Nei tempi di carestia, cioè nelle settimane che
precedevano la raccolta dell'orzo, e la gente, terminata la
provvista del grano, ricorre all'usura, la vecchia Pottoi andava
a pescare sanguisughe. Il suo posto favorito era una insenatura
del fiume sotto la Collina dei Colombi presso il poderetto
delle dame Pintor.
Stava là ore ed ore immobile, seduta all'ombra di un
ontano, con le gambe nude nell'acqua trasparente verdognola
venata d'oro; e mentre con una mano teneva ferma sulla sabbia una
bottiglia, con l'altra si toccava la collana.
Di tanto in tanto si curvava un poco, vedeva i suoi
piedi ondulare grandi e giallastri entro l'acqua, ne traeva uno,
staccava dalla gamba bagnata un acino nero lucente che vi si era
attaccato, e lo introduceva nella bottiglia spingendovelo giù
con un giunco. L'acino s'allungava, si restringeva, prendeva la
forma di un anello nero: era la sanguisuga.
Un giorno, verso la metà di giugno, ella salì fino
alla capanna di Efix. Faceva un gran caldo e la valle era tutta
gialla sotto il cielo d'un azzurro velato.
Il servo intrecciava una stuoia, all'ombra delle
canne, con le dita che tremavano per la febbre di malaria;
vedendo la vecchia che gli si sedeva ai piedi con la bottiglia in
grembo, sollevò appena gli occhi velati e attese rassegnato,
quasi sapesse già quello che ella voleva da lui.
«Efix, sei un uomo di Dio e puoi parlarmi con la
coscienza in mano. Che intenzioni ha il tuo padroncino? Egli
viene a casa mia, si mette a sedere, dice al ragazzo: suona la
fisarmonica (gliel'ha regalata lui), poi dice a me: manderò zia
Ester, a chiedervi la mano di Grixenda; ma donna Ester non si
vede, e un giorno che io sono andata là, donna Noemi mi ha preso
viva, e morta m'ha lasciata, tanti improperi mi ha detto. Tornata
poi a casa, Grixenda m'ha anche lei mancato di rispetto, perché
non vuole che vada dalle tue padrone. Io non so da qual parte
rivolgermi, Efix; non siamo noi che abbiamo chiamato il ragazzo
dalla strada: è venuto lui. Kallina mi dice: cacciatelo fuori.
Ma lei lo caccia fuori, quando ci va?»
Efix sorrise.
«Là non va certo per far all'amore!...»
Allora la vecchia sollevò irritata il viso e il suo
collo parve allungarsi più del solito, tutto corde.
«E in casa mia viene forse a far all'amore? No; egli
è un ragazzo onesto. Neppure tocca la mano a Grixenda. Essi si
amano come buoni cristiani, in attesa di sposarsi. Dimmi in tua
coscienza, Efix, che intenzioni ha? Fammi questa carità, per
l'anima del tuo padrone.»
Efix diventò pensieroso.
«Sì, una sera, alla festa, egli mi disse: la
sposerò... In mia coscienza credo però che egli non possa.»
«Perché? Egli non è nobile.»
«Non può, ripeto, donna!», disse Efix con più
forza.
«Per denari ne ha, questo si vede. Spende senza
contare. E il tuo padrone morto diceva, mi ricordo, quando anche
lui veniva a sedersi a casa mia ed era giovane e viveva mia
nonna: l'amore è quello che lega l'uomo alla donna, e il denaro
quello che lega la donna all'uomo.»
«Lui? Diceva così? A chi?»
«A me, sei sordo? Sì a me. Ma io avevo quindici
anni ed ero senza malizia. Mia nonna cacciò via di casa don Zame
e mi fece sposare Priamu Piras. E Priamu mio era un valent'uomo:
aveva un pungolo con una lesina in cima e mi diceva,
avvicinandomelo agli occhi: vedi? ti porto via la pupilla viva se
guardi don Zame quando ti guarda. Così passò il tempo. Ma i
morti ritornano: eccoli, quando don Giacintino sta seduto sullo
sgabello e Grixenda sulla soglia della porta, mi par di essere io
e il beato morto...»
Quando ella incominciava a divagare così non la
finiva mai, ed Efix che lo sapeva la mandò via infastidito.
«Andate in pace! Cercate anche voi un uomo con un
buon pungolo, per nipote vostra!»
E la vecchia contenta di sapere che il ragazzo una
sera alla festa aveva detto: «la sposerò» andò via
senz'altro. Efix rimase solo in faccia alla luna rossa che saliva
tra i vapori cinerei della sera, ma si sentiva inquieto: nel
sopore in cui tutta la valle era immersa, il mormorio dell'acqua
gli pareva il ronzio della febbre, e che i grilli stessi col loro
canto si lamentassero senza tregua.
No, la vita che Giacinto conduceva non era quella di
un giovane onesto e timorato di Dio: giorno per giorno le grandi
speranze fondate su lui cadevano lasciando posto a vere
inquietudini. Egli spendeva e non guadagnava; ed anche il pozzo
più profondo, pensava Efix, ad attingervi troppo si secca.
Qualche sera Giacinto scendeva al poderetto per
portare in paese le frutta e gli ortaggi che le zie poi vendevano
a casa di nascosto come roba rubata, poiché non è da donne
nobili far le erbivendole, e tutto questo era quanto di più
utile egli faceva: il resto del tempo lo passava oziando di qua e
di là per il paese. Ma eccolo che vien su per il sentiero
trascinandosi a fianco come un cane la bicicletta polverosa:
arriva ansante quasi venga dall'altro capo del mondo e dopo aver
gettato da lontano un involto al servo si butta per terra lungo
disteso come morto.
E di un morto aveva il viso pallido, le labbra
grigie; ma un tremito gli agitava la spalla sinistra, tanto che
Efix spaventato trasse di tasca un tubetto di vetro, fece cadere
sulla palma della mano due pastiglie di chinino e gliele mise in
bocca.
«Mandale giù. Hai la febbre!»
Giacinto ingoiò le pastiglie e senza sollevarsi si
strinse la testa fra le mani.
«Come sono stanco, Efix! Sì, ho la febbre: l'ho
presa, sì! Come si fa a non prenderla, in questo maledetto
paese? Che paese!», aggiunse come parlando fra sé, stanco. «Si
muore: si muore...»
«Alzati», disse Efix, curvo su lui. «Non star lì:
l'aria della sera fa male.»
«Lasciami crepare, Efix! Lasciami! Che caldo! Non ho
mai conosciuto un caldo simile: almeno da noi si facevano i
bagni...»
Che dirgli, per confortarlo? «Perché non sei
rimasto là?» Efix sentiva troppa pietà di tanta miseria
prostrata davanti a lui, per parlare così.
«Che hai fatto oggi?», domandò sottovoce.
«E cosa vuoi che faccia? Non ce niente da fare!
Scender qui a portarti il pane, tornar là a portare l'erba! E loro
che vivono come tre mummie! Zia Noemi oggi però s'e inquietata
un poco, perché zia Ester mi diceva che non riesce a metter su i
denari per l'imposta. Si capisce! Spendono per me, e da me non
vogliono niente! Io dissi a zia Ester: non preoccupatevi, andrò
io dall'esattore. - Una furia, zia Noemi! Aveva gli occhi come un
gatto arrabbiato. Non la credevo così collerica. Ebbene, mi
disse persino: coi tuoi denari, se ne hai, compra un'altra
fisarmonica a Grixenda. Che male c'è, Efix, s'io vado da quella
ragazza? Dove si va, se no? Zio Pietro mi porta alla bettola, e a
me non piace il vino, lo sai; il Milese vuole che io giochi
(così s'è fatto la fortuna, lui!) ed a me non piace giocare.
Vado là, dalla ragazza, perché è buona, e la vecchia dice cose
divertenti. Che male c'è, dimmi. Dimmi?»
Lo guardava di sotto in su, supplichevole, con gli
occhi dolci lucidi alla luna. Efix aveva preso l'involto del
pane, ma non poteva mangiare; sentiva la gola stretta da
un'angoscia profonda.
«Nessun male! Ma la ragazza, benché buona, è
povera e non è degna di te.»
«L'amore non conosce né povertà né nobiltà.
Quanti signori non han sposato ragazze povere? Che ne sai tu?
Più di un lord inglese, più di un milionario d'America han
sposato serve, maestre, cantanti... perché? Perché amavano. E
quelli son ricchi: sono i re del petrolio, del rame, delle
conserve! Chi sono io, al loro confronto? E le donne? Le
principesse russe, le americane, chi sposano? Non s'innamorano di
poveri artisti e persino dei loro cocchieri e dei loro servi? Ma
tu che cosa puoi sapere?»
Efix stringeva fra le mani un pezzo di pane e gli
sembrava di stringere il suo cuore tormentato dai ricordi.
«Eppoi dicono di credere in Dio, loro! Perché non
mi lasciano sposare la donna che amo?»
«Taci, Giacinto! Non parlare così di loro! Esse
vogliono il tuo bene.»
«Allora mi lascino formare la mia famiglia. Io,
magari, porterò Grixenda in casa loro ed essa le aiuterà. Ormai
esse sono vecchie. Io lavorerò. Andrò a Nuoro, comprerò
formaggio, bestiame, lana, vino, persino legna, sì: perché
adesso, con la guerra, tutto ha valore. Andrò a Roma e offrirò
la merce al Ministero della Guerra. Sai quanto c'è da
guadagnare?»
«Ma! E i capitali?»
«Non ci pensare, li ho. Basta mi lascino in pace, loro.
Io non sono venuto per sfruttarle né per vivere alle loro
spalle. Ah, ma zia Noemi è terribile!», egli gemette a un
tratto, nascondendosi il viso fra le mani. «Ah, Efix, sono così
amareggiato! Eppoi mi fa tanta vergogna vederle così misere;
vederle vender di nascosto le patate, le pere e i pomi ai bambini
che entrano piano piano nel cortile, col soldo nel pugno, e
domandando la roba sottovoce quasi si tratti di cosa rubata! Mi
vergogno, sì! Questo deve cessare. Esse torneranno quelle che
erano, se mi lasceranno fare. Se zia Noemi sapesse il bene che le
voglio non farebbe così...»
«Giacinto! Dammi la mano: sei bravo!», disse Efix
commosso.
Tacquero, poi Giacinto riprese a parlare con una voce
tenue, dolce, che vibrava nel silenzio lunare come una voce
infantile.
«Efix, tu sei buono. Ti voglio raccontare una cosa
accaduta ad un mio amico. Era impiegato con me alla Dogana. Un
giorno un ricco capitano di porto in ritiro, un buon signore
grosso ma ingenuo come un bambino, venne per fare un pagamento.
Il mio amico disse: Lasci i denari e torni più tardi per la
ricevuta che dev'essere firmata dal superiore. Il capitano
lasciò i denari; il mio amico li prese, andò fuori, li giocò e
li perdette. E quando il capitano tornò, il mio amico disse che
non aveva ricevuto nulla! Quello protestò, andò dai superiori;
ma non aveva la ricevuta e tutti gli risero in faccia. Eppure il
mio amico fu cacciato via dal posto... sì, saranno quattro
mesi... sì, ricordo, in carnevale. Egli andò a ballare. Si
stordiva, beveva: non aveva più un soldo. Uscendo dal ballo
prese una polmonite e cadde su una panchina di un viale. Lo
portarono all'ospedale. Quando uscì, debole e sfinito, non aveva
casa, non aveva pane. Dormiva sotto gli archi del porto, tossiva
e faceva brutti sogni: sognava sempre il capitano che lo
inseguiva, lo inseguiva... come nelle scene del cinematografo. Ed
ecco una sera, ecco proprio il capitano che va a cercarlo sotto
gli archi del porto. L'amico credeva di sognare ancora; ma
l'altro gli disse: sa, è da un pezzetto che la cerco. So che è
fuori di posto per via del versamento, ma a me preme che i suoi
superiori e tutti sappiano la verità. E' meglio anche per lei:
dica in sua coscienza: li ho versati o no, i denari? - L'amico
rispose: sì. - Allora il capitano disse: - Cerchiamo di
aggiustare le cose. Io non voglio rovinarla: venga a casa mia,
ecco il mio indirizzo: venga domani e assieme andremo dai suoi
superiori. - Va bene! Ma l'indomani né poi l'amico andò. Aveva
paura. Aveva paura. Eppoi il tempo era orribile ed egli non si
muoveva di là. Tossiva e un facchino gli portava di tanto in
tanto un po' di latte caldo. Che tempo era? Che tempo!», ripeté
Giacinto, e sollevò il viso guardandosi attorno quasi per
accertarsi che la notte era bella.
Efix ascoltava, col gomito sul ginocchio e il viso
sulla mano, come i bambini intenti alle fiabe.
«Ma un giomo mi decisi e andai...»
Silenzio. Il viso dei due uomini si coprì d'ombra ed
entrambi abbassarono gli occhi. La spalla di Giacinto tremava
convulsa; ma egli la sollevò e la scosse come per liberarsi dal
tremito, e riprese con voce più dura:
«Sì, ero io, tu avevi capito. Andai dal capitano.
Non era in casa, ma la cameriera, una ragazza pallida che parlava
sottovoce, mi fece aspettare in anticamera. La stanza era quasi
buia, ma ricordo che quando un uscio s'apriva il pavimento rosso
luccicava come lavato col sangue. Aspettai ore ed ore. Finalmente
il capitano tornò; era con la moglie, grossa come lui, bonaria
come lui. Sembravano due bambini enormi; ridevano rumorosamente.
La signora aprì gli usci per vedermi bene: io tossivo e
sbadigliavo. Si accorsero che avevo fame e m'invitarono ad
entrare nella sala da pranzo. Io, ricordo, mi alzai, ma ricaddi
seduto battendo la testa alla spalliera della cassapanca. Non
ricordo altro. Quando rinvenni ero a letto, in casa loro. La
cameriera mi portava una tazza di brodo su un vassoio d'argento e
mi parlava con grande rispetto. Rimasi là più di un mese, Efix,
capisci: quaranta giorni. Mi curarono, cercarono di rimettermi a
posto; ma il posto era difficile trovarlo perché tutti ormai
sapevano la mia storia. D'altronde anch'io volevo andarmene
lontano, al di là del mare. Ciò che io ho sofferto durante quel
tempo nessuno può saperlo: il capitano, sua moglie, la serva io
li vedo sempre in sogno; li vedo anche nella realtà, anche
adesso, lì, davanti a me. Essi erano buoni, ma io vorrei
sprofondarmi per non vederli più. E il peggio è che non potevo
andarmene da casa loro. Stavo lì, istupidito, seduto immobile ad
ascoltare la signora che parlava parlava parlava, o in compagnia
della serva che taceva: sedevo a tavola con loro, li sentivo
scherzare, far progetti per me, come fossi un loro figliuolo, e
tutto mi dava pena, mi umiliava, eppure non potevo
andarmene. Finalmente un giorno la signora, vedendomi
completamente guarito, mi domandò che intenzioni avevo. Io dissi
che volevo venire qui dalle mie zie, di cui avevo parlato come di
persone benestanti. Allora mi comprarono il biglietto per il
viaggio e mi regalarono anche la bicicletta. Io capii ch'era
tempo d'andarmene e partii: venni qui. Che liberazione, in
principio! Ma adesso, in casa delle zie, sono ancora come là...
e non so...».
Un grido che aveva qualche cosa di beffardo
attraversò il silenzio del ciglione, sopra i due uomini, e
Giacinto balzò sorpreso credendo che qualcuno avesse ascoltato
il suo racconto e lo irridesse: ma vide una piccola forma grigia
lunga, seguita da un'altra più scura e più corta, balzare come
volando da una macchia all'altra intorno alla capanna e sparire
senza neppur lasciargli tempo di raccattare un sasso per
colpirla.
Anche Efix s'era alzato.
«Son le volpi», disse sottovoce. «Lasciale
correre: fanno all'amore. Sembrano folletti, alle volte» riprese
mentre Giacinto si buttava di nuovo per terra silenzioso. «Hai
veduto com'eran lunghe? Mangiano l'uva acerba come diavoli...»
Ma Giacinto non parlava più. Ed Efix non sapeva cosa
dire, se pregarlo di riprendere il racconto, se confortarlo, se
commentare in bene o in male quanto aveva sentito. Ecco perché
era stato triste, tutto il giorno, ecco come vanno le cose della
vita! Ma che dire? In fondo era contento che il passaggio delle
volpi avesse fatto tacere Giacinto; tuttavia qualche cosa
bisognava pur dire.
«Dunque... quel capitano? Si vede che era uomo
savio: capiva che la gioventù... la gioventù... è soggetta
all'errore... Eppoi quando si è orfani! Su, alzati; vuoi
mangiare?»
Entrò nella capanna e tornò sbucciando una cipolla:
Giacinto stava immobile, abbattuto, forse pentito della sua
confessione, ed egli non osò più parlare.
L'odore della cipolla si mischiava al profumo delle
erbe intorno, della vite e della salsapariglia; le volpi
ripassarono. Efix cenò ma il pane gli parve amaro. E due o tre
volte tentò di dire qualche cosa; ma non poteva, non poteva; gli
sembrava un sogno. Finalmente scosse Giacinto, tentò di
sollevarlo, gli disse con dolcezza:
«Su, vieni dentro! La febbre è in giro...».
Ma il corpo del giovine sembrava di bronzo, steso
grave aderente alla terra dalla quale pareva non volesse più
staccarsi.
Efix rientrò nella capanna, ma tardò a chiudere gli
occhi, e anche nel sonno aveva l'idea tormentosa di dover
commentare il racconto di Giacinto, non sapeva però come, se in
bene o in male.
«Devo dirgli: ebbene, coraggio, ti emenderai! Dopo
tutto eri un ragazzo, un orfano...»
Ma sognò Noemi che lo guardava coi suoi occhi
cattivi, e gli diceva sottovoce, a denti stretti:
«Lo vedi? Lo vedi che razza di uomo è?».
Si svegliò con un peso sul cuore; benchè fosse
notte ancora si alzò, ma Giacinto se n'era già andato.
Per molti giorni non si lasciò più vedere, tanto
che Efix cominciò a inquietarsi, anche perché gli ortaggi e i
pomi si ammucchiavano all'ombra della capanna e nessuno veniva a
prenderli.
Ogni sera don Predu, che possedeva grandi poderi
verso il mare, passava di ritorno al paese, e se vedeva il servo
tendeva l'indice verso la terra delle sue cugine e poi si toccava
il petto per significare che aspettava l'espropriazione e il
possesso del poderetto; ma Efix, abituato a quella mimica,
salutava, e a sua volta accennava di no, di no, con la mano e con
la testa.
Dopo la confessione di Giacinto s'inquietava però
vedendo don Predu; gli sembrava più beffardo del solito.
Una sera aspettò accanto alla siepe, e gli chiese:
«Don Predu, mi dica, ha veduto il mio padroncino?
L'altra sera venne qui che aveva la febbre e adesso sto in
pensiero per lui».
Don Predu rise, dall'alto del cavallo, col suo riso
forzato a bocca chiusa, a guance gonfie.
«Ieri sera l'ho veduto a giocare dal Milese. E
perdeva, anche!»
«Perdeva!», ripeté Efix smarrito.
«Come lo dici! Vuoi che vinca sempre?»
«A me disse che non giocava mai...»
«E tu lo credi? Non dice una verità neanche se gli
dai una fucilata. Ma non è cattivo: dice le bugie, così perché
gli sembran verità, come i bambini.»
«Come un bambino davvero...»
«Un bambino che ha tutti i denti però! E come
mastica! Vi mangerà anche il poderetto. Efix, ricordati: son qua
io! Se no, bastonate...»
Efix lo guardava dal basso, spaurito; e il grosso
uomo a cavallo gli sembrava, nel crepuscolo rosso, un uccello di
malaugurio, uno dei tanti mostri notturni di cui aveva paura.
«Gesù, salvaci. Nostra Signora del Rimedio, pensa a
noi...»
Don Predu s'era già allontanato, quando Efix lo
raggiunse nello stradone porgendogli con tutte e due le mani un
cestino colmo di pomi e di ortaggi.
«Don Predu, mandi questo con la sua serva alle mie
padrone. Io non posso abbandonare il poderetto... e don Giacinto
non viene...»
Da prima l'uomo lo guardò sorpreso; poi un sorriso
benevolo gli increspò le labbra carnose. Sollevò una gamba e
disse:
«Guarda lì, c'è posto».
Efix cacciò il cestino entro la bisaccia, e mentre
don Predu andava via senza dir altro, se ne tornò su alla
capanna: aveva paura che le padrone lo sgridassero; sapeva d'aver
commesso un atto grave, forse un errore; ma non si pentiva. Una
mano misteriosa lo aveva spinto, ed egli sapeva che tutte le
azioni compiute così, per forza sovrannaturale, sono azioni
buone.
Aspettò Giacinto fino al tardi. La luna piena
imbiancava la valle, e la notte era così chiara che si
distingueva l'ombra d'ogni stelo. Persino i fantasmi, quella
notte, non osavano uscire, tanta luce c'era: e il mormorio
dell'acqua era solitario, non accompagnato dallo sbatter dei
panni delle panas. Anche i fantasmi avevan pace, quella
notte. Il servo solo non poteva dormire. Pensava alla storia di
Giacinto e del capitano di porto, e provava un senso d'infinita
dolcezza, d'infinita tristezza.
Tutti, nel mondo, pecchiamo, più o meno, adesso, o
prima o poi: e per questo? Il capitano non aveva perdonato?
Perché non dovevano perdonare anche gli altri? Ah, se tutti si
perdonassero a viceversa! Il mondo avrebbe pace: tutto sarebbe
chiaro e tranquillo come in quella notte di luna.
S'alzò e andò a fare un giro nel poderetto. Sì,
sul sentieruolo bianco si disegnava anche l'ombra dei fiori: le
foglie dei fichi d'India avevano le spine, nell'ombra, e dove
l'acqua era ferma, giù al fiume, si vedevano le stelle.
Ma ecco un'ombra che si muove dietro la siepe, fra
gli ontani: è un animale deforme, nero, con le gambe d'argento:
scricchiola sulla sabbia, si ferma.
Efix corse giù; gli sembrava di volare.
«Sei tu! Sei tu? M'hai spaventato.»
Giacintino si tirò a fianco la bicicletta e lo
seguì silenzioso; ma ancora una volta, arrivati davanti alla
capanna si buttò a terra gemendo:
«Efix. Efix, non ne posso più... Che hai fatto! Che
hai fatto! ».
«Che ho fatto?»
«Non so bene neppur io. E' venuta la serva di zio
Pietro, portando un cestino, dicendo che lo avevi consegnato tu
al suo padrone. C'erano zia Ruth e zia Noemi in casa, poiché zia
Ester era alla novena: presero il cestino e ringraziarono la
serva, e le diedero anche la mancia; ma poi zia Noemi fu colta da
uno svenimento. E zia Ruth la credeva morta, e gridò. Corsero a
chiamare zia Ester; ella venne spaventata, e per la prima volta
anche lei mi guardò torva e mi disse che son venuto per farle
morire. Oh Dio, Dio, oh Dio, Dio! Io bagnavo il viso di zia Noemi
con l'aceto e piangevo, te lo giuro sulla memoria di mia madre;
piangevo senza sapere perché. Finalmente zia Noemi rinvenne e mi
allontanò con la mano; diceva: era meglio fossi morta, prima di
questo giorno. Io domandavo: perché? perché, zia Noemi mia,
perché? E lei mi allontanava con una mano, nascondendosi gli
occhi con l'altra. Che pena! Perché son venuto, Efix? Perché?»
Il servo non sapeva rispondere. Adesso vedeva, sì,
tutto l'errore commesso, consegnando il cestino a don Predu e
pensava al modo di rimediarvi, ma non vedeva come, non sapeva
perché, e ancora una volta sentiva tutto il peso delle disgrazie
dei suoi padroni gravare su lui.
«Sta' quieto», disse infine. «Tornerò io domani
al paese e rimedierò tutto.»
Allora Giacinto riprese
«Tu devi dire alle zie che non son stato io a
consigliarti di incaricare zio Pietro della consegna del cestino.
Esse credono così. Esse credono, e zia Noemi specialmente, che
io cerchi l'amicizia di zio Pietro per far dispetto a loro. Io
sono amico di tutti; perché non dovrei esserlo di zio Pietro? Ma
le zie sanno che egli vuole comprare il poderetto. Che colpa ne
ho io? Sono io che voglio venderlo, forse?»
«Nessuno vuol venderlo. Perché parlare di queste
cose? Ma tu, anima mia, tu... tu l'altra sera dicevi questo,
dicevi quest'altro: promettevi mari e monti, per far felici le
tue zie; e ieri sera, invece, sei andato a giocare...»
«Giocando tante volte si guadagna. Io voglio
guadagnare, appunto per loro: no, non voglio più essere a
carico loro. Voglio morire... Vedi» aggiunse sottovoce «adesso,
dopo la scena di oggi, mi pare di essere ancora nella casa del
capitano... Dio mi aiuti, Efix!»
Efix ascoltava con terrore: sentiva d'essere di nuovo
davanti al destino tragico della famiglia alla quale era
attaccato come il musco alla pietra, e non sapeva che dire, non
sapeva che fare.
«Oh», sospirò profondamente Giacinto. «Ma di qui
me ne vado certo; non aspetto che mi caccino via! Sono senza
carità, le mie zie, specialmente zia Noemi. Non m'importa,
però: essa non ha perdonato mia madre; come può perdonare me?
Ma io, ma io...»
Abbassò la testa e trasse di saccoccia una lettera.
«Vedi, Efix? So tutto. Se zia Noemi non ha perdonato
mia madre dopo questa lettera, come può aver l'animo buono? Tu
lo sai cosa c'è, in questa lettera, l'hai portata tu, a zia
Noemi. Ed io gliel'ho presa: stava sul lettuccio, il giorno del
mio arrivo: io ne lessi qualche riga, poi la presi dall'armadio,
oggi... E' mia; è di mia madre; è mia... Non è degna di stare
là questa lettera...»
«Giacinto! Dammela!», disse Efix stendendo le mani.
«Non è tua! Dammela: la riporterò io, alle mie padrone.»
Ma Giacinto stringeva la lettera fra le palme delle
mani e scuoteva la testa. Efix cercò di prendergliela:
supplicava, pareva domandasse un'elemosina suprema.
«Giacinto, dammela. La riporterò io, la rimetterò
nell'armadio. Parlerò io con loro, metterò pace. Tu aspettami
qui. Ma dammi la lettera.»
Giacinto lo guardò. La sua spalla tremava, ma gli
occhi erano freddi, quasi crudeli. Allora Efix balzò, gli gravò
le mani sulle spalle, gli sibilò all'orecchio una parola.
«Ladro!»
Giacinto ebbe l'impressione di essere assalito da un
avvoltoio; aprì le mani e la lettera cadde per terra.