Tutto il giorno Efix, il servo delle dame Pintor,
aveva lavorato a rinforzare l'argine primitivo da lui stesso
costruito un po' per volta a furia d'anni e di fatica, giù in
fondo al poderetto lungo il fiume: e al cader della sera
contemplava la sua opera dall'alto, seduto davanti alla capanna
sotto il ciglione glauco di canne a mezza costa sulla bianca Collina
dei Colombi.
Eccolo tutto ai suoi piedi, silenzioso e qua e là
scintillante d'acque nel crepuscolo, il poderetto che Efix
considerava più suo che delle sue padrone: trent'anni di
possesso e di lavoro lo han fatto ben suo, e le siepi di fichi
d'India che lo chiudono dall'alto in basso come due muri grigi
serpeggianti di scaglione in scaglione dalla collina al fiume,
gli sembrano i confini del mondo.
Il servo non guardava al di là del poderetto anche
perché i terreni da una parte e dall'altra erano un tempo
appartenuti alle sue padrone: perché ricordare il passato?
Rimpianto inutile. Meglio pensare all'avvenire e sperare
nell'aiuto di Dio.
E Dio prometteva una buona annata, o per lo meno
faceva ricoprir di fiori tutti i mandorli e i peschi della valle;
e questa, fra due file di colline bianche, con lontananze cerule
di monti ad occidente e di mare ad oriente, coperta di
vegetazione primaverile, d'acque, di macchie, di fiori, dava
l'idea di una culla gonfia di veli verdi, di nastri azzurri, col
mormorìo del fiume monotono come quello di un bambino che
s'addormentava.
Ma le giornate eran già troppo calde ed Efix pensava
anche alle piogge torrenziali che gonfiano il fiume senz'argini e
lo fanno balzare come un mostro e distruggere ogni cosa: sperare,
sì, ma non fidarsi anche; star vigili come le canne sopra il
ciglione che ad ogni soffio di vento si battono l'una all'altra
le foglie come per avvertirsi del pericolo.
Per questo aveva lavorato tutto il giorno e adesso,
in attesa della notte, mentre per non perder tempo intesseva una
stuoia di giunchi, pregava perché Dio rendesse valido il suo
lavoro. Che cosa è un piccolo argine se Dio non lo rende, col
suo volere, formidabile come una montagna?
Sette giunchi attraverso un vimine, dunque, e sette
preghiere al Signore ed a Nostra Signora del Rimedio, benedetta
ella sia, ecco laggiù nell'estremo azzurro del crepuscolo la
chiesetta e il recinto di capanne quieto come un villaggio
preistorico abbandonato da secoli. A quell'ora, mentre la luna
sbocciava come una grande rosa fra i cespugli della collina e le
euforbie odoravano lungo il fiume, anche le padrone di Efix
pregavano: donna Ester la più vecchia, benedetta ella sia, si
ricordava certo di lui peccatore: bastava questo perché egli si
sentisse contento, compensato delle sue fatiche.
Un passo in lontananza gli fece sollevar gli occhi.
Gli sembrò di riconoscerlo; era un passo rapido e lieve di
fanciullo, passo d'angelo che corre ad annunziare le cose liete e
le tristi. Sia fatto il volere di Dio: è lui che manda le buone
e le cattive notizie; ma il cuore cominciò a tremargli, ed anche
le dita nere screpolate tremarono coi giunchi argentei lucenti
alla luna come fili d'acqua.
Il passo non s'udiva più: Efix tuttavia rimase
ancora là, immobile ad aspettare.
La luna saliva davanti a lui, e le voci della sera
avvertivano l'uomo che la sua giornata era finita. Era il grido
cadenzato del cuculo, il zirlio dei grilli precoci, qualche
gemito d'uccello; era il sospiro delle canne e la voce sempre
più chiara del fiume: ma era soprattutto un soffio, un ansito
misterioso che pareva uscire dalla terra stessa; sì, la giornata
dell'uomo lavoratore era finita, ma cominciava la vita fantastica
dei folletti, delle fate, degli spiriti erranti. I fantasmi degli
antichi Baroni scendevano dalle rovine del castello sopra il
paese di Galte, su, all'orizzonte a sinistra di Efix, e
percorrevano le sponde del fiume alla caccia dei cinghiali e
delle volpi: le loro armi scintillavano in mezzo ai bassi ontani
della riva, e l'abbaiar fioco dei cani in lontananza indicava il
loro passaggio.
Efix sentiva il rumore che le panas facevano
nel lavar i loro panni giù al fiume, battendoli con uno stinco
di morto e credeva di intraveder l'ammattadore, folletto
con sette berretti entro i quali conserva un tesoro, balzar di
qua e di là sotto il bosco di mandorli, inseguito dai vampiri
con la coda di acciaio.
Era il suo passaggio che destava lo scintillio dei
rami e delle pietre sotto la luna: e agli spiriti maligni si
univano quelli dei bambini non battezzati, spiriti bianchi che
volavano per aria tramutandosi nelle nuvolette argentee dietro la
luna: e i nani e le janas, piccole fate che durante la
giornata stanno nelle loro case di roccia a tesser stoffe d'oro
in telai d'oro, ballavano all'ombra delle grandi macchie di
filirèa, mentre i giganti s'affacciavano fra le rocce dei monti
battuti dalla luna, tenendo per la briglia gli enormi cavalli
verdi che essi soltanto sanno montare, spiando se laggiù fra le
distese d'euforbia malefica si nascondeva qualche drago o se il
leggendario serpente cananèa, vivente fin dai tempi di
Cristo, strisciava sulle sabbie intorno alla palude.
Specialmente nelle notti di luna tutto questo popolo
misterioso anima le colline e le valli: l'uomo non ha diritto a
turbarlo con la sua presenza, come gli spiriti han rispettato lui
durante il corso del sole; è dunque tempo di ritirarsi e chiuder
gli occhi sotto la protezione degli angeli custodi.
Efix si fece il segno della croce e si alzò: ma
aspettava ancora che qualcuno arrivasse. Tuttavia spinse l'asse
che serviva da porticina e vi appoggiò contro una gran croce di
canne che doveva impedire ai folletti e alle tentazioni di
penetrare nella capanna.
Il chiarore della luna illuminava attraverso le
fessure la stanza stretta e bassa agli angoli, ma abbastanza
larga per lui che era piccolo e scarno come un adolescente. Dal
tetto a cono, di canne e giunchi, che copriva i muri a secco e
aveva un foro nel mezzo per l'uscita del fumo, pendevano grappoli
di cipolle e mazzi d'erbe secche, croci di palma e rami d'ulivo
benedetto, un cero dipinto, una falce contro i vampiri e un
sacchetto di orzo contro le panas: ad ogni soffio tutto
tremava e i fili dei ragni lucevano alla luna. Giù per terra la
brocca riposava con le sue anse sui fianchi e la pentola
capovolta le dormiva accanto.
Efix preparò la stuoia, ma non si coricò. Gli
sembrava sempre di sentire il rumore dei passi infantili:
qualcuno veniva di certo e infatti a un tratto i cani
cominciarono ad abbaiare nei poderi vicini, e tutto il paesaggio
che pochi momenti prima pareva si fosse addormentato fra il
mormorio di preghiera delle voci notturne, fu pieno di echi e di
fremiti quasi si svegliasse di soprassalto.
Efix riaprì. Una figura nera saliva attraverso la
china ove già le fave basse ondulavano ergentee alla luna, ed
egli, a cui durante la notte anche le figure umane parevan
misteriose, si fece di nuovo il segno della croce. Ma una voce
conosciuta lo chiamò: era la voce fresca ma un po' ansante di un
ragazzo che abitava accanto alla casa delle dame Pintor.
«Zio Efisè, zio Efisè!»
«Che è accaduto, Zuannantò? Stanno bene le mie
dame?»
«Stanno bene, sì, mi pare. Solo mi mandano per
dirvi di tornare domani presto in paese, che hanno bisogno di
parlarvi. Sarà forse per una lettera gialla che ho visto in mano
a donna Noemi. Donna Noemi la leggeva e donna Ruth col fazzoletto
bianco in testa come una monaca spazzava il cortile, ma stava
ferma appoggiata alla scopa e ascoltava.»
«Una lettera? Non sai di chi è?»
«Io no; non so leggere. Ma la mia nonna dice che
forse è di sennor Giacinto il nipote delle vostre padrone.»
Sì, Efix lo sentiva; doveva esser così; tuttavia si
grattava pensieroso la guancia, a testa china, e sperava e temeva
d'ingannarsi.
Il ragazzo s'era seduto stanco sulla pietra davanti
alla capanna e si slacciava gli scarponi domandando se non c'era
nulla da mangiare.
«Ho corso come un cerbiatto: avevo paura dei
folletti...»
Efix sollevò il viso olivastro duro come una
maschera di bronzo, e fissò il ragazzo coi piccoli occhi
azzurrognoli infossati e circondati di rughe: e quegli occhi vivi
lucenti esprimevano un'angoscia infantile.
«Ti han detto s'io devo tornare domani o stanotte?»
«Domani, vi dico! Intanto che voi sarete in paese io
starò qui a guardare il podere.»
Il servo era abituato a obbedire alle sue padrone e
non fece altre richieste: tirò una cipolla dal grappolo, un
pezzo di pane dalla bisaccia e mentre il ragazzo mangiava ridendo
e piangendo per l'odore dell'aspro companatico, ripresero a
chiacchierare. I personaggi più importanti del paese
attraversavano il loro discorso: prima veniva il Rettore, poi la
sorella del Rettore, il sindaco, cugino delle padrone di Efix.
Anche don Predu era ricco, ma non come il Milese. Poi veniva
Kallina l'usuraia, ricca anche lei ma in modo misterioso.
«I ladri han tentato di rompere il suo muro.
Inutile: è fatato. E lei rideva, stamattina, nel suo cortile,
dicendo: anche se entrano trovano solo cenere e chiodi, povera
come Cristo. Ma la mia nonna dice che zia Kallina ha un
sacchettino pieno d'oro nascosto dentro il muro.»
Ma a Efix in fondo poco importavano queste storie.
Coricato sulla stuoia, con una mano sotto l'ascella e l'altra
sotto la guancia sentiva il cuore palpitare e il fruscìo delle
canne sopra il ciglione gli sembrava il sospiro d'uno spirito
malefico.
La lettera gialla! Giallo, brutto colore. Chissà
cosa doveva ancora accadere alle sue padrone. Da venti anni a
questa parte quando qualche avvenimento rompeva la vita monotona
di casa Pintor era invariabilmente una disgrazia.
Anche il ragazzo s'era coricato, ma non aveva voglia
di dormire.
«Zio Efix, anche oggi la mia nonna raccontava che le
vostre padrone erano ricche come don Predu. E' vero o non è
vero?»
«E' vero», disse il servo sospirando. «Ma non è
ora di ricordar queste cose. Dormi.»
Il ragazzo sbadigliò.
«Ma mia nonna racconta che dopo morta donna Maria
Cristina, la vostra beata padrona vecchia, passò come la
scomunica, in casa vostra. E' vero o non è vero?»
«Dormi, ti dico, non è ora...»
«E lasciatemi parlare! E perché è fuggita donna
Lia, la vostra padrona piccola? La mia nonna dice che voi lo
sapete: che l'avete aiutata a fuggire, donna Lia: l'avete
accompagnata fino al ponte, dove si è nascosta finché è
passato un carro sul quale ella è andata fino al mare. Là si è
imbarcata. E don Zame, suo padre, il vostro padrone, la cercava,
la cercava, finché è morto. E' morto là, accanto al ponte. Chi
l'ha ucciso? Mia nonna dice che voi lo sapete...»
«Tua nonna è una strega! Lei e tu, tu e lei
lasciate in pace i morti!», gridò Efix; ma la sua voce era
roca, e il ragazzo rise con insolenza.
«Non arrabbiatevi, che vi fa male, zio Efix! Mia
nonna dice che è stato il folletto, a uccidere don Zame. E' vero
o non è vero?»
Efix non rispose: chiuse gli occhi, si mise la mano
sull'orecchio, ma la voce del ragazzo ronzava nel buio e gli
sembrava la voce stessa degli spiriti del passato.
Ed ecco a poco a poco tutti vengono attorno,
penetrano per le fessure come i raggi della luna: è donna Maria
Cristina, bella e calma come una santa, è don Zame, rosso e
violento come il diavolo: sono le quattro figlie che nel viso
pallido hanno la serenità della madre e in fondo agli occhi la
fiamma del padre: sono i servi, le serve, i parenti, gli amici,
tutta la gente che invade la casa ricca dei discendenti dei
Baroni della contrada. Ma passa il vento della disgrazia e la
gente si disperde, come le nuvolette in cielo attorno alla luna
quando soffia la tramontana.
Donna Cristina è morta; il viso pallido delle figlie
perde un poco della sua serenità e la fiamma in fondo agli occhi
cresce: cresce a misura che don Zame, dopo la morte della moglie,
prende sempre più l'aspetto prepotente dei Baroni suoi antenati,
e come questi tiene chiuse dentro casa come schiave le quattro
ragazze in attesa di mariti degni di loro. E come schiave esse
dovevano lavorare, fare il pane, tessere, cucire, cucinare, saper
custodire la loro roba: e soprattutto, non dovevano sollevar gli
occhi davanti agli uomini, né permettersi di pensare ad uno che
non fosse destinato per loro sposo. Ma gli anni passavano e lo
sposo non veniva. E più le figlie invecchiavano più don Zame
pretendeva da loro una costante severità di costumi. Guai se le
vedeva affacciate alle finestre verso il vicolo dietro la casa, o
se uscivano senza suo permesso. Le schiaffeggiava coprendole
d'improperi, e minacciava di morte i giovani che passavano due
volte di seguito nel vicolo.
Egli intanto passava le giornate a girovagare per il
paese, o seduto sulla panca di pietra davanti alla bottega della
sorella del Rettore. Le persone scantonavano nel vederlo, tanto
avevan paura della sua lingua. Egli litigava con tutti, ed era
talmente invidioso del bene altrui, che quando passava in un bel
podere diceva "le liti ti divorino". Ma le liti
finivano col divorare le sue terre, e una disgrazia inaudita lo
colpì a un tratto come un castigo di Dio per la sua superbia e i
suoi pregiudizi. Donna Lia, la terza delle sue figlie, sparì una
notte dalla casa paterna e per lungo tempo non si seppe più
nulla di lei. Un'ombra di morte gravò sulla casa: mai nel paese
era accaduto uno scandalo eguale; mai una fanciulla nobile e
beneducata come Lia era fuggita così. Don Zame parve impazzire;
corse di qua e di là; per tutto il circondario e lungo la Costa
in cerca di Lia; ma nessuno seppe dargliene notizie. Finalmente
ella scrisse alle sorelle, dicendo di trovarsi in un luogo sicuro
e d'esser contenta d'aver rotto la sua catena. Le sorelle però
non perdonarono, non risposero. Don Zame era divenuto più
tiranno con loro. Vendeva i rimasugli del suo patrimonio,
maltrattava il servo, annoiava mezzo mondo con le sue querele,
viaggiava sempre con la speranza di rintracciare sua figlia e
ricondurla a casa. L'ombra del disonore che gravava su lui e su
l'intera famiglia, per la fuga di Lia, gli pesava come una cappa
da condannato. Una mattina fu trovato morto nello stradone, sul
ponte dopo il paese. Doveva esser morto di sincope, perché non
presentava traccia alcuna di violenza: solo una piccola macchia
verde al collo, sotto la nuca. La gente disse che forse don Zame
aveva litigato con qualcuno e che era stato ammazzato a colpi di
bastone: ma col tempo questa voce tacque e predominò la certezza
che egli fosse morto di crepacuore per la fuga di sua figlia.
Lia intanto, mentre le sorelle disonorate dalla fuga
di lei non trovavano marito, scrisse annunziando il suo
matrimonio. Lo sposo era un negoziante di bestiame ch'ella aveva
incontrato per caso durante il suo viaggio di fuga: vivevano a
Civitavecchia, in discreta agiatezza, dovevano presto avere un
figlio.
Le sorelle non le perdonarono questo nuovo errore: il
matrimonio con un uomo plebeo incontrato in così tristo modo: e
non risposero.
Qualche tempo dopo Lia scrisse ancora annunziando la
nascita di Giacinto. Esse mandarono un regalo al nipotino, ma non
scrissero alla madre.
E gli anni passarono. Giacinto crebbe, e ogni anno
per Pasqua e per Natale scriveva alle zie e le zie gli mandavano
un regalo: una volta scrisse che studiava, un'altra volta che
voleva entrare in Marina, un'altra ancora che aveva trovato un
impiego; poi annunziò la morte di suo padre, poi la morte di sua
madre; infine espresse il desiderio di visitarle e di stabilirsi
con loro se al paese trovava da lavorare. Il suo piccolo impiego
nell'Ufficio della Dogana non gli piaceva; era umile e penoso,
gli sciupava la giovinezza. E lui amava la vita laboriosa, sì,
ma semplice, all'aperto. Tutti gli consigliavano di recarsi
nell'isola di sua madre, per tentar la fortuna con un onesto
lavoro.
Le zie cominciarono a discutere; e più discutevano
meno si trovavano d'accordo.
«Lavorare?», diceva donna Ruth, la più calma. Se
il paesetto non dava risorse neppure a quelli che c'eran nati?
Donna Ester, invece, favoriva i progetti del nipote,
mentre donna Noemi, la più giovane, sorrideva fredda e beffarda.
«Egli forse crede di venir qui a fare il signore.
Venga, venga! Andrà a pescare al fiume...»
«Egli stesso dice che vuol lavorare, Noemi, sorella
mia! Lavorerà dunque: farà il negoziante come suo padre.»
«Doveva farlo prima, allora. I nostri parenti non
hanno mai comprato buoi.»
«Altri tempi, Noemi, sorella mia! Del resto i
signori sono appunto i mercanti, adesso. Vedi il Milese? Egli
dice: il Barone di Galte adesso sono io.»
Noemi rideva, con uno sguardo cattivo negli occhi
profondi, e il suo riso scoraggiava donna Ester più che tutti
gli argomenti dell'altra sorella.
Tutti i giorni era la stessa storia: il nome di
Giacinto risuonava per tutta la casa, e anche quando le tre
sorelle tacevana egli era in mezzo a loro, come del resto lo era
sempre fin dal giorno della sua nascita, e la sua figura ignota
riempiva di vita la casa in rovina.
Efix non ricordava di aver mai preso parte diretta
alle discussioni delle sue padrone: non osava, anzitutto perché
esse non lo interpellavano, poi per non aver scrupoli di
coscienza: ma desiderava che il ragazzo venisse.
Egli lo amava, lo aveva sempre amato come una persona
di famiglia.
Dopo la morte di don Zame, egli era rimasto con le
tre dame per aiutarle a sbrigare i loro affari imbrogliati. I
parenti non si curavano di loro, anzi le disprezzavano e le
sfuggivano; esse non erano capaci che delle faccende domestiche e
neppure conoscevano il poderetto, ultimo avanzo del loro
patrimonio.
«Starò ancora un anno al loro servizio», aveva
detto Efix, mosso a pietà del loro abbandono. Ed era rimasto
venti anni.
Le tre donne vivevano della rendita del podere
coltivato da lui. Nelle annate scarse donna Ester diceva al
servo, giunto il momento di pagarlo (trenta scudi all'anno e un
paio di scarponi):
«Abbi pazienza, per l'amor di Cristo: il tuo non ti
mancherà».
E lui aveva pazienza, e il suo credito aumentava di
anno in anno, tanto che donna Ester, un po' scherzando, un po'
sul serio gli prometteva di lasciarlo erede del podere e della
casa, sebbene egli fosse più vecchio di loro.
Vecchio, oramai, e debole; ma era sempre un uomo, e
bastava la sua ombra per proteggere ancora le tre donne.
Adesso era lui che sognava per loro la buona fortuna:
almeno che Noemi trovasse marito! Se la lettera gialla, dopo
tutto, portasse una buona notizia? Se annunziava una eredità? Se
fosse appunto una domanda di matrimonio per Noemi? Le dame Pintor
avevano ancora ricchi parenti a Sassari e a Nuoro: perché uno di
loro non poteva sposar Noemi? Lo stesso don Predu poteva aver
scritto la lettera gialla...
Ed ecco nella fantasia stanca del servo le cose a un
tratto cambiano aspetto come dalla notte al giorno; tutto è
luce, dolcezza: le sue nobili padrone ringiovaniscono, si
risollevano a volo come aquile che han rimesso le penne; la loro
casa risorge dalle sue rovine e tutto intorno rifiorisce come la
valle a primavera.
E a lui, al povero servo, non rimane che ritirarsi
per il resto della vita nel poderetto, spiegar la sua stuoia e
riposarsi con Dio, mentre nel silenzio della notte le canne
sussurrano la preghiera della terra che s'addormenta.