Con grande meraviglia di Efix donna Ester
accondiscese alle proposte del cugino. Così il poderetto fu
venduto e la cambiale pagata. Ma avvenne una cosa che destò le
chiacchiere di tutto il paesetto. Efix, pur continuando a stare
al servizio di donna Ester e di donna Noemi, ottenne di coltivare
a mezzadria il poderetto; così portava in casa delle sue padrone
la porzione di frutti che gli spettava. Infine, dicevano le donne
maliziose, da servo era salito al grado di parente, anzi di
protettore delle dame Pintor.
Ciò che più sorprendeva era l'accondiscendenza di
don Predu; ma da qualche tempo sembrava un altro; s'era persino
dimagrito e una voce strana correva, che egli fosse «toccato a
libro», vale a dire ammaliato per virtù di una fattucchieria
eseguita coi libri santi.
Chi aveva interesse a far questo?
Non si sapeva: queste cose non si sanno mai chiare e
precise, e se si sapessero non sarebbero più grandi e
misteriose: il fatto era che don Predu dimagriva, non parlava
più tanto insolentemente del prossimo e infine commetteva la
sciocchezza di comperare un podere senza valore, e col podere il
servo e a questo lasciava tutta la sua libertà.
Stefana e Pacciana dicevano:
«E' un'elemosina ch'egli vuol fare alle sue
disgraziate cugine».
Ma fra loro due, in confidenza, poiché don Predu
continuava a mandare regali e regali alle dame Pintor,
ammettevano che egli, sì, sembrava stregato, e parlavano di Efix
sottovoce: tutto è possibile nel mondo, ed Efix amava le sue
padrone fino al punto di rendersi capace di far per loro qualche
sortilegio. Il suo andirivieni con don Predu destava soprattutto
i sospetti delle serve: Stefana guardò se sotto la soglia ci
fosse qualche oggetto magico nascosto, e Pacciana trovò un
giorno una spilla nera nel letto del padrone... Fatti
straordinari dovevano succedere.
Durante l'inverno le dame Pintor stettero sempre in
casa e non parlarono mai di andare alla Festa del Rimedio, ma a
misura che le giornate si allungavano e l'erba cresceva
nell'antico cimitero, anche donna Ester pareva presa da un senso
di stanchezza, da una malattia di languore come quella che tutti
gli anni a primavera rendeva pallida Noemi: non andava quasi più
in chiesa, si trascinava qua e là per la casa, si sedeva ogni
tanto, con le mani abbandonate sulle cosce, dicendo che le
facevano male i piedi. Nella casa la miseria non era più grave
degli anni scorsi, poiché Efix provvedeva alle cose più
necessarie, ma l'aria stessa pareva impregnata di tristezza.
In quaresima le due sorelle andarono a confessarsi.
Era un bel mattino limpido, sonoro; s'udivano grida di bambini e
tintinnii di greggi giù fra i giuncheti della pianura, e la voce
del fiume, grossa, sempre più grossa, che pareva minacciasse, ma
per scherzo. Sul cielo tutto turchino non una nuvoletta, e l'aria
così trasparente che sulle rocce del Castello si vedevano
scintillare le pietre e una finestra vuota delle rovine
affacciarsi piena d'azzurro fra l'edera che l'inghirlandava.
Prete Paskale era dentro il suo confessionale, e non
intendeva uscirne, sebbene Natòlia l'aspettasse in sagrestia col
caffè e i biscotti in un cofanetto.
Vedendo arrivare le due nuove penitenti, la serva
fece un atto disperato, e pensò che era bene andare a far
riscaldare il caffè dalla sua amica Grixenda. Eccola dunque col
cofanetto sul capo, uscire dietro l'abside, e scendere il
viottolo, fra le macchie di rovo scintillanti di rugiada.
Attraverso la porta aperta della vecchia Pottoi si
vedeva Grixenda china sulla fiamma del focolare a far bollire il
caffè per la nonna ch'era a letto malata.
«Ti secchi ogni giorno di più», disse Natòlia
entrando.
Grixenda infatti era magra e pallida; acerba ancora,
ma come inaridita; certe mosse del collo scarno e del viso
giallastro ricordavano quelle della nonna. Solo gli occhi
brillavano grandi e chiari, pieni di una luce melanconica e
insieme perfida, come l'acqua delle paludi giù fra i giuncheti
della pianura.
«Il caffè mi si raffredda: adesso poi son venute le
tue zie, e diventerà di ghiaccio», disse Natòlia, traendo la
caffettiera dal cofanetto. «Così me ne bevo un po' anch'io.»
«Le mie zie! Che sian fustigate! E tu con loro! Se
vuoteranno tutto il sacco dei loro peccati, certo troverai il tuo
padrone morto di sincope dentro il confessionale...»
«Che lingua! Si vede che t'ha morsicato la vipera.
Prendi un biscotto, eccolo, te l'offro come un fiore per
raddolcirti il cuore...»
Ma Grixenda aveva davvero il cuore attossicato e non
accettava scherzi.
«Se sei venuta per pungermi ti sbagli, Natòlia:
spine tu non ne hai, perché sei l'euforbia, non la rosa. Io non
ho dolori, non ho dispiaceri: son forte come il pino in riva al
fiume. E verrà un giorno che tu mi manderai un'ambasciata per
chiedermi di diventar mia serva.»
«Chi devi sposare? Il barone del castello?»
«Sposerò un vivo, non un morto, i morti ti si
attacchino ai fianchi!»
«Mi pare sii stata tu a stregare don Predu.»
«Se lo voglio, sposo anche don Predu», disse
Grixenda sollevando fieramente il viso tragico infantile, « ma
ho altri pensieri in mente, io!»
Natòlia la guardava e ne sentiva pietà: le sembrava
un po' fuori di sé, l'infelice, e non insisté quindi nel
tormentarla. Prese un altro biscotto e andò a offrirlo a zia
Pottoi nel suo buco. Una striscia di luce pioveva dal tetto della
stanzetta terrena, illuminando il letto ove la vecchia giaceva
vestita e con la collana e con gli orecchini, stecchita e
immobile come un cadavere abbigliato per la sepoltura.
Credendola addormentata Natòlia le sfiorò la mano
che scottava; ma la vecchia l'attirò a sé dicendole sottovoce:
«Senti, Natòlia, mi farai un piacere: va' da Efix
Maronzu e digli che devo parlargli: ma che non lo sappia
Grixenda: va', piccola tortora, va'!».
«E dove lo trovo io, Efix? Sarà in paese?»
«Egli vien su dal poderetto: lo vedo venir su»,
disse la vecchia, mettendosi un dito sulle labbra, perché
Grixenda entrava col caffè.
«Vedi, Natòlia; s'è voluta alzare stamattina, e ha
la febbre alta. Nonna, nonna, tornate sotto le coperte.»
«Tornerò, tornerò: tutti torniamo sotto la
coperta», disse la vecchia, e Natòlia se ne andò con un peso
sul cuore.
Cosa strana, ripassando davanti alla casa delle dame
vide proprio Efix salire su dalla strada solitaria: andava curvo
sotto la bisaccia, così curvo che pareva cercasse qualcosa per
terra.
«La vecchia deve morire e vede già», pensò
Natòlia.
Egli la guardò coi suoi occhi indifferenti come
quelli di un animale, e non disse se sarebbe o no andato dalla
vecchia: saputo che le sue padrone stavano a confessarsi si tolse
la bisaccia, la depose sul gradino e sedette aspettando: le
ortiche gli punsero le mani.
La serva allora tornò in chiesa, e guardò se poteva
dire alle dame che il servo era giunto, - così avrebbero
lasciato libero il prete; ma da una parte del confessionale stava
donna Ester di cui si vedeva il lembo dello scialle venir fuori
come un'ala nera, e dall'altra stava già donna Noemi, col dorso
che ondulava lievemente, a tratti, sotto la stoffa nera opaca, e
un piede lungo e nervoso fuori dalla sottana sollevata.
Le altre penitenti pregavano, di qua e di là nella
chiesa, accovacciate sul pavimento verdastro: un silenzio
profondo, una luce azzurrina, un odore di erba inondavano la
Basilica umida e triste come una grotta; la Maddalena affacciata
alla sua cornice pareva intenta alle voci della primavera che
venivano con l'aria fragrante, e Noemi sentiva anche lei, fin là
dentro, fin contro la grata che esalava un odor di ruggine e di
alito umano, un tremito di vita, un desiderio di morte,
un'angoscia di passione, uno struggimento di umiliazione, tutti
gli affanni, i rimpianti, il rancore e l'ansito della peccatrice
d'amore.
Rientrando videro Efix rialzarsi a fatica
appoggiando la mano allo scalino. Allora Noemi, calda ancora di
pietà e d'amore di Dio, s'accorse per la prima volta che il
servo si era mal ridotto, vecchio, grigio, con le vesti
divenutegli larghe, e tese la mano come per aiutarlo a
sollevarsi. Ma egli era già su e non badava all'atto di lei.
E quando furono dentro e donna Ester domandò notizie
del poderetto come fosse ancora suo, egli rispose alzando le
spalle con rozzezza insolita e andò a lavarsi al pozzo.
Aprile rallegrava anche il triste cortile, le rondini
sporgevano la testina nera dai nidi della loggia guardando le
compagne che volavano basse come inseguendo la loro ombra
sull'erba fitta dell'antico cimitero.
«Efix, mi pare che non stai troppo bene. Tu dovresti
prenderti qualche cosa, o riposarti qualche giorno», disse
Noemi.
«Ah, sì, donna Noemi? Se penso invece di
camminare!»
«Ti dico che stai male: non scherzare. Che hai?»
Egli la guardava con occhi vivi, lucidi, ed era tale
la sua gioia improvvisa che le rughe intorno agli occhi parevano
raggi.
«Invecchio», disse, battendosi le mani una
sull'altra; e d'improvviso la sua gioia se n'andò, com'era
venuta.
Egli era tornato in paese perché don Predu aveva
mandato a chiamarlo: altrimenti non si sarebbe più mosso dal
poderetto. Che poteva la pietà di donna Noemi contro il suo
male? Non faceva che aumentarglielo.
Andò dunque dal nuovo padrone e lo trovò
arrampicato su una scala a piuoli a potar la vite sotto la rete
dei rami del melograno ricamata di foglioline d'oro.
Anche là le rondini s'incrociavano rapide, ma più
alte, sullo sfondo latteo del cielo: entro casa si sentivano le
donne pulire le stanze e mettere tutto in ordine per la Pasqua, e
una grande pace regnava intorno.
Efix non dimenticò più quei momenti. Era partito
dal poderetto con la certezza che qualche cosa di straordinario
doveva succedere; ma guardando in su ai piedi della scala gli
pareva che don Predu fosse anche lui triste, quasi malato, ed
esitasse a scendere, con la falciuola scintillante in una mano e
nell'altra il tralcio di vite dalla cui estremità violacea
stillavano come da un dito tagliato gocce di sangue.
«Aspetta che finisco: o hai fretta d'andartene?»,
disse don Predu, ma subito si riprese, parve ricordarsi, e scese
pesantemente, lasciando che Efix tirasse in là la scala.
«Ecco», cominciò, quando furono nella stanza
terrena piena di sole e d'ombra di rondini, «ecco, io ti devo
dire una cosa...», ed esitava guardandosi le unghie, «ecco, io
voglio sposare Noemi.»
Efix cominciò a tremare così forte che la mano, sul
tavolo, pareva saltasse. Allora don Predu si mise a ridere del
suo riso goffo e cattivo d'altri tempi.
«Non la vorrai sposare tu, credo! Ti serbo Stefana,
lo sai!»
Efix taceva: taceva e lo guardava, e i suoi occhi
erano così pieni di passione, di terrore, di gioia, che don
Predu si fece serio. Ma tentava ancora di scherzare.
«Perché ti turbi tanto? Speri che io ti paghi
quello che ti devono? No, sai: tu ti aggiusti con Ester; io non
ho che vederci. Eppoi c'è una cosa...»
Si raschiò con l'unghia una macchia del corpetto,
guardandoci su attentamente.
«Mi vorrà, poi?»
«Ah! Che dice!», balbettò Efix.
«Non esser tanto sicuro! Oh, adesso parliamo sul
serio. Ho pensato bene prima di decidermi: lo faccio, credi pure,
più per dovere che per capriccio. Che aspetto? Dove vado? Alla
mia età una donna molto giovane non mi conviene. Ma questo non
importa: insomma ho deciso. Ebbene, non te lo nego: Noemi è
bella e mi piace, m'è sempre piaciuta, a dirti la verità. Mah!
Che vuoi! La vita passa e noi la lasciamo passare come l'acqua
del fiume, e solo quando manca ci accorgiamo che manca. Mah,
lasciami stare» aggiunse, battendosi le mani sulle ginocchia e
poi alzandosi e poi rimettendosi a sedere. «Quello che adesso
importa è di sapere se Noemi accetta. Io farò la domanda come
si conviene; le manderò prete Paskale, o il dottore o chi vuole;
ma non voglio prendermi un rifiuto, eh, così Dio mi assista,
questo no, perbacco! Tu intendi, Efix?»
Efix intendeva benissimo, e accennava di sì, di sì,
col capo, con gli occhi scintillanti.
«Devo parlar io, con donna Noemi?»
Don Predu gli batté una mano sulle ginocchia.
«Bravo! E' questo. E prima è, meglio è, Efix!
Queste cose non bisogna lasciarle inacidire. Le dirai: "Chi
si deve mandare per la domanda ufficiale? Prete Paskale, o la
sorella, o chi?". Se lei dice di non mandare nessuno, tanto
meglio, in fede di cristiano, tanto meglio! Eppoi le cose le
faremo presto e senza chiasso: non siamo più due ragazzetti. Che
ne pensi? Io ho quarantotto anni a settembre, e lei sarà sui
trentacinque, che ne dici? Tu sai la sua età precisa? Oh, poi le
dirai che non si dia pensiero di nulla: la casa è pronta, le
serve ci sono; pettegole, sì, ma ci sono, e pagate bene. La
biancheria c'è, tutto c'è. Le provviste non mancano, eh, così
Dio la conservi! Basta, di queste cose poi parleremo con Ester.
Solo mi dispiace... Ebbene, te lo posso dire: che Ruth sia morta
così... Forse anche lei sarebbe stata contenta...»
Efix s'alzò. Sentiva qualche cosa pungerlo in tutta
la persona, e aveva bisogno di andare, di affrettare il destino.
«Ebbene, aspetta un altro po', diavolo! Ti darò da
bere: un po' di acquavite? O anice? Stefana, ira di Dio, c'è il
tuo pretendente, Stefana!»
S'udivano le donne sbattere i mobili con furore.
Finalmente la serva anziana apparve, con un tovagliolo sul capo e
un altro in mano, seria e imponente, tuttavia, con gli occhi
pieni di rassegnazione ai voleri del padrone. Aprì l'armadio,
versò l'anice e guardò Efix con un vago senso di terrore, ma
anche per scrutare se egli prendeva sul serio gli scherzi del
padrone: ma Efix era così umile e sbigottito ch'ella tornò su e
disse alla compagna giovine:
«S'egli ha fatto la stregonena l'ha fatta bene. La
fortuna cade come una saetta su quella gente: pulisci bene, che
sarà fatica risparmiata per le nozze».
«Tue con Efix?», disse Pacciana. «Per don Predu
bisogna prima aspettare che donna Noemi lo accetti!»
Ma Stefana fece le fiche, tanto queste parole le
sembravano assurde.
Quando fu nella strada dopo che don Predu lo ebbe
accompagnato fino al portone come un amico, Efix si guardò
attorno e sospirò.
Tutto era mutato; il mondo si allargava come la valle
dopo l'uragano quando la nebbia sale su e scompare: il Castello
sul cielo azzurro, le rovine su cui l'erba tremava piena di
perle, la pianura laggiù con le macchie rugginose dei giuncheti,
tutto aveva una dolcezza di ricordi infantili, di cose perdute da
lungo tempo, da lungo tempo piante e desiderate e poi dimenticate
e poi finalmente ritrovate quando non si ricordano e non si
rimpiangono più.
Tutto è dolce, buono, caro: ecco i rovi della
Basilica, circondati dai fili dei ragni verdi e violetti di
rugiada, ecco la muraglia grigia, il portone corroso, l'antico
cimitero coi fiori bianchi delle ossa in mezzo all'avena e alle
ortiche, ecco il viottolo e la siepe con le farfalline lilla e le
coccinelle rosse che sembrano fiorellini e bacche: tutto è
fresco, innocente e bello come quando siamo bambini e siamo
scappati di casa a correre per il mondo meraviglioso.
La Basilica era aperta, in quei giorni di quaresima,
ed Efix andò a inginocchiarsi al suo posto, sotto il pulpito.
La Maddalena guardava, lieta anche lei, come una dama
spagnola ospite dei Baroni affacciata a un balcone del Castello.
Sentiva la primavera anche lei, era felice benché fossero i
giorni della passione di Nostro Signore. Qualche ricco feudatario
doveva averla domandata in sposa, ed ella sorrideva ai passanti,
dal suo balcone, e sorrideva anche ad Efix inginocchiato sotto il
pulpito.
«Signore, Vi ringrazio, Signore, prendetevi adesso
l'anima mia; io sono felice d'aver sofferto, d'aver peccato,
perché esperimento la vostra Misericordia divina, il vostro
perdono, l'aiuto vostro, la vostra infinita grandezza. Prendetevi
l'anima mia, come l'uccello prende il chicco del grano. Signore,
disperdetemi ai quattro venti, io vi loderò perché avete
esaudito il mio cuore...»
Eppure nell'alzarsi a fatica, con le ginocchia
indolenzite, provò un senso di pena, come se l'ombra di una
nuvola passasse nella chiesa velando il viso della Maddalena.
Anche il viso di donna Noemi, curva a cucire nel
cortile, era velato d'ombra.
Efix colse una viola del pensiero dall'orlo del pozzo
e andò a offrirgliela. Ella sollevò gli occhi meravigliati e
non prese il fiore.
«Indovina chi glielo manda? Lo prenda.»
«Tu l'hai colto e tu tientelo.»
«No, davvero, lo prenda, donna Noemi.»
Sedette davanti a lei, per terra, a gambe in croce
come uno schiavo, prendendosi i piedi colle mani: non sapeva come
cominciare, ma sapeva già che la padrona indovinava. Infatti
Noemi aveva lasciato cadere la viola in una valletta bianca della
tela; le batteva il cuore; sì, indovinava.
«Donna Ester dov'è?», disse Efix curvandosi sui
suoi piedi. «Come sarà contenta, quando saprà! Don Predu mi
aveva fatto tornare in paese per questo...»
«Ma che cosa dici, disgraziato?»
«No, non mi chiami disgraziato! Sono contento come
se morissi in grazia di Dio in questo momento e vedessi il cielo
aperto. Sono stato in chiesa, prima di tornar qui, a ringraziare
il Signore. In coscienza mia, è così...»
«Ma perché, Efix?», ella disse con voce vaga,
pungendo con l'ago la viola. «Io non ti capisco.»
Egli sollevò gli occhi: la vide pallida, con le
labbra tremanti, con le palpebre livide come quelle di una morta.
E' la gioia, certo, che la fa sbiancare così; ed egli prova un
tremito, un desiderio d'inginocchiarsi davanti a lei e dirle:
sì, sì, è una grande gioia, donna Noemi, piangiamo assieme.
«Lei accetta, donna Noemi, padrona mia? E' contenta,
vero? Devo dirgli che venga?»
Ella fece violenza a se stessa; si morsicò le
labbra, riaprì gli occhi e il sangue tornò a colorirle il viso,
ma lievemente, appena intorno alle palpebre e sulle labbra.
Guardò Efix ed egli rivide gli occhi di lei come nei giorni
terribili, pieni di rancore e di superbia. L'ombra ridiscese su
lui.
«Non si offenda se gliene parlo io per il primo,
donna Noemi! Sono un povero servo, sì, ma sono chiuso come una
lettera. Se lei accetta, don Predu manderà il prete a far la
domanda, o chi vuol lei...»
Noemi buttò giù la viola ferita e si rimise a
cucire. Pareva tranquilla.
«Se Predu ha voglia di ridere, rida pure; non
m'importa nulla. »
«Donna Noemi!»
«Sì, sì! Non dico che non faccia sul serio, sì.
Allora non saresti lì. Ma adesso fa' il piacere, alzati e
vattene.»
«Donna Noemi?»
«Ebbene, che hai adesso? Levati, non star lì
inginocchiato, con le mani giunte! Sei stupido!»
«Ma donna Noemi, che ha? Rifiuta?»
«Rifiuto.»
«Rifiuta? Ma perché, donna Noemi mia?»
«Perché? Ma te lo sei dimenticato? Sono vecchia,
Efix, e le vecchie non scherzano volentieri. Non parlarmene
più.»
«Questo solo mi dice?»
«Questo solo ti dico.»
Tacquero. Ella cuciva: egli aveva sollevato le
ginocchia e si stringeva in mezzo le mani giunte. Gli pareva di
sognare, ma non capiva. Finalmente alzò gli occhi e si guardò
attorno. No, non sognava, tutto era vero; il cortile era pieno di
sole e d'ombra: qualche filo di legno cadeva dal balcone come
cadono le foglie dei pini in autunno; e al di là del muro si
vedeva il Monte bianco come di zucchero, e tutto era soave e
tenero come al mattino quando egli era uscito dalla casa di don
Predu. Gli pareva di sentire ancora le donne a sbattere i mobili;
ma erano colpi sulla sua persona; sì, qualche cosa lo percoteva,
sulla schiena, sulle spalle, sulle scapole e sui gomiti e sui
ginocchi e sulle nocche delle dita. E donna Noemi era lì,
pallida, che cuciva, cuciva, che gli pungeva l'anima col suo ago:
e le rondini passavano incessantemente in giro, sopra le loro
teste, come una ghirlanda mobile di fiori neri, di piccole croci
nere. Le loro ombre correvano sul terreno come foglie spinte dal
vento: ed egli ricordò la pena provata nell'alzarsi di sotto il
pulpito e l'ombra sul viso della Maddalena. Sospirò
profondamente. Capiva. Era il castigo di Dio che gravava su lui.
Allora, piano piano, cominciò a parlare, afferrando
il lembo della gonna di Noemi, e non capiva bene ciò che diceva,
ma doveva essere un discorso poco convincente perché la donna
continuava a cucire e non rispondeva, di nuovo calma con un
sorriso ambiguo alle labbra.
Solo dopo ch'egli parve aver detto tutto, tutte le
miserie passate, tutti gli splendori da venire, ella parlò, ma
piano, sollevando appena gli occhi quasi parlasse con gli occhi
soltanto.
«Ma non prenderti tanto pensiero, Efix, non
immischiarti oltre nei fatti nostri. E poi lo sai: abbiamo
vissuto finora; non siamo state bene, finora? Che ci è mancato?
E tireremo avanti, con l'aiuto di Dio: il pane non mancherà. In
casa di Predu c'è troppa roba e non saprei neppure custodirla.»
Efix meditava, disperato. Che fare, se non ricorrere
a qualche menzogna?
Riprese a palparle la veste.
«Eppoi devo dirle cose gravi, donna Noemi mia. Non
volevo, ma lei, con la sua ostinazione, mi costringe. Don Predu
è tanto preso che se lei non lo vuole morrà. Sì, è come
stregato, non dorme più. Lei non sa cosa sia l'amore, donna
Noemi mia; fa morire. E' poca coscienza far morire un uomo...»
Allora Noemi rise e i suoi denti intatti luccicarono
sino in fondo come quelli d'una fanciulla follemente allegra.
Quel riso fece tanto male a Efix, lo irritò, lo rese maligno e
bugiardo.
«Eppoi un'altra cosa più grave ancora, donna Noemi!
Sì, mi costringe a dirgliela. Don Giacinto minaccia di
tornarsene qui... Intende?»
Ella smise di cucire, si drizzò sulla vita, si
piegò indietro col viso per respirare meglio: le sue mani
abbrancarono la tela.
Ed Efix balzò su spaventato, credendo ch'ella stesse
per svenire.
Ma fu un attimo. Ella tornò a guardarlo coi suoi
occhi cattivi e disse calma:
«Anche se torna non c'è più nulla da perdere. E
non abbiamo bisogno di nessuno per difenderci».
Egli raccolse di terra la viola e andò a sedersi
sulla scala, come la notte dopo la morte di donna Ruth. Non si
domandava più perché Noemi rifiutava la vita: gli sembrava di
capire. Era il castigo di Dio su lui: il castigo che gravava su
tutta la casa. Ed egli era il verme dentro il frutto, era il
tarlo che rodeva il destino della famiglia. Appunto come il tarlo
egli aveva fatto tutte le sue cose di nascosto: aveva roso, roso,
roso, adesso si meravigliava se tutto s'era sgretolato intorno a
lui? Bisognava andarsene: questo solo capiva. Ma un filo di
speranza lo sosteneva ancora, come lo stelo ancor fresco
sosteneva la viola livida ch'egli teneva fra le dita. Dio non
abbandonerebbe le disgraziate donne. Andato via lui, donna Noemi,
forse offesa dalla stessa maniera dell'ambasciata, si
piegherebbe. Dopo tutto, due donne sole non possono vivere.
Bisognava andare. Come aveva fatto, a non capirlo
ancora? Gli sembrò che una voce lo chiamasse: e una voce lo
chiamò davvero, al di là del muro, dal silenzio della strada.
S'alzò e s'avviò: poi tornò indietro per
riprendere la bisaccia attaccata al piuolo sotto la loggia. Il
piuolo, fisso lì da secoli, si staccò e balzò fra i ciottoli
del cortile come un grosso dito nero. Egli trasalì. Sì,
bisognava andarsene: anche il piuolo si staccava per non sostener
più la bisaccia.
E con sorpresa di Noemi, che aveva seguito con la
coda dell'occhio tutti i movimenti di lui, egli non riattaccò il
piuolo, e s'avviò.
«Efix? Te ne vai?»
Egli si fermò, a testa bassa.
«Non aspetti Ester? Torni per Pasqua?»
Egli accennò di no.
«Efix, ti sei offeso? Ti ho detto qualche cosa di
male?»
«Nulla di male, padrona mia. Solo che devo andare:
è ora.»
«E allora va' in buon'ora.»
Egli pensò un momento: gli parve di dimenticare
qualche cosa, come quando si sta per intraprendere un viaggio e
ci si domanda se si è provvisti di tutto.
«Donna Noemi, comanda nulla?»
«Nulla. Solo mi pare che tu stia male: sei malato?
Sta' qui, chiameremo il dottore: ti tremano le gambe.»
«Devo andare.»
«Efix ascolta: non averti a male di quanto t'ho
detto. E' così, non posso, credi. Lo so che ti fa dispiacere, ma
non posso. Non dir nulla a Ester. E va', se vuoi andare. Ma se ti
senti male torna; ricordati che questa è casa tua.»
Egli s'accomodò sulle spalle la bisaccia e uscì.
Sugli scalini del portone scosse i piedi uno dopo l'altro per non
portar via neppure la polvere della casa che abbandonava.