Un giorno in autunno Efix andò in casa di don
Predu.
C'erano solo le serve, una grassa e anziana che si
dava le arie imponenti della sorella del Rettore, l'altra giovane
e lesta benché afflitta dalle febbri di malaria; ed egli dovette
attendere nella stanza terrena, divagandosi a guardare nel vasto
cortile i graticoli di canna coperti di fichi verdi e neri, d'una
violetta e di pomidoro spaccati velati di sale. Tutta la casa
spirava pace e benessere: sui muri chiari tremolava l'ombra dei
palmizi e tra il fogliame dorato dei melagrani le frutta rosse
spaccate mostravano i grani perlati come denti di bambino. Efix
pensava alla casa desolata delle sue povere padrone, a Noemi che
vi si consumava dentro come un fiore al buio...
«Come sei dimagrito», gli disse la serva anziana,
che filava seduta presso la porta, «hai le febbri?»
«Mi rosicchiano le ossa, mi scarnificano, sia per
l'amor di Dio», egli sospirò, guardandosi le mani nere
tremanti.
«Le tue padrone stanno bene? Non si vedono più
neppure in chiesa.»
«Neppure in chiesa vanno, dopo la disgrazia.»
«E don Giacinto non torna?»
«Non torna. Ha un posto a Nuoro.»
«Sì, il mio padrone l'ha veduto, ultimamente. Ma
pare non sia un posto molto di lusso.»
«Basta vivere, Stefana!», ammonì Efix, senza
sollevare la testa. «Basta vivere senza peccare.»
«Questo è difficile, anima mia! Come guadare il
fiume senza bagnarsi?»
«Passando sul ponte», disse l'altra serva dal
cortile curva a sbucciare un mucchio di mandorle; poi domandò:
«E Grixenda, allora? Anche lei porta il lutto e non esce più».
Efix non rispose.
«E don Predu, adesso, viene da voi?»
«Io non lo so: io sono sempre laggiù, al
poderetto.»
Le donne ardevano di curiosità, perché da qualche
tempo il padrone mandava regali alle cugine e pur beffandosi di
loro non permetteva che altri ne parlasse male in sua presenza;
ma Efix non era disposto alle confidenze. Don Predu l'aveva
mandato a chiamare, ed egli, ed egli era lì per attenderlo non
per chiacchierare. La febbre e la debolezza gli davano un ronzìo
alle orecchie; sentiva come il mormorare del fiume nella notte e
voci lontane, e aveva dentro la testa tutto un mondo suo ov'egli
viveva distaccato dal mondo reale.
Non gl'importava più nulla di Giacinto, né di
Grixenda e neppure, quasi, delle padrone; tutto gli sembrava
lontano, sempre più lontano, come se egli si fosse imbarcato e
dal mare grigio e torbido vedesse dileguarsi la terra
all'orizzonte.
Ma ecco don Predu che rientra: è meno grasso di
prima, come vuotatosi alquanto. La catena d'oro pende un poco
sullo stomaco ansante.
Efix s'alzò e non voleva più rimettersi a sedere.
«Bisogna che vada», disse accennando fuori, come
uno che ha da camminare, da andare lontano.
«Tanti affari hai? O vai a qualche festa?»
L'ironia di don Predu non lo pungeva più; tuttavia
l'accenno alla festa lo scosse.
«Sì, voglio andare alla festa di San Cosimo e San
Damiano.»
«Ebbene, andrai! Suppongo che non parti subito.
Siedi: ho da farti una domanda. Stefana, vino!»
Efix però respinse il bicchiere con un gesto di
orrore. Mai più bere, mai più vizi. Da due mesi digiunava e
talvolta quando aveva sete non beveva per penitenza. Sedette
rassegnato tornando a guardarsi le mani; e don Predu, mentre
vigilava verso il cortile perché le serve non origliassero, gli
domandò a mezza voce:
«Dimmi come vanno gli affari delle mie cugine».
Efix sollevò, riabbassò tosto gli occhi; un rossore
fosco gli colorì il viso che pareva arso scarnificato con la
sola pelle aderente al teschio.
«Le mie padrone non hanno più confidenza in me e
non mi dicono più tutti i loro affari. E' giusto. A che dirmeli?
Io sono il servo.»
«Corfu 'e mazza a conca, pagarti però non ti
pagano! Di quest'affare almeno dovrebbero intrattenerti. Quanto
ti devono?»
«Non parliamone, don Predu mio! Non mi mortifichi.»
«Ti mortifichi pure, babbeo! Ebbene senti. Anch'io
vado qualche volta da quelle donne ma non è possibile cavar loro
nulla di corpo. Ester, forse, parlerebbe; ma c'è Noemi dura come
una suola. La prima sera, quando accadde la disgrazia di Ruth e
io passavo là per caso, solo quella sera si confidò. Sfido,
perdio, era l'ora della disperazione. Ma dopo ritornò ostile:
quando vado là mi accoglie bene, ma di tanto in tanto mi guarda
torva, come sia io la causa dei loro malanni. E se Ester apre la
bocca per parlare, ella la fissa così terribile che le toglie la
parola di bocca.»
«Così con me», disse Efix. «Preciso così.»
E provò quasi un senso di sollievo, perchè il
ricordo degli occhi di Noemi lo perseguitava peggio che il suo
rimorso antico.
«Adesso, ascoltami. Visto che da loro non si può
ricavare niente, ho interrogato Kallina. Ma anche lei, malanno
l'impicchi, tace. Sa fare i suoi affari, quella dannata: finge di
credere che Ester ha veramente firmata la cambiale di Giacinto e
solo dice che vuole il fatto suo. So che tu ed Ester siete andati
da lei per cercare di aggiustare le cose e che Kallina ha
rinnovato per tre mesi la cambiale gonfia delle spese di protesto
e di interessi più forti, e ha preso ipoteca sul poderetto e
sulla casa, fune che la strangoli; sì, va bene; ma e adesso, in
ottobre, come farete?»
«Non lo so: non mi dicono nulla.»
«So che Ester gira in cerca di denari: ha un bel
girare; le cadranno gli ultimi denti e non avrà trovato. So che
sarebbe disposta anche a vendere, ma non a me.»
Efix guardava le sue dita e taceva; ma don Predu,
irritato per questa indifferenza, gli batté le mani sulle
ginocchia.
«Che pensi, santo di legno? Ohè, di'?»
«Ebbene, le dirò la verità. Io spero che Giacinto
riesca a pagare.»
Allora don Predu si riversò ridendo sulla sedia, col
petto gonfio, i denti scintillanti fra le labbra carnose. Anche
le sue dita intrecciate alla catena d'oro sul petto parvero
ridere.
Efix lo guardava spaurito, con gli occhi pieni di una
angoscia da bestia ferita.
«Ma se quello muore di fame! L'ho veduto l'altro
giorno. Sembrava un pezzente, con le scarpe rotte. S'ha venduto
anche la bicicletta, non ti dico altro!»
«No, dica! Ha rubato?»
«Rubato? Sei pazzo? Adesso lo calunni anche, quel
fiorellino, quell'angelo dipinto. E cosa ruba? Non è buono
neanche a quello.»
«E... cosa dice? Tornerà?»
«Se gli passa un'idea simile in mente gli rompo i
garetti» disse don Predu, oscurandosi in viso. Ed Efix ebbe a un
tratto l'impressione che finalmente le sue disgraziate padrone
avessero trovato un appoggio, un difensore più valido di lui.
Ah, sia lodato Dio: Egli non abbandona le sue creature. Allora le
sue antiche speranze rifiorirono all'improvviso; che don Predu
sposasse Noemi, che la casa delle sue padrone risorgesse dalle
sue rovine. Ma la sua gioia si spense subito, d'un tratto, come
s'era accesa, e di nuovo egli si trovò nel suo deserto, nel suo
mare, nel suo viaggio misterioso e terribile verso il castigo
divino. Tutte le grandezze della terra, anche se toccavano a lui,
anche se egli diventava re, anche se avesse la potenza di render
felici tutti gli uomini del mondo, non bastavano a cancellare il
suo delitto, a liberarlo dall'inferno. Come rallegrarsi dunque? E
tornò a guardarsi le mani per nasconder l'idea fissa ferma nelle
sue pupille. Don Predu riprese:
«Giacinto non tornerà e tanto meno pagherà, te lo
garantisco io. Ma ricordati quello che ti dissi mille volte; il
poderetto lo voglio io. Pago tutto, io: così vi resta la casa.
Cerca tu di convincerle, quelle teste di legno. Io ti tengo al
mio servizio».
«Perché non parla vossignoria con loro? A me non
danno ascolto. »
«E a me sì, forse? Ho tentato, di parlarne, ma come
col muro. Tu devi convincerle, tu», disse l'uomo con forza,
battendogli di nuovo la mano sul ginocchio. «Se è vero che vuoi
il loro bene l'unico scampo è questo. Tu devi, è il tuo
dovere di aprir loro le pupille, se loro son cieche. Devi,
intendi, o no? Hai il verme nelle orecchie?»
Infatti Efix aveva preso una fisionomia chiusa, da
sordo. Devi?
Minacciava, don Predu? Sapeva qualche cosa, don
Predu? A lui non importava nulla, non aveva paura che
dell'inferno: tuttavia pensava che forse don Predu aveva ragione.
«Come devo fare?»
«Devi mostrarti uomo, una volta tanto. Devi dir loro
che se non vogliono pagarti in denari ti paghino almeno in
riconoscenza. Se il poderetto va in mani di un altro padrone tu
vieni cacciato via come un cane. Allora, sì, così Dio mi
assista, andrai alle feste, coi mendicanti, però!»
Efix trasalì: era quello il suo sogno di penitenza.
Si alzò e disse:
«Farò di tutto. Ma l'unica cosa...».
«L'unica cosa?», domandò l'uomo afferrandogli la
manica. «E siedi, diavolo, e bevi. L'unica cosa?»
Efix si lasciò ricadere sulla sedia; tremava e
sudava e gli pareva di svenire.
«Sarebbe che vossignoria sposasse donna Noemi.»
E don Predu si gonfiò nuovamente di riso. Rideva, ma
teneva fermo Efix, quasi per impedirgli di andarsene.
«Come sei divertente, diavolo! Ti tengo con me tutta
la vita, così mi svaghi quando sono di malumore! Ti faccio
sposare Stefana. E' un po' grassa per te, forse, ma non è
pericolosa, perché i trent'anni li ha passati da un pezzo...»
«Stefana, Stefana», gridò, sempre tenendolo fermo
e volgendo il viso ridente verso la porta, «senti, c'è qui un
pretendente.»
La donna s'affacciò, nera, col ventre gonfio, il
seno gonfio e il viso severo come quello d'una dama. Efix la
guardò un attimo, supplichevole.
«Don Predu ha voglia di ridere.»
«Brutto segno, quando egli ha voglia di ridere:
altri devono piangere», disse la donna, sfidando lo sguardo del
padrone: e dietro di lei sorrideva, pallida enigmatica, con la
lunga bocca serrata e come fermata da due fossette, Pacciana
l'altra serva.
«Io ti dico che tu sposerai Efix, Stefana. Adesso
dici di no, ma poi dirai di sì. Che c'è da ridere?»
«Il riso sardonico!», imprecò dietro Pacciana, a
voce bassa. E urtò Stefana per incitarla a rispondere male al
padrone. Ma la donna era troppo dignitosa per proseguire nello
scherzo; e non aprì bocca finché il padrone ed Efix non
uscirono assieme.
Allora le due serve cominciarono a parlar male delle
cugine del padrone.
«Quando vado là, col regalo entro il cestino, mi
accolgono come se vada a chieder loro l'elemosina. E invece la
porto loro, io! Non vedi che viso da affamato ha Efix? Da
vent'anni non lo pagano e adesso non gli danno neppure da
mangiare. Eppure, hai sentito il nostro padrone come s'inalbera
quando gli si accenna alle sue cugine?»
«I tempi cambiano: anche i puledri invecchiano»,
sentenziò Stefana; ma entrambe sentivano qualche cosa di nuovo,
di grave, pendere sul loro destino di serve senza padrona.
Intanto don Predu accompagnava Efix, su, su, per la
straducola lavata dalle ultime piogge.
L'erba rimaneva lungo i muri delle case deserte. Un
silenzio dolce profondo avvolgeva tutte le cose; nuvole gialle si
affacciavano stupite sul Monte umido, e dall'alto del paese,
davanti al portone delle dame, si vedeva la pianura coperta di
giunchi dorati, e il fiume verde fra isole di sabbia bianca. Il
silenzio era tale che s'udivano le donne a sbattere i panni
laggiù, sotto il pino solitario della riva. La vecchia Pottoi
ferma sulla sua soglia guardava, con una mano appoggiata al muro
e l'altra sopra gli occhi: sembrava decrepita, piccola, con i
gioielli ancora più vistosi e lugubri sul suo corpo
ischeletrito.
«Che fate?», salutò don Predu.
«Aspetto Grixenda mia ch'è andata al fiume. Io non
volevo, a dire il vero, perché il ragazzo, il nipote di
vossignoria, glielo ha proibito, e se viene a saperlo si offende;
ma Grixenda mia fa sempre di sua testa.»
«Che, vi ha scritto, Giacinto?»
«A chi? Scritto? Mai, ha scritto: non si sa nulla,
di lui, ma deve tornare certo, perché l'ha promesso.»
«Già, tornano anche i morti, dite voi!»
Ma la vecchia si volse ad Efix che stava lì a testa
bassa e fissava il selciato.
«Non lo ha detto a te che la sposa? Dillo su, l'ha
detto o no?»
Efix la guardò un attimo, come aveva guardato
Stefana, e non rispose.
«Quello che mi dispiace è il rancore delle dame»,
disse la vecchia, guardando di nuovo laggiù. «A noi ci
scacciano, e solo Zuannantoni può qualche volta entrare nella
loro casa più chiusa del Castello ai tempi dei Baroni: hanno
perdonato a Kallina, peste la secchi, e a noi no. Nostra Signora
del Rimedio le aiuti. Ma quando il ragazzo tornerà tutto andrà
bene: lo disse anche donna Noemi.»
I due uomini s'allontanarono; ma la vecchia richiamò
indietro don Predu e gli disse sottovoce:
«Non potrebbe farmi un favore? Dire lei a Grixenda
che non vada al fiume? Non è dignitoso per lei, che deve sposare
un signore».
Don Predu aprì le grosse labbra per ridere e dire
una delle sue solite insolenze; ma abbassò gli occhi sulla
vecchia tremante, guardò la collana e gli orecchini che
oscillavano, e anche lui si toccò la catena d'oro e s'oscurò in
viso come quella sera quando aveva veduto la spalla del nipote
tremare.
Raggiunse Efix e si fermarono davanti al portone
chiuso delle dame. Le ortiche crescevano sui gradini. Don Predu
ricordava ogni volta Noemi lì ferma ad attendere, nell'ombra.
«Bene, allora restiamo intesi? Tu devi fare come ti
dico io, intendi?»
«Inteso ho. Farò di tutto», disse Efix.
Picchiò, ma nessuno apriva. E don Predu stava lì, a
toccarsi la catena e a guardare giù verso il fiume quasi anche
lui aspettasse qualcuno.
«Oh che son morte anche loro?»
«Donna Ester sarà in chiesa e donna Noemi forse
sarà coricata. »
«Perché, sta male?»
«Mah! Da qualche tempo, ogni volta che torno la
trovo coricata. Ha mal di testa.»
«Oh, oh, bisognerebbe farla uscire, prendere un po'
d'aria.»
«Questo penso anch'io; ma dove?»
Don Predu guardava laggiù, verso il fiume: il suo
viso sembrava diverso, sembrava quasi bello, triste e distratto
come quello del nipote.
«Eh, dico, si può andare in qualche posto; a Badde
Saliche, anche, il mio podere verso il mare; c'è ancora un po'
d'uva bianca...»
Il viso di Efix s'illuminò; ed egli volle dire
qualcosa, ma dentro si sentiva aprire il portone, e don Predu si
allontanò senza voltarsi, cercando di nascondersi lungo il muro.