L'indomani all'alba Efix riportò il cavallo in
paese e raccontò alla padrona giovine il divertimento della sera
prima. Noemi sembrava tranquilla: solo, quando egli ripartì per
il poderetto, corse al portone raccomandandogli di tornare fra
tre giorni per portare provviste alle sorelle.
Dopo tre giorni Efix tornò e per non pagare il nolo
del cavallo si caricò sulle spalle la bisaccia e s'avviò a
piedi.
Il tempo s'era rinfrescato: dai monti del Nuorese
scendeva il venticello dei boschi e correva correva sulle erbe
lungo il fiume e pareva volesse scendere con questo al mare.
Efix sostò al poderetto, presso l'ontano al limite
sabbioso del campo delle angurie, e guardando i tralci carnosi
che correvano avviluppandosi qua e là come serpi sotto le
foglie, gli pareva che avessero, come del resto tutti i cespugli
tremuli intorno, qualche cosa di vivo, di animale. E parlava loro
come lo intendessero, raccomandando loro di non stroncarsi, di
non seccarsi, di crescere bene e dar molto frutto come era loro
dovere; ma un rumore nella strada richiamò la sua attenzione.
Don Predu, fiero e pesante sul suo cavallo nero
grasso, passava dietro la siepe. Cosa insolita, vedendo Efix si
fermò.
«E che facciamo, con questa bisaccia? Sei stato a
rubar fave?»
Efix s'alzò, rispettoso.
«Son le provviste per le mie dame. E lei dove va?»
Anche don Predu andava laggiù. Dalla sua bisaccia a
fiorami usciva l'odore del gattò che portava in regalo al
Rettore suo amico, e il collo violetto di una damigiana di vino.
«E tu vai a piedi, babbeo? Anche il cavallo ti fanno
fare, adesso? Dammi la bisaccia, te la porto. Non scappo, no! Se
vuoi esser più sicuro monta su in groppa anche tu, babbeo!»
Sbalordito, dopo essersi un po' fatto pregare e
minacciare, Efix caricò la bisaccia sul cavallo che pareva si
fosse addormentato, poi montò in groppa alle spalle di don Predu
cercando di farsi leggero.
«Adesso suderà, sì, il cavallo di vossignoria!»
«Così il diavolo mi aiuti, è il cavallo più forte
del Circondario; puoi caricargli su un monte, lo porta. Vedi, va
come non avesse neanche sella. E dimmi, tu, cosa è venuto a
frugare qui quel vagabondo di mio nipote?»
Efix gli fece una smorfia alle spalle. Ah, ecco
perché l'aveva preso!
«Perché, vagabondo? Era impiegato.»
«Che impiego aveva? Contava le ore?»
«Un buon impiego, invece! Nella Dogana. Ma, certo,
per vivere in quei posti ci vuole molto denaro. Ci son signori
che hanno terre quanto è grande la Sardegna e uno fa elemosine
più del re.»
Don Predu si gonfiò tutto dal ridere: una risata
silenziosa, feroce.
«Ah, ecco, ci siamo! Ecco che hai già la testa
piena di vento!»
«Perché parla così, don Predu?», disse Efix con
dignità. «Il ragazzo è sincero, buono: non ha vizi, non fuma,
non beve, non ama le donne. Avrà fortuna. Se vuole ha subito un
posto a Nuoro. Eppoi ha anche denari alla Banca.»
«Tu li hai contati, babbeo? Ah, Efix, in fede mia, a
te danno da mangiare fandonie, invece di pane. Dimmi, quanto ti
devono adesso le tue nobili padrone?»
«Nulla mi devono. Io devo tutto a loro.»
«Zitto, se no ti scaravento dentro il fiume. Senti,
adesso continuerete a far debiti, per mantenere il ragazzo:
prenderete denari da Kallina, il demonio l'affondi. Venderete il
podere. Ricordati che lo voglio io. Se non mi avverti a tempo, se
farete come altre volte che invece di vendere a me per il prezzo
giusto avete venduto a metà agli altri, bada, ti avverto,
Efisè, ti taglio le canne della gola. Sei avvertito.»
L'uomo, dietro, ansava, oppresso da un peso ben più
grave della bisaccia di cui don Predu aveva voluto liberarlo.
«Dio, Signore! Perché parla così, don Predu? Come
un nemico delle sue povere cugine?»
«Al diavolo le cugine e la loro testa piena di
vento! Son loro che mi han trattato sempre da nemico. E nemico
sia. Ma tu ricordati, Efix: il poderetto lo voglio io...»
Il martirio durò tutta la strada, finchè Efix,
stanco più che avesse viaggiato a piedi, scivolò dalla groppa
del cavallo e tirò giù la bisaccia.
Entrando nel recinto rivide la solita scena: le sue
dame sedevano sulla panchina con le mani in grembo, Kallina
filava, coi piedi nudi entro le scarpette a nastri; nell'interno
delle capanne le donne sedute per terra bevevano il caffè,
cullavano i bimbi, e sull'alto del belvedere, sullo sfondo del
cielo dorato, la figura nera di prete Paskale salutava col
fazzoletto turchino.
«Si divertono?», domandò Efix, deponendo la
bisaccia ai piedi delle sue padrone. «E lui?»
«Balliamo sempre», disse donna Ester, e donna Ruth
si alzò per riporre la roba.
Di Giacinto parlò commossa l'usuraia.
«Che giovane affabile! Di poche parole, ma buono
come il miele. Si diverte come un bambino e viene qui a mangiare
il mio pane d'orzo. Eccolo che adesso ritorna con Grixenda dalla
fontana.»
Si vedevano infatti in lontananza, tra il verde delle
macchie, lui alto e verdognolo, lei piccola e nera, tutti e due
con in mano le secchie scintillanti che di tanto in tanto si
toccavano e di cui l'acqua, traboccando, si mischiava e
sgocciolava. E i due pareva provassero piacere a quel contatto
perché guardavano le secchie a testa bassa e ridevano.
Efix ebbe un presentimento. Andò su dal prete a
portargli un cestino di biscotti, regalo di una paesana, e vide
di lassù don Predu, indugiatosi ad abbeverare il cavallo alla
fontana, raggiungere Giacinto e Grixenda e curvarsi a dir loro
qualche cosa. Tutti e tre ridevano, la fanciulla a testa bassa,
Giacinto toccando il collo del cavallo.
«Efix», disse il prete, sbattendosi il fazzoletto
sul petto per togliervi il tabacco, «ecco don Predu. Meno male,
avremo un po' di maldicenza. E il vostro Giacinto è un bravo
ragazzo; viene a messa e alla novena. Ben educato, affabile. Ma
mi raccomando, attenzione!»
Le serve del prete corsero fuori per aiutare don
Predu a scaricar le bisacce, mentre le altre donne affacciavano i
visi pallidi alle porticine e il cane, dopo aver un po' abbaiato,
si slanciava alto davanti al cavallo quasi volesse baciarlo.
«Piano, donne!», disse don Predu. «C'è dentro le
bisacce qualche cosa che si rompe a toccarla, come voi...»
«La tocchi la saetta, don Predu!», imprecò
Natòlia, pur guardandolo con occhi languidi per tentarne la
conquista.
Ah, se le riusciva! Si sarebbe così vendicata di
Grixenda, che si era preso tutto per sé lo straniero.
Grixenda a sua volta sembrava eccitata per l'arrivo
di don Predu.
«Quello, vede», disse sottovoce a Giacinto, mentre
attraversavano il cortile, «quello, suo zio, è un uomo che si
diverte e spende, nelle feste. Non sta melanconico come lei!
Cento lire ha, cento lire butta, così!»
Prese un po' d'acqua con le dita, e gliela buttò sul
viso, senza ch'egli cessasse di sorridere con gli occhi dolci
pieni di desiderio, mostrandole fra le labbra rosee i denti
bianchi quasi volesse morderla.
«Che cosa son cento lire? Io ne ho spese mille in
una notte e non mi sono divertito...»
Grixenda depose la secchia sul sedile, e si gettò
sopra il bambino che le sorrideva dal giaciglio agitando le
gambine in aria e tentando di afferrarsele con le manine sporche:
gli baciò le cosce, affondando le labbra nella carne tenera ove
i solchi segnavano striscioline rosee e viola; lo sollevò in
alto, lo riabbassò fino a terra, lo sollevò ancora, lo fece
ridere, lo portò fuori stringendoselo forte al petto.
Fuori Giacinto s'era messo a sedere a gambe aperte, e
vi dondolava in mezzo le mani, ascoltando Kallina che lo invitava
a mangiare con lei le fave cotte col latte: parlavano piano, come
di cosa grave, ma donna Ruth si affacciò alla porticina con in
mano una coscia d'agnello bianca di grasso col rognone violetto
coperto dal velo, e interruppe il colloquio.
«Bisogna chiamar Efix perché faccia uno spiedo di
legno: Giacintino, va'!»
Grixenda corse lei a chiamare il servo, gli si fregò
addosso come una gattina, gli diede da baciare il bambino.
«Come sono contenta, zio Efix! Stanotte balleremo
ancora! Ma guardate il vostro padroncino: pare faccia la corte a
Kallina!»
Efix la guardava con tenerezza; vide Giacinto
sollevar gli occhi pieni d'amore e di desiderio, e in cuor suo
benedisse i due giovani. Sì, divertitevi, amatevi: alla festa si
va per questo e la festa passa presto...
Seduto all'ombra del muro cominciò a intagliare
lo spiedo: le donne ridevano intorno a lui, Giacinto come sempre
taceva e pareva intento alla voce della fisarmonica che riempiva
di lamenti e di grida il cortile. Ma arrivò Natòlia, dondolando
i fianchi.
«Il mio padrone e don Predu invitano don Giacintino
a pranzo. »
Ed egli si alzò, dopo aver sbattuto bene l'orlo dei
calzoni. Donna Ester lo seguì con gli occhi e guardò a lungo
verso il belvedere, come affascinata dal luccichio dei bicchieri
e del vassoio d'argento che Natòlia agitava lassù come uno
specchio; l'idea che il cugino ricco facesse caso del nipote
povero bastava per renderla felice.
Le donne lodavano Giacinto, e l'usuraia traendo il
filo fra il pollice e l'indice e girando il fuso sul ginocchio
diceva con dolcezza insolita:
«Un ragazzo così docile non l'avevo mai conosciuto.
E bello, poi! Rassomiglia al Barone antico...».
«A chi? Al Barone morto che vive ancora nel
castello?»
Ma donna Ruth si mise l'unghia dell'indice sulla
bocca: non bisognava parlar di morti, alla festa.
«Altro che spirito: è vivo e ha le mani che si
muovono, non è vero, Grixè? Chi? Don Giacintino!»
Ma Grixenda, appoggiata al muro, col bimbo che le
morsicava i bottoni della camicia, guardava anche lei il vassoio
luccicante su nel belvedere, e i suoi occhi parevano affascinati
come quelli della vecchia nonna quando nelle notti di luna
spiavano il passaggio dei folletti giù verso il fiume.
Efix tornò ancora tre giorni dopo. Questa volta
non era solo: quasi tutti quelli del paese scendevano alla festa,
e le donne portavano sul capo vassoi con torte e cestini pieni di
galline legate con nastri rossi.
Gli alberelli intorno erano carichi di frutti acerbi
e la festa pareva si stendesse per tutta la valle.
Arrivando, Efix trovò il recinto intorno alle
capanne già ingombro di carri con tende formate da sacchi e da
lenzuola, e i rivenditori di dolci e di vino dritti accanto ai
loro piccoli banchi all'ombra della chiesa.
Una fila di mendicanti vigilava il sentiero e le loro
figure accovacciate, terree e turchine, alcune con orribili occhi
bianchi, altre con piaghe rosse e tumori violacei, coi petti nudi
come scorticati, con le braccia e le dita brancicanti nerastre
come ramicelli bruciati, si disegnavano fra un cespuglio e
l'altro sulla linea azzurrognola e lattea dell'orizzonte. Ma al
di là l'occhio spaziava sul verde, e i gruppi dei cavalli e dei
puledri rendevano più grandioso il paesaggio.
Il suono della fisarmonica arrivava fin laggiù; il
motivo saltellante e voluttuoso richiamava alla danza, ma a volte
si mutava in lamento, come stanco di gioia, come rimpiangendo il
piacere che passa e gemendo per l'inutilità di tutte le cose:
allora anche l'occhio melanconico delle giumente pareva pieno di
una dolcezza nostalgica.
Efix si fermò un momento in mezzo a un gruppo di
paesani del Nuorese: le donne sedevano in fila davanti alle
capanne, aspettando l'ora della messa cantata, e i loro corsetti
di scarlatto davano un tono rosso all'ombra del muro.
Ma la messa tardava. Su nel belvedere i preti
ridevano e il vassoio di Natòlia passava e ripassava
scintillando fra l'azzurro e il nero.
Efix trovò la capanna deserta: le padrone erano in
chiesa ed egli andò a cercarle, ma si trovò preso in mezzo fra
don Predu, il Milese e Giacinto, davanti a un rivenditore di
vino, e vide tre bicchieri gialli intorno al suo viso.
«Bevi, babbeo!»
«Per me è presto.»
«Non è mai presto per un uomo sano. O sei malato?»
Don Predu gli batté così forte alle spalle che egli
balzò avanti e il vino traboccò dai bicchieri e gli si versò
addosso. Sia tutto per l'amor di Dio! Egli si asciugò le vesti
con la mano e bevette; e con sorpresa e soddisfazione vide
Giacinto trarre il portafogli e porgere al rivenditore un
biglietto da cinquanta lire. Dio sia lodato, vuol dire che il
ragazzo aveva denari davvero.
Del resto fu tutta una giornata di gioia: gioia
composta e quasi melanconica nelle donne, verso le quali gli
uomini, divertendosi rumorosamente fra loro, dimostravano una
certa noncuranza.
Tutto il giorno la fisarmonica suonò accompagnata
dai gridi dei rivenditori, dall'urlo dei giocatori di morra, dai
canti corali o dai versi dei poeti estemporanei.
Raccolti entro una capanna, seduti per terra a gambe
in croce intorno a una damigiana verso cui si volgevano come a un
idolo, i poeti improvvisavano ottave pro e contro la guerra di
Libia: eran parecchi e si davano il turno, e intorno a loro si
accalcavano uomini e ragazzi: di tanto in tanto qualcuno si
curvava per prendere di terra un bicchiere di vino.
«Bibe, diauu!»
«Salute!»
«Che possiamo conoscerla cento anni di seguito,
questa festa, sani e allegri.»
«Bibe, forca!»
Il poeta Serafino Masala di Bultei, col profilo greco
e vestito come un eroe di Omero, cantava:
I bicchieri passavano da una mano all'altra;
qualche donna s'affacciava timidamente alla porta.
E Gregorio Giordano di Dualchi, bel giovane rosso
vestito come un trovatore, si lisciava i lunghi capelli con tutte
e due le mani, se li tirava sul collo, e cantava quasi
singhiozzando come una prèfica:
Applausi e risate risuonavano; tutti ridevano ma
erano commossi.
All'ombra della chiesa Efix invece sentiva altri
gruppi di paesani parlare dell'America e degli emigranti.
«L'America? Chi non l'assaggia non sa cosa è. La
vedi da lontano e ti sembra un agnello da tosare: ci vai vicino e
ti morsica come un cane.»
«Sì, fratelli cari, io ci andai con la bisaccia a
metà piena e credevo di riportarla colma; la riportai vuota!»
Un Baroniese smilzo alto e nero come un arabo,
invitò Efix a bere e gli raccontò episodi della guerra, di cui
era reduce.
«Sì», diceva, guardandosi le mani, «ho strappato
il ciuffo ad un Sirdusso, uno che adorava il diavolo. Io
avevo fatto voto di prenderglielo, il ciuffo; di prenderlo
intero, con la pelle e con tutto. E così lo presi, che possiate
vedermi cieco, se mentisco! Lo portai al mio capitano, tenendolo
come un grappolo; sgocciolava sangue nero come acini d'uva nera.
Il capitano mi disse: bravo, Conzinu!»
Efix ascoltava, con in mano una rosellina di macchia.
Si fece il segno della croce con lo stelo del fiore, e disse:
«Ti confesserai, Conzì! Hai ucciso un uomo!».
«Nella guerra non è peccato. E' forse di nascosto?
No.»
Allora cominciarono a discutere, ed Efix guardava la
rosellina come parlando a lei sola.
«Ad uccidere tocca a Dio.»
Ma dovette interrompere la discussione perché da
lontano donna Ester gli accennava di avvicinarsi. Era l'ora del
pasto; Giacinto era invitato dal prete e tutti, chi più chi
meno, mangiavano in buona compagnia. Dalle capanne uscivan nuvole
di fumo odoroso d'arrosto.
L'angolo più tranquillo era quello delle dame.
Sedute nella loro capanna mangiavano con Efix l'arrosto di
agnello e parlavano di Noemi lontana e di Giacinto, del prete e
del Milese, sorridendo senza malizia.
«I primi giorni», disse donna Ruth. tagliando una
piccola torta in tre porzioni eguali, «Giacinto parlava sempre
d'andarsene a Nuoro, ove diceva d'aver un posto nel molino.
Adesso, da due giorni non ne parla più.»
«Ma è che da due giorni non si vede quasi più; e
sempre con Predu e con altri compagni.»
«Lasciamolo divertire», disse Efix.
Fuor dalla porta si vedeva Kallina seduta,
insolitamente oziosa sulla sua pietra, e Grixenda col bambino in
grembo, pallida e triste fissava il belvedere del prete.
Ah, Giacinto si divertiva lassiù, dimentico di lei:
e a lei pareva di star accovacciata sul limite di un deserto,
davanti a un miraggio.
Efix uscì e le disse:
«Perché non ti diverti?»:
Ella accomodò sulla cuffietta del bimbo il nastrino
giallo contro il malocchio, e gli occhi le si riempivano di
lagrime.
«Per me è finito tutto!»
Dalle capanne le parenti la chiamavano:
«Grixenda, vieni! Che dirà tua nonna vedendoti
così magra? Che non ti diamo da mangiare?».
«Eh, bocconi soli ci vogliono», disse Kallina a
Efix, dopo averlo chiamato ammiccando. «Vieni, Efix, bevi un
bicchiere di vernaccia. Sai chi me l'ha regalata? Il tuo
padroncino. Buono come il pane, e affabile: ma senti, bisogna
dirgli che Grixenda non è adatta per lui!»
«E lasciateli divertire! Siamo alla festa!»
«Qui si viene a far penitenza, non a peccare. Sì,
le parenti danno da mangiare a Grixenda, ma non badano ov'essa va
giorno e notte con don Giacinto.»
«E le mie padrone? Non s'accorgono?»
«Loro? Sono come i santi di legno nelle chiese.
Guardano, ma non vedono: il male non esiste per loro.»
«E' vero!», ammise Efix. Bevette, ma si sentì
triste e andò a coricarsi sotto un lentischio della brughiera.
Di là vedeva l'erba alta ondulare quasi seguendo il
motivo monotono della fisarmonica, e i cavalli immobili al sole
come dipinti sullo smalto azzurro dell'orizzonte.
Le voci si perdevano nel silenzio, le figure
sfumavano nella luce: ed eccone una di donna sorgere accanto a un
cespuglio: un'altra di uomo la raggiunge e le si accosta tanto
che formano un'ombra sola.
Efix sentì un brivido alla schiena, eppure staccò
una margheritina, ne masticò lo stelo e guardò senza invidia
Grixenda e Giacinto abbracciati. Dio li benedica e li avvolga
sempre così, di sole e di luce.
Nel pomeriggio la festa fu ancora più animata. Gli
uomini si mostravano più espansivi con le donne, trascinandole
al ballo, e il sole obliquo tingeva di rosa il cortile che
ronzava come un alveare.
Al cader del sole il popolo si raccolse nella chiesa
e migliaia di voci salirono in una sola, fondendosi come fuori si
fondevano i profumi dei cespugli; Efix, inginocchiato in un
angolo, provava la solita estasi dolorosa: e accanto a lui
Grixenda, inginocchiata, rigida come un angelo di legno, cantava
gemendo d'amore.
La luce rossa dei crepuscolo, vinta verso l'altare
dal chiaror dei ceri, copriva la folla come di un velo di sangue,
ma a poco a poco il velo si fece nero, rischiarato appena
dall'oro dei ceri. La folla non si decideva ad uscire, sebbene il
prete avesse finito le sue orazioni, e continuava a cantare
intonando le laudi sacre. Era come il mormorio lontano del mare,
il muoversi della foresta al vespero: era tutto un popolo antico
che andava, andava, cantando le preghiere ingenue dei primi
cristiani, andava, andava per una strada tenebrosa, ebbro di
dolore e di speranza, verso un luogo di luce, ma lontano,
irraggiungibile.
Efix con la testa fra le mani cantava e piangeva.
Grixenda guardava avanti a sé con gli occhi umidi che
riflettevano la fiammella dei ceri, e cantava e piangeva anche
lei. E la pena dell'uno era uguale a quella dell'altra: e la pena
di entrambi era la stessa di tutto quel popolo che ricordava come
il servo un passato di tenebre e sognava come la fanciulla un
avvenire di luce: pena d'amore.
Poi tutto fu silenzio.
Zuannantoni, impaziente di riprendere la fisarmonica,
fu il primo a balzar fuori con la berretta in mano. Ma sulla
porta si fermò, guardò in su e diede un grido. Tutti si
precipitarono a guardare. Era la luna nuova che rasentava il muro
e pareva volesse scender là dentro.
Dopo cena ricominciarono i canti e le grida
attorno ai fuochi: ballava persino don Predu, rendendo felici
tutte le donne che speravano d'esser scelte da lui.
Solo Giacinto non ballava; seduto accanto all'usuraia
faceva dondolar le mani fra le sue ginocchia, pallido e stanco:
intanto Efix sentiva le donne discutere su chi quel giorno aveva
più speso denari e s'era più divertito, e qualcuno diceva:
«E' don Predu».
«No, è don Giacinto. Più di trecento lire, ha
speso. Ma è ricco. Dicono che ha una miniera d'argento; ma come
s'è divertito!»
«Pagava da bere a tutti, anche a chi non
conosceva.»
«Perché lo fa?»
«Oh bella, perché chi ne ha ne spende.»
Efix provava soddisfazione e inquietudine. Sedette
accanto a Giacinto e gli riferì le chiacchiere delle donne.
«Una miniera d'argento? Sì, rende, ma non come una
miniera di petrolio. Una signora che conosco io sognò che in tal
posto ce n'era una, in un terreno d'un signore decaduto. Questi
era così disperato che stava per uccidersi. Ma scavò dove
quella aveva sognato e adesso è così ricco che passa ventimila
lire al mese a una donna...»
«Perché non ha sposato quella del sogno? O aveva
già marito?», domandò Efix pensieroso.
Le donne ballavano: si vedeva Grixenda col viso
acceso ridere come la creatura più folle della festa; ed Efix
mormorò toccando il ginocchio di Giacinto:
«Vossignoria... dicono... guarda quella ragazza...
E' buona, ma è povera. Eppoi anche orfana...».
«La sposerò», disse Giacinto, ma guardava per
terra e pareva sognasse.