. e così gli elefanti per l'avorio. © Miranda Baudino Tamagnini - © 1998 ARPA Publishing. Tutti i diritti riservati. Riproduzione vietata.
di: Miranda Baudino Tamagnini
Ma quando iniziano le piogge in Etiopia la piena arriva all'improvviso travolgendo alberi, e certe volte interi villaggi e allagando le zone più basse all'intorno. Se l'acqua in quei paesi è vita, in quelle circostanze fa paura e più di una volta si è sentito di gente sprovveduta che accampata sul greto per la notte è stata portata via tende e macchine comprese.
Duecento chilometri in cinque giorni da Afgoi a Giohar contro corrente e ritorno. Il fiume in piena e le sponde verdi, cariche di clorofilla. Annotavo sul diario :"Visto quattro ippo, una madre con figlio al seguito. Emersa sembrava un sottomarino tedesco. Urlo cinematografico!! Figlio ancora in età di sviluppo, lungo soltanto un metro e mezzo. Ci hanno guardato con occhi porcini e poi si sono rituffati. Io a pregare i 30 cavalli del fuoribordo di darsela a gambe! Fifa nera!! Continuavo: "Visto sei cocco placidamente sonnecchianti sulle rive erbose. Al nostro passaggio scivolano giù ondeggiando nell'acqua, come sirene procaci. Scimmiette e scimmioni ci ossessionano. Milioni, senza esagerare, curiose, appese ai rami, urlanti, chi coi piccoletti sul dorso, chi con noci e bacche nelle mani e nei piedi. Ci seguono saltando di ramo in ramo, si fermano a guardarci con occhioni sbarrati sperando di spaventarci. Nelle frequenti radure, famiglie di babbuini protestano col loro roco abbaiare per la presenza di intrusi che col frastuono infernale del motore spaventano i piccoli stretti alle pance delle mamme.
Lungo le due sponde sopravvive una larga striscia di foresta fluviale ricca di intrichi vegetali in parte impenetrabili, di alberi immensi dai rami ombreggianti le acque, pieni dei nidi penduli dei passeri tessitori. Centinaia di bianche aigrettes, pellicani, anatre e oche selvatiche di varie specie, uccelletti microscopici arancione, blu elettrico, grigio cielo e gli spiritosi cormorani che nuotano sotto la superficie e al nostro rumoroso passaggio emergono solo con la testa e il lungo collo per poi, spaventati, decollare direttamente dall'acqua grondanti manifestando con sgraziate strida tutta la loro indignazione. I voli, i mille versi e canti e il cercarsi di tutte queste creature al tramonto, costituiscono da soli uno spettacolo vario e affascinante."
Ippopotami dappertutto. Nelle ore calde immersi, coi soli testoni affioranti di tanto in tanto per respirare, non era facile vederli nell'acqua rossa di limo e spesso ci passavamo sopra rimediando spintoni e sgroppate non certo piacevoli.
Una volta provammo a navigare di notte per sorprendere con la luce di un faro qualche aspetto della vita notturna del fiume ma dovemmo subito rinunciare. Un ippopotamo che pascolava sulla sponda, in quel punto alta quasi quattro metri sul livello dell'acqua, evidentemente spaventato dal rumore o dalla luce del faro, presa una bella rincorsa, con un tuffo magistrale non ci finì in barca solo per qualche metro. Lascio immaginare che sarebbe successo se avessimo imbarcato quella bestiola da due o tre tonnellate.
Continuo dal mio diario:
"Alle 13 quando il sole batte senza pietà sbarchiamo in qualche ombrosa radura e il boy prepara un pasto leggero. Riposo fino alle 16 e poi si riprende la crocera fino al tramonto. E' l'ora magica del fiume. Per godercela fermiamo il motore che ci ha rintronato per ore col suo rombo fastidioso. Il sole colora l'acqua di un rosso intenso, le ombre si allungano, il vento si placa e le grida degli animali si attenuano fino a cessare. Subentra nell'anima quella pace che ti dà il silenzio appena turbato dal fluire della corrente veloce, dal fruscio lieve delle foglie che cadono o dallo scricchiolio di un ramo. La notte cala giu rapida come un sipario. Sbarchiamo i viveri, i pochi utensili di cucina, le brandine con zanzariera. La solita discussione per stabilire da che parte soffia il vento e poi il grande falò notturno. Mentre il boy lo alimenta con enormi tronchi secchi e fa bollire l'acqua per la pasta noi, sdraiati sulle brandine conversiamo placidi. Io con le braccia sotto la nuca guardo il cielo , le sue miriadi di stelle luminose. La Croce del Sud sembra appuntata sulla mia zanzariera e mi tiene compagnia."
Vi furono anche momenti drammatici:
Quando non vedemmo il cavo di un traghetto che attraversava il fiume e fu un miracolo se non ci decapitò, finimmo comunque a gambe all'aria in fondo al motoscafo.
Quando i tafani nel pomeriggio ti straziavano con pizzichi furiosi.
Quando, la prima notte, nonostante il grande fuoco, sentimmo il brontolio sordo di un ippopotamo a pochi metri dalle brandine e le risate ironiche di un paio di iene. Il sangue mi si gelò nelle vene e rimasi un'ora a occhi sbarrati nel buio.
Quando gli ultimi due giorni ispezionando lo scatolame non trovammo che lenticchie e fummo costretti a mangiare solo quelle.
Quando l'ultima notte si mise a piovere e dopo tre ore avevamo le coperte impregnate d'acqua e pesanti una tonnellata!
Ma eravamo giovani e tutto era avventura. Sia all'andata che al ritorno coccodrilli, coccodrilli, coccodrilli dappertutto. Draghi di cinque metri capaci di ingoiare un bambino senza neppure masticarlo, piccoli appena usciti dall'uovo ma già pronti a mordere con ferocia coi loro dentini accuminati e tutte le misure intermedie possibili. Visto che la pesca in mare non bastava neppure a pagare la benzina per la barca mio marito si inventò un'altra attività che, secondo lui, ci avrebbe arricchito in qualche anno ma soprattutto poteva soddisfare il suo spirito d'avventura, le sua voglia di vita libera e primitiva in luoghi selvaggi e inesplorati almeno da uomini bianchi. La caccia ai coccodrilli.
Con i pochi soldi che eravamo riusciti a racimolare vendendo la barca da pesca e con l'aiuto dei genitori avevamo acquistato un furgoncino Ford, anche questo vecchio residuato di guerra . Partivamo tardi la notte per evitare il caldo torrido e raggiungere in cinque o sei ore (date le condizioni della strada e le frequenti forature) a centocinquanta chilometri a nord, un piccolo villaggio: Afgoi Badiaddo, nelle cui vicinanze c' era "Lamma Ubi" che in somalo vuol dire "due fiumi." Era una depressione di qualche ettaro e veniva riempita dalla "piena" di acqua che poi rimaneva anche quando il fiume andava in secca, formando un piccolo lago. E qui venivano a cercar rifugio tutti i coccodrilli della zona.
Sulla sponda c' era un albero soltanto e alla sua ombra scaricavamo qualche cassetta di viveri, le sedie a sdraio, i fiaschi sahariani la cui copertura di sacco continuamente bagnata ci permetteva di disporre d'acqua da bere relativamente fresca. E poi sacchi di sale per le pelli e il materiale per la caccia ai coccodrilli, anzi per la pesca perchè' costituito di grossi ami, catene e lunghi spezzoni di corda. Il furgoncino cosi' svuotato veniva adibito a camera da letto, veramente un po' strettina anche per due sposini, ma utilissima, la notte, per tenerci al riparo da nuvole di zanzare ed altri insetti fastidiosi.
I coccodrilli non mancavano. Se ne vedevano parecchi, nelle ore fresche del mattino e della sera scaldarsi al sole sull'altra sponda del laghetto non più' lontana di qualche decina di metri e quindi non rimaneva che iniziare la caccia.
Paolo non sapeva niente dei coccodrilli, nè come catturarli, nè come scuoiarli e trattare le pelli e......... figuriamoci io !
Prima di iniziare questo lavoro aveva raccolto informazioni qua e la ma senza molto successo perchè era cosa che nessuno aveva fatto prima, almeno in Somalia.
Su disegno del cuoco di casa, che proveniva da un villaggio sul fiume Uebi Shebeli, aveva fatto forgiare dei grossi ami di acciaio fissati a un tratto di catena, che sarebbe bastata ad ancorare un transatlantico, a sua volta legata a diversi metri di corda. A detta del cuoco Sciango la cattura era cosa semplicissima: bastava legare la corda ad un albero, innescare l'amo con un bel pezzo di carne e lasciarlo la sera sulla sponda del fiume. Il coccodrillo avrebbe fatto il resto e il mattino dopo sarebbe stato li pronto ad essere spellato. Anche per questa operazione bastava incidere la linea dorsale perchè la pancia era la parte pregiata che si doveva salvare. La pelle doveva essere poi sepolta fra due strati di sale fino e dopo qualche giorno sarebbe stata pronta alla spedizione e alla vendita in America per un mucchio di dollari. Più' facile di cosi' !
Seguimmo scrupolosamente queste istruzioni, aiutati da alcuni Somali del paese vicino che erano venuti al nostro "campo" sperando di guadagnare qualche cosa. Innescammo gli ami con pezzi di carne di facocero che nel pomeriggio avevamo cacciato nelle pianure al di la' della strada e li sistemammo sull'altra sponda del lago con le corde debitamente legate, poichè' non c'erano alberi, a pioli infissi profondamente nel fango.
Durante la notte illune non si riusciva a vedere l'altra sponda ma da rumori e violenti sciabordii avevamo buone speranze che il sistema potesse funzionare. Passammo la notte in ansia ad aspettare il nuovo giorno.
Fu un vero fallimento. I coccodrilli si erano pappata tutta la carne lasciando sulla spiaggia gli ami nudi. Evidentemente gli ami erano troppo grandi o i cocco troppo furbi o chissamai che....!
A parte qualche mese di sosta, durante la stagione delle piogge, abitammo sotto quell'albero più di un anno anche se con frequenti, disastrosi viaggi a Mogadiscio per far forgiare nuovi tipi di ami da sperimentare.
Viaggi disastrosi perchè la vecchia Ford, o per scoppi di pneumatici o per problemi al motore, ci lasciava sempre per strada e il più' delle volte finivamo a rimorchio di qualche camion o di una colonna militare.
I coccodrilli forse per la poca acqua a disposizione, forse perchè' da noi cosi ben nutriti erano diventati amichevoli tanto da consentirci lunghi bagni nel laghetto, anche a scopo igienico.
Passavo le giornate sotto l'albero e il mio lato romantico veniva appagato da quella natura bella e selvaggia ma mi chiedevo se la mia vita sarebbe stata sempre cosi': l'ombra di un albero per soggiorno e un furgoncino come camera da letto.
C' erano anche momenti bellissimi:
I tramonti sulle grandi pianure, mentre inseguivamo con la macchina un branco di gazzelle e se io tifavo perchè' si salvassero, da un altro lato l'istinto mi spingeva a gridare: "dai forza, spara!!"
Gli ecologi di oggi saranno inorriditi ma a onor del vero, allora in quelle pianure le gazzelle erano migliaia e mai ne venivano da noi uccise più di quelle poche che sarebbero servite a sfamare noi, il nostro personale e ad innescare gli ami.
E gli struzzi che ci invitavano a seguirli per distrarci e permettere ai piccoli di sfruttare il loro straordinario mimetismo e immobilizzandosi tutti insieme appena a pochi metri da noi diventare invisibili nella immensa pianura .
Una volta vedemmo un branco di babbuini. Un vecchio in testa, quasi canuto si appoggiava ad un nodoso bastone . Lo seguivano le femmine con i piccoli attaccati alla pancia o a cavalcioni sulla schiena con la loro testina calva e gli occhietti luminosi. I maschi giovani che saltavano e gridavano per tenere il branco unito.
Forse migravano in un posto più' salubre, chissà ma ricordo il vecchio che ogni tanto si volgeva per assicurarsi che tutti lo seguissero e aveva la dignità del capo pieno di saggezza.
Ritornavamo al "campo" rossi di polvere e dopo una doccia da un secchio appeso a un ramo con relativa "cipolla", semi coricati sulle sdraie ci godevamo l'ora magica del tramonto, i voli di centinaia di morettoni che passavano sulle nostre teste. Paolo mi diceva : "facciamo brodo di anatra per cena?", alzava il fucile a pallini e ne abbatteva una. Le altre proseguivano tranquille per ripassare la sera dopo alla stessa ora e sulla stessa rotta.
L' ultima luce e poi la volta del cielo bassa, zeppa di stelle che sembravano chinarsi su di noi nel buio, il silenzio rotto da qualche grillo, dal tramestio dei pesci nel lago o dalla risata lontana di una iena.
Ogni tanto venivano a trovarci gli amici per una cacciata ma soprattutto per portarci qualche pezzo di ricambio della Ford. Una volta il radiatore si era sfondato su un macigno nascosto in una buca piena di polvere. Montammo quello nuovo e, dopo qualche giorno, lo fracassammo nella stessa buca. Rientrammo a Giohar, dove c'era un meccanico, trainati dall'ultimo camion di una colonna militare.
In poco più di un'anno avevamo raccolto e salato non più di una dozzina di pelli ma acquisito una notevole esperienza sia per quanto riguarda la cattura che per la conservazione delle pelli. Il coccodrillo, considerato animale nocivo non era neppure contemplato dalle leggi sulla caccia e un'attività di questo tipo era ben vista dal Governo della Somalia (l'esportazione delle costosissime pelli era allora una delle poche fonti di valuta pregiata) e dalle popolazioni rivierasche che pagavano ai coccodrilli un notevole tributo di vite umane e di animali domestici. Potevamo quindi iniziare seriamente ed in piena legalità questo nuovo lavoro e con buone speranze se non di arricchire, di poterci mantenere economicamente in modo decente.
Dopo un paio d'anni l'Uebi Scebeli esplorato dal confine con l'Etiopia alle grandi paludi dove si perdeva, non aveva più interesse per noi anche perchè i coccodrilli notevolmente diminuiti di numero per le catture e forse perchè erano diventati più furbi non abboccavano più tanto facilmente.
Bisognava per questo allargare la zona di operazioni e decidemmo di fare una esplorazione anche sul fiume Giuba che molto più grande dell'Uebi e a corso perenne ci avrebbe forse dato migliori opportunità.
Pensammo di effettuare un'"assaggio" navigandolo in barca da Dolo,( al confine con l'Etiopia), a Lug Ferrandi, altri cento chilometri d'acqua.
Partimmo da Mogadiscio con la Land Rover nuova fiammante e nostro orgoglio perchè una delle prime importate in Somalia. Vi attaccammo un rimorchio e sopra questo una barca di legno tenuta su da diversi giri di corda. La strada era lunga più di cinquecento chilometri e non pensavamo di impiegare a percorrerla più di dodici ore. Ma dopo i primi trenta, ad Afgoi, l' asfalto finiva e il resto era tutta pista di terra con buche e sassi più o meno grandi. Eravamo costantemente avvolti da una nube di polvere fine che non potevamo evitare perchè allora il condizionatore per le automobili era ancora nella mente di chi lo ha inventato o forse il tipo non era neanche nato e quindi si viaggiava con i finestrini spalancati!! La Land Rover dopo un paio d'ore era diventata tremendamente scomoda , il caldo feroce che c'era in quella stagione arroventava i sedili di plastica e sembrava di stare seduti su una stufa accesa; con tutti quegli scossoni la barca minacciava continuamente di cadere e dovevamo fermarci ogni pochi chilometri per risistemarla sul rimorchio e assestare le corde.
Ma la vista intorno ci dava la spinta a proseguire. Attraversando le pianure del Dafet si incontravano grandi branchi di Orix dalle lunghe corna a sciabola che si allontavano al nostro passaggio in una nuvola di polvere con un rumore rimbombante di zoccoli. Gazzelle di Soemmering con i loro salti sembravano volare sui radi cespugli di acacie spinose, le delicate antilopi-giraffa (Gherenuc) dal lunghissimo collo, erette appoggiandosi su qualche ramo per brucare i più lontani germogli e i soliti Dig Dig piccoli dalle gambette come ossicini e gli occhi grandi, rotondi e curiosi.
A mezzogiorno eravamo appena a metà strada. Ogni tanto si attraversava o si vedeva in lontananza un villaggio di belle capanne rotonde fatte di frasche con le connessure colmate da un impasto di terra e sterco di vacca e i tetti conici d'erba ( i tucul) , le donne che battevano la dura sui mortai di legno per farne la loro polenta , gli uomini maestosi nelle fute colorate (un telo cucito a tubo lungo fino alle caviglie e trattenuto in vita da una cintura di pelle) e la turba di ragazzini mezzi nudi che rincorrevano per qualche metro la macchina gridando festosi.
Ero già stufa di quell'avventura che a rievocarla sembra piena d'interesse. Il viverla era tutt'altra cosa. La strada interminabile, il caldo tremendo, il sudore misto a polvere che bruciava la pelle e....quella barca che penzolava qua e la. Non si arrivava mai, Pensavo al Residente italiano di Lug Ferrandi che ci aspettava e, preavvertito da Mogadiscio, ci avrebbe offerto un lauto pranzo invitando pure i pochi italiani presenti. Una coppia giovane d'italiani che arrivava in quel posto in piena boscaglia era un avvenimento ma l'idea di presentarmi con i capelli sporchi, appiccicati al cranio e coperta di polvere mi andava molto poco.
Quando in una pianura immensa da non vederne la fine apparvero all'improvviso i Bur di Bur Acaba dovetti ammettere che erano una cosa veramente straordinaria. I Bur sono degli affioramenti granitici, più o meno di un trecento metri di altezza e sono tanti. Ti guardi intorno in quella desolazione piatta e pensi alla mano di qualche gigante che abbia buttato qua e la montagne panciute per ravvivare un paesaggio tanto uniforme e triste.
Ancora cento chilometri ed eccoci a Baidoa, la Svizzera della Somalia perchè a circa cinquecento metri di altitudine. Andammo in uno dei due ristoranti del posto, tutti e due tenuti da italiani che si odiavano al punto tale da prendersi a coltellate ogni volta che si incontravano. Per cui, regolarmente, quando uno entrava in ospedale l'altro finiva in galera e appena ne usciva i ruoli si invertivano con grande regolarità. Una specie di faida che durava da anni e nessuno ne conosceva il motivo. Certo si mangiava bene sia da uno che dall'altro e poco importava agli avventori di passaggio se dopo poco sarebbe per qualche tempo sparito il proprietario; c'era sempre l'altro nel suo ristorante a offrirti galline ruspanti alla brace o altro sempre squisito e genuino.
Mi sarei fermata volentieri a dormire con la coperta di lana in quel freschetto inusuale , sensazione unica in un paese tutto a livello del mare e sull' equatore. Però dopo aver visto le stanze mi risolsi a tagliare la corda e a convincere mio marito che era proprio il caso di proseguire perchè a Lug ci stavano aspettando.
Quando le ombre della sera scesero rapide, con l'avanzare del buio non c'era più entusiasmo a guardarsi intorno e ipnotizzata dalle luci dei fari, dopo un po' mi venne la nausea. Ogni tanto ci si fermava per riassestare le corde della barca maledetta e spento il motore il silenzio della notte era solenne, occhi luminosi sul bordo della strada, forse qualche iena o sciacallo abbagliato dai fari e se poco lontano c'era un villaggio si sentivano i suoni dei tamburi, qualche canto, il pianto di un bambino, l'odore di legna dei bracieri.
Entrammo a Lug Ferrandi verso mezzanotte. Il Residente ci venne incontro e ci presentò al medico, al maestro elementare, ai carabinieri e agli ospiti di riguardo che era riuscito a raffazzonare in un paese di una ventina di scapoli italiani. Guardai la tavola ben apparecchiata e piombai a terra svenuta. Mi svegliai per gli schiaffoni che mi dava mio marito dicendo ai signori presenti allibiti: "Non è niente, un po' di stanchezza!!" Altro che stanchezza! Ero morta; per percorrere solo cinquecento chilometri in quelle condizioni disastrose avevamo impiegato più di venti ore!
L'indomani mi svegliai nella bella casa del Residente, la colazione servita da un cameriere somalo in camice e guanti bianchi con fascia azzurra alla vita, in un gazebo di legno sulla alta sponda del fiume che scorreva rapido e la barca attraccata sotto e già pronta per la partenza. Vale notare che la famosa barca che ci aveva dato tanti fastidi durante il viaggio non era altro che una vecchia ciabatta a vela classe "beccaccino" a fondo quasi piatto, ovviamente senza albero ne vele ma ancora con tanto di cassetta per la deriva. Era "motorizzata" da un piccolo motore fuoribordo di 4 cavalli che bastava appena a farla avanzare controcorrente. Una volta carica di tutto l'equipaggiamento e cinque persone, io con marito, il Residente e due aiutanti somali le sponde emergevano non più di trenta centimetri dall'acqua. Nonostante la precarietà della situazione mi era tornato l'entusiasmo e partimmo con viveri, medicinali, coperte, tre brandine , tutto l'occorrente per qualche notte all'aperto.
Il Giuba, che scorre perenne e non va in secca che in qualche raro anno di particolare siccità, in quel punto è molto largo e profondo. Viaggiavamo allegri indicando il coccodrillo che al nostro passaggio si buttava in acqua o i molti che prendevano il sole su spiagge o isolotti. Il fiume mette euforia perchè è un'acqua circoscritta dalle sponde ma che scorrendo turbinosamente, ha una sua voce . .
Proseguivamo nel sole caldo e mi stupivo di vedere sulle sponde soltanto rari alberi striminziti. Mi spiegarono che al sud lungo le sponde c'erano due grandi foreste: Manane e Mansur, ma al nord le rive erano naturalmente piuttosto spoglie . Sotto quel sole rovente veniva la voglia di tuffarsi nelle fresche acque ma con tutti quei coccodrilli e ippopotami in giro, pensammo che non fosse salutare. Ad un dato momento un insetto si posò su una gamba del Residente, lui istintivamente fece un gesto per scacciarlo e l'insetto volò via ma gli lasciò due bolle che andavano ingrossandosi a vista d'occhio. Non gli davano un gran fastidio, ma arrivato fresco dall'Italia e privo di precedenti esperienze africane cominciò a meditare sulle possibili terrificanti malattie di cui il non identificato insetto poteva essere portatore e da quel momento tutto il suo interesse per il viaggio finì e si concentrò sulla sua gamba.
Arrivammo in due giorni a Dolo dove non c'era granchè da vedere. Un fortino mezzo diroccato dei tempi della guerra d'Abissinia e un povero villaggio di "tucul". Ma dato che eravamo ben attrezzati avremmo potuto comodamente accamparci in un'ansa del fiume e riprendere la navigazione alle prime luci dell'alba. Ma il Signor Residente era tormentato da grande premura e volgemmo la prua per tornare. Si era ricordato improvvisamente che aveva lasciato dei lavori in sospeso e, data la sua posizione di primo cittadino di Lug Ferrandi, potevamo anche credergli.
Addio notti poetiche all'aperto in riva al fiume! Il ritorno fu allucinante perchè col calare delle tenebre e sulla scia della luce di un faro, tutto faceva spavento. Si aveva la continua impressione di andare in secca, di sbattere contro qualche tronco galleggiante e le sponde apparivano vicine, troppo vicine alla barca. Un incubo spaventoso !
Arrivammo a Lug alle ore piccole della notte infreddoliti e impauriti.
Dopo due giorni prendemmo la via del ritorno....senza barca.
Pregammo il Residente, ormai completamente guarito dalle bolle e soprattutto rassicurato dal medico sulla non pericolosità dell'insetto, di far caricare la barca su un camion e farcela portare a Mogadiscio. D'altronde da una barca che avevamo battezzato "La maledetta", cosa c'era da aspettarsi? Comunque agli effetti della "pesca" il viaggio era stato positivo perchè, nel tratto di fiume percorso, i coccodrilli pullulavano e Paolo, cominciò subito a organizzasi per le cacciate future.
Gli amici si stupivano che potessimo vivere per tanto tempo come "Tarzan e la compagna" e io, pur essendomi seriamente stancata di più di due anni di quella vita allo stato brado, non potevo pensare di lasciare mio marito e rimanere a Mogadiscio a stare con persone in fondo sconosciute come i miei suoceri.
Fu un caro amico che, scandalizzato per l'esistenza che Paolo faceva condurre alla giovane moglie, mi propose un impiego nel suo ufficio al Ministero dei Lavori Pubblici.
Mi convinsi dopo un paio di spiacevoli avventure:
Una volta che, stufa di leggere, ero scesa sulla spiaggia del fiume quasi in secca, sentendomi osservata, mi girai e vidi in cima all'argine piuttosto ripido di almeno cinque metri d'altezza, un grosso babbuino che mi fissava interessato e che, magari senza volerlo, mi tagliava la ritirata. Mi prese un colpo. Dove scappare? Piano, piano e senza fare mosse brusche, con un gran batticuore cominciai a risalire la sponda proprio andandogli incontro . Forse anche su di lui la paura per un altro "animale" sconosciuto ebbe il sopravvento e, vedendo che stavo sempre più' avvicinandomi, scappò abbaiando e grugnendo seccato. In ogni modo mi presi una bella paura!
Ma quello che fece traboccare il vaso fu "la notte della iena".
Quella sera eravamo tornati tardi da una cacciata e Paolo aveva appeso ad un ramo dell'albero che come al solito costituiva sala da pranzo, soggiorno e camera da letto, una gazzella. Il giorno dopo i somali l'avrebbero scuoiata e in parte sarebbe servita per migliorare la dieta di noi tutti e in parte per innescare gli ami. Dato che in quel periodo faceva un gran caldo e non c'erano molte zanzare, dopo il solito pasto frugale, ci eravamo coricati all'aperto su certe brandine basse, scomodissime che Paolo aveva appena comprato. Non ero tranquilla perchè sentivo lontano gli ululati e le risate delle iene. Avevo chiesto a Paolo se l'odore della gazzella non avrebbe attirato quelle bestiacce.
"No - mi aveva risposto - c'e' il fuoco acceso non si avvicinano, dormi e sta tranquilla." Più' o meno convinta mi addormentai.
Mi svegliai di soprassalto per qualcosa che mi premeva sulla nuca: alzai una mano e....toccai il muso peloso di un animale. Gridai come una pazza e Paolo accesa rapidamente la torcia elettrica fece in tempo a illuminare il didietro di una iena che scappava caracollando sulle corte zampe posteriori .
Il fuoco durante la notte si era spento. Seppi più' tardi che le iene attaccano spesso persone che dormono in boscaglia e vidi sulle facce e sul cranio di alcuni Somali le devastanti conseguenze del morso delle loro potenti mandibole frantumatrici di ossa.
Insomma accettai l'offerta dell'amico.
I Somali un tempo per il novanta per cento, pastori nomadi, paghi del nutrimento loro assicurato sopratutto dal latte delle mandrie (di bovini e pecore al sud e cammelli e capre al nord) avevano da sempre rispettato la fauna e la flora selvagge forse anche per qualche tabù loro imposto dalla tradizione. Poi vennero i bianchi a portare la civiltà e naturalmente vollero in cambio qualche cosa. E quelle che per secoli erano state considerate dai locali di nessun valore ne assunsero uno anche se vile ma che poteva trasformarsi in denaro per procurarsi le cose meravigliose che i bianchi avevano portato. All'inizio solo cotonate, spaghetti e lattine di conserva di pomodoro, poi coll'indipendenza , fucili e poi cannoni e poi carri armati. E iniziò il massacro di uomini e animali. I "bianchi" pur di accaparrarsi mercati e zone di influenza non furono parchi nel fornire armi di cui non sapevano che fare perchè rapidamente diventate obsolete ma sempre micidiali e le scaramucce fra le differenti tribù che si risolvevsno con qualche morto a colpi di lancia o di pugnale divennero guerre spietate di pulizia etnica che non sono acora finite ne si sa quando e se mai finiranno. Che peccato!
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