Fu Noemi ad aprire. Efix se la vide apparire
davanti, sullo sfondo glauco del cortile, alta alta, sottile, col
viso bianco: Lia fanciulla, Lia risorta.
Lo guardò bene, prima di lasciarlo entrare, come si
guarda uno sconosciuto, poi disse solo: «oh, oh, sei tu?» ma
bastò quest'espressione di sorpresa diffidente e un po' ironica,
per aumentare l'umiliazione e il turbamento di lui.
«Ebbene, sono tornato, donna Noemi mia», disse
entrando e seguendola attraverso il cortile. «Il vagabondo è
tornato. E donna Ester come sta? Mi permette di farle una
visita?»
Ecco, nella penombra glauca le cose stavano immobili
al loro posto; il balcone, su, nero sul fondo grigio del muro, il
pozzo coi fiori rossi, la corda sulla scala.
In cucina c'era luce, ma non la luce fiammante della
casa di Grixenda: un lumino funebre sopra la panca antica, in
mezzo a una grande ombra.
No, nulla era mutato: tutto era morto ancora. Ed Efix
pensò con dolore:
«Non dev'esser vero che donna Noemi ha
acconsentito».
Istintivamente cercò di attaccare la bisaccia al
piuolo, ma il piuolo non c'era: nessuno lo aveva più rimesso ed
egli tenne con sé la bisaccia come un ospite che deve presto
ripartire.
Donna Ester leggeva tranquilla seduta su uno
sgabellino davanti alla panca antica, ma d'improvviso il gatto
posato sulla sua ombra accanto al lume e che seguiva con gli
occhi i movimenti delle mani di lei, le saltò in grembo come
volesse nascondersi e di là balzò sotto la panca: ella sollevò
la testa, vide lo sconosciuto e cominciò a fissarlo con gli
occhi scintillanti e il libro che le tremava fra le mani.
«Ebbene, sì, sono io, padrona mia! Sono tornato. Il
vagabondo è tornato. Che ne dice, donna Ester? Come va la
salute?»
«Efix! Efix! Efix!», ella balbettava.
«Proprio Efix! Ha male agli occhi, donna Ester, che
tiene gli occhiali?»
«Tu, Efix! Siedi. Sì, ho avuto male agli occhi dal
troppo piangere.»
Ma Noemi li guardava tutti e due coi suoi occhi
cattivi e pareva divertirsi alla scena.
«Sì, Ester! Hai gli occhiali perché oramai sei
vecchia.»
«Siedi», invitò anche lei, battendo la mano sulla
panca, ed Efix sedette accanto alla vecchia padrona tutta
tremante di sorpresa. Sulle prime non seppero cosa dirsi: egli
stringeva a sé la bisaccia e chinava la testa vergognoso; ella
si levò gli occhiali, li chiuse fra le pagine del libro, parve
volesse appoggiarsi al fianco del servo.
Finalmente volsero tutti e due il viso a guardarsi ed
ella scosse la testa con un cenno di rimprovero.
«Bravo! Gira gira sei tornato! Ma perché mai una
riga, un saluto? Eppure gente d'America ne è venuta!»
Efix aprì la bocca per rispondere, ma vide Noemi che
rideva come se sapesse anche lei la verità, e tacque ancora più
umiliato.
«E sei andato via così, Efix! Come se ti avessimo
offeso, senza dire una parola, Efix! E pensa, pensa, io dicevo
sempre a me stessa: perché Efix ha fatto così? Si può
finalmente sapere il perché?»
«Cose del mondo! S'invecchia, si rimbambisce», egli
rispose con un gesto vago. «Adesso son qui... Non parliamone
più.»
«E adesso, che cosa conti di fare? Tornerai da
Predu? O, come dice la gente, è vero che sei diventato ricco? Ma
perché non metti giù quella bisaccia? Almeno un boccone lo
prenderai, qui.»
«Devo andare, donna Ester mia... Ero venuto solo per
salutarla.»
«Tu starai qui fino a domani», disse Noemi, e con
un gesto quasi felino gli tolse la bisaccia e la mise più in là
sulla panca.
Si guardarono: ed egli comprese che avevano da
parlarsi, loro due, da riallacciare un discorso interrotto.
«Efix, senti, tu almeno ci racconterai le tue
vicende, poiché non hai mai scritto. Quante cose avrai da dire,
adesso: oh, Efix, Efix, chi avrebbe mai creduto che da vecchio te
ne andavi in giro per il mondo!»
«Meglio tardi che mai, donna Ester mia! Ma da
contare c'è poco.»
«Racconta quel poco...»
«Bene, sì, le dirò...»
Noemi apparecchiava, silenziosa: ecco lo stesso
canestro annerito dal tempo, levigato dall'uso; ecco lo stesso
pane e lo stesso companatico. Efix mangiava e raccontava, con
parole incerte, velate di menzogna timida; ma quando ebbe gettato
le briciole e il fondo del bicchiere sul pavimento - poiché la
terra vuole sempre la sua piccola parte del nutrimento dell'uomo
- si drizzò un po' sulla schiena e i suoi occhi si circondarono
di rughe raggianti.
«Dunque, in viaggio eravamo tutti poveri diavoli: si
andava, si andava, senza sapere dove si andava a finire, ma
sempre con la speranza del guadagno. Si andava, in fila, come i
condannati...»
«Ma non eravate in mare?»
«In mare, sì, cosa dico? E in mare in burrasca,
anche. Mi sono tante volte bagnato. Fame non se ne pativa, no;
eppoi, chi aveva fame? Io no: sentivo qualche volta come una mano
che mi abbrancava lo stomaco e pareva volesse estirparmelo:
allora mangiavo e mi acquetavo. Arrivati là si cominciò a
lavorare. »
«Che lavoro era?»
«Oh un lavoro facile, per questo; così... si levava
la terra da un posto e si metteva nell'altro...»
«Ma è vero che si fa un canale perché ci passi il
mare? Ma l'acqua non segue, dentro il canale?»
«Si, veniva dentro il canale; ma ci son le macchine
per tenerla indietro. Son come delle pompe... io non le so
descrivere, insomma!»
Noemi ascoltava, zitta, lisciando la schiena al gatto
che le ronfava in grembo con voluttà. Ascoltava, ma col pensiero
lontano.
«Eravate proprio in campagna? Dicono che là è
tutto caro. Rammenti quello che raccontavano gli emigranti,
laggiù al Rimedio? Eppoi, dicono, è un paese dove non ci si
diverte.»
«Oh, per questo ci si diverte! Chi ha voglia di
divertirsi, s'intende! Chi suona, chi balla, chi prega, chi si
ubriaca: e poi tutti se ne vanno...»
«Se ne vanno? E dove?»
«Volevo dire... alle loro baracche, a riposarsi.»
«E che lingua parlano?»
«Lingua? Di tutte le parti. Io parlavo sardo, coi
miei compagni...»
«Ah, tu avevi dei compagni sardi?»
«Avevo dei compagni sardi. Uno vecchio e uno
giovane. Mi pare di averli ancora ai fianchi, salvo il rispetto
alle loro signorie.»
Gli occhi di Noemi scintillarono di malizia.
«Spero che noi siamo più pulite!», disse,
stringendogli il braccio.
«Sì, un vecchio e un giovane. Litigavano sempre:
erano cattivi, invidiosi, gelosi, ma in fondo erano anche buoni.
L'uomo è fatto così: buono e cattivo: eppoi si è sempre
disgraziati. Anche i ricchi, spesso son disgraziati. Ah, ecco!»
Ecco, la stretta della mano di Noemi gli ricordava la
stretta di Giacinto, là nel cortiletto di Nuoro, e il segreto
che impediva alla donna di accettare la domanda di don Predu.
«Don Predu, verbigrazia», disse quasi
involontariamente; indi aggiunse guardando la padrona giovane,
«non è forse ricco e disgraziato?»
Ma la padrona rideva di nuovo ed egli contro sua
volontà s'irritò.
«Che c'è da ridere? Ebbene, non è forse
disgraziato, don Predu? Finché lei, donna Noemi mia, non avrà
pieta di lui... Eppure egli è buono.»
Allora donna Ester si alzò, appoggiando la mano alla
spalliera della panca e stette a guardarli severa.
«Ma che buono», disse Noemi, senza più ridere.
«E' vecchio, adesso, e non può più beffarsi del prossimo: ecco
tutto! Non parliamo di lui.»
«Parliamone invece», disse donna Ester con forza.
«Efix, spiegami le tue parole.»
«Che cosa devo spiegarle, donna Ester mia? Che don
Predu vuole sposare donna Noemi?»
«Ah, tu pure lo sai? Come lo sai?»
«Sono stato io il primo paraninfo.»
«Il primo e l'ultimo», gridò Noemi buttando via il
gatto come un gomitolo. «Basta; non voglio se ne parli più.»
Ma Efix si ribellava.
«Ma perché io non gli ho mai portato la risposta,
donna Noemi mia! Come potevo portargliela? Non osavo, e sono
fuggito per questo.»
Donna Ester tornò a sedersi accanto a lui, ed egli
la sentì tremare tutta.
«Ah, Efix», mormorava. «Egli aveva l'idea fin
d'allora e tu non dicevi nulla? E tu sei fuggito? Ma perché? In
verità mia, mi pare tutto un sogno. Io non ho saputo mai nulla:
solo la gente veniva a dirmelo, solo gli estranei. E tu, sorella
mia, e tu... e tu...»
«Che dovevo dirti, Ester? Ha forse mai fatto la sua
domanda, lui? Quando s'è mai spiegato? Manda regali, viene
qualche volta, si mette a sedere, chiacchiera con te e a me quasi
non rivolge la parola. L'ho mai cacciato via, io?»
«Tu non lo cacci via ma fai peggio ancora. Tu ridi,
quando egli viene; tu ti burli di lui.»
«E' giusto! Quel che si semina si raccoglie.»
«Noemi, perché parli così? Sembri diventata matta,
da qualche tempo in qua! Tu non ragioni più. Perché dici che
egli si burla di te se ti ha mandato a dire che ti vuol bene?»
«Egli me lo mandò a dire con un servo!»
Donna Ester guardò Efix, ma Efix taceva, a testa
bassa, come usava un tempo quando le sue padrone questionavano.
Aspettava, d'altronde, certo che Noemi nonostante il suo
disprezzo doveva tornare a lui per riprendere il discorso fra
loro due soli.
«Efix, la senti come parla? Eppure io ti dico che
non sei stato tu solo a dirglielo. Anche Giacinto...»
Ma questo nome fece come un vuoto pauroso attorno; ed
Efix vide Noemi balzare convulsa; livida di collera e d'odio.
«Ester!», disse con voce aspra. «Tu avevi giurato
di non pronunziare più il suo nome.»
E uscì, come soffocasse d'ira.
«Sì», mormorò donna Ester, curvandosi
all'orecchio di Efix. «Ella lo odia al punto che m'ha fatto
giurare di non nominarlo più. Quando venne ultimamente per dirci
che sposa Grixenda e per consigliare Noemi ad accettare Predu,
ella lo cacciò via terribile come l'hai veduta adesso. Ed egli
andò via piangendo. Ma dimmi, dimmi, Efix», proseguì accorata,
«non è una gran cattiva sorte la nostra? Giacinto che ci rovina
e sposa quella pezzente, e Noemi che rifiuta invece la buona
fortuna. Ma perché questo, Efix, dimmi, tu che hai girato il
mondo: è da per tutto così? Perché la sorte ci stronca così,
come canne?»
«Sì», egli disse allora, «siamo proprio come le
canne al vento, donna Ester mia. Ecco perché! Siamo canne, e la
sorte è il vento.»
«Sì, va bene: ma perché questa sorte?»
«E il vento, perché? Dio solo lo sa.»
«Sia fatta allora la sua volonta», ella disse
chinando la testa sul petto: e vedendola così piegata, così
vecchia e triste, Efix si sentì quasi un forte. E per
confortarla pensò di ripeterle uno dei tanti racconti del cieco.
«Del resto è che non si è mai contenti. Lei sa la
storia della Regina di Saba? Era bella e aveva un regno lontano,
con tanti giardini di fichi e di melagrani e un palazzo tutto
d'oro. Ebbene, sentì raccontare che il Re Salomone era più
ricco di lei e perdette il sonno. L'invidia la rodeva; tanto che
volle mettersi in viaggio, sebbene dovesse attraversare metà
della terra, per andare a vedere...»
Donna Ester si curvò un po' dall'altro lato e prese
il libro in mezzo al quale aveva chiuso gli occhiali.
«Queste storie sono qui: è la Sacra Bibbia.»
Efix guardò umiliato il libro e non continuò.
Rimasto solo si sdraiò sulla stuoia, ma nonostante
la grande stanchezza non poté addormentarsi: aveva l'impressione
che i ciechi fossero coricati li accanto e che intorno e fuori
nelle tenebre si stendesse un paese ignoto. Le sue padrone però
stavano lì sulla panca, e lo guardavano, donna Ester vecchia e
quasi supplichevole, donna Noemi ridente ma più terribile di
quando era austera. E, cosa strana, non sentiva più soggezione
di donna Ester, non aveva più paura di donna Noemi; era davvero
come il servo affrancatosi diventato ricco davanti ai suoi
padroni, poveri.
«Io posso aiutarle, posso aiutarle ancora, anche se
esse non lo vogliono... Domani...»
Aspettava con ansia il domani: ecco perché non
poteva dormire. Domani parlerà con Noemi; riprenderanno il
discorso interrotto tanti mesi prima; ed egli forse potrà
portare la buona risposta a don Predu.
Allora cominciò a pregare, piano piano, poi sempre
più forte, finché gli parve di mettersi a cantare come facevano
i pellegrini su alla Madonna del Miracolo.
Domani... Tutto andrà bene, domani; tutto sarà
concluso, tutto sarà chiaro. Gli sembrava di capire finalmente
perchè Dio lo aveva spinto ad abbandonare la casa delle sue
padrone e ad andarsene vagabondo: era per dar tempo a Giacinto di
scender nella sua coscienza e a Noemi di guarire dal suo male.
«Se io davo subito la risposta a don Predu tutto era
finito», pensava con un senso di sollievo; e sognava
addormentandosi. Ecco un vago chiarore illumina la pianura
intorno; è un anello bianco sopra un gran cerchio nero. E'
l'alba. I ciechi si alzano, intrecciano le loro dita, si curvano
davanti a lui e lo costringono a sedere sulle loro mani ed a
mettere le sue braccia intorno al loro collo: così lo sollevano,
lo portano su, via, lontano, cantando, come fanno i bambini nei
loro giochi.
Egli rideva: non era stato mai così felice. Ma in
fondo, nella cucina scura, donna Ester e donna Noemi non si
movevano dalla panca; ed ecco egli sentiva soggezione dell'una e
paura dell'altra. Allora chiuse gli occhi e finse d'esser cieco
anche lui. E andavano così tutti e tre, di qua e di là, su un
terreno molle, cantando le laudi sacre dello Spirito Santo. Ma
una mano afferrò per il di dietro il suo cappotto e fermò il
gruppo. Egli si buttò giù, sussultando, aprì gli occhi e vide
donna Noemi davanti a lui, col lume in mano.
«Dormivi già, Efix? Abbi pazienza; ma Ester mi
disse che te ne saresti andato domani mattina presto e son
tornata giù.»
Egli balzò a sedere sulla stuoia, ai piedi di lei
ritta, ferma, grande col lume in mano. Un cerchio d'ombra con un
anello di luce intorno, come egli aveva sognato, li circondava.
«E poi io volevo parlarti da solo, Efix. Ester non
capisce certe cose. E tu hai fatto male a chiacchierare con lei:
anche tu non capisci.»
Egli taceva. Capiva, sì, ma doveva tacere e fingere
come uno schiavo.
«Tu non capisci e perciò parli troppo, Efix! Se tu
quel giorno avessi riferito solo l'ambasciata, senza darmi dei
consigli, sarebbe stato meglio. Invece abbiamo detto molte cose
inutili; adesso voglio sapere solamente se è vero che tu,
proprio, non hai riferito nulla a Predu del nostro discorso.»
«Nulla, donna Noemi mia!»
«Un'altra cosa ti voglio domandare, Efix; ma mi devi
rispondere il vero. Tu...», esitò un momento, poi alzò la
voce, «tu hai parlato di questo fatto con Giacinto? Dimmi il
vero.»
«No», mentì egli con voce ferma: «le giuro, io
non ne ho parlato».
«Tu allora credi che sia stato Predu a dirglielo?»
«Io credo così, donna Noemi mia.»
«Un'altra cosa. Dimmi, perché sei andato via?»
«Non lo so; pensavo appunto a questo,
addormentandomi. Pensavo fosse stato il Signore a farmi andar
via. Avevo paura e vergogna di presentarmi a don Predu con quella
risposta. Sì, donna Noemi, perché don Predu mi aveva preso al
suo servizio solo per questo, io lo capisco: egli voleva bene a
lei e voleva che fossi io l'intermediano. Allora, quando lei
disse di no, di no, sono scappato...»
Noemi si mise a ridere: ma un riso lieve, ben diverso
dal cattivo riso di prima. Era compassione per Efix, compassione
per don Predu, ma anche soddisfazione e dolcezza: mai, mai Efix
l'aveva sentita ridere così. Eppure egli ricordava quel riso,
quel volto curvo su lui, quell'ombra e quella luce tremula
intorno: e il cuore gli batteva, gli batteva, da spezzarsi.
Lia com'era nella notte della fuga gli stava davanti.
«Un'altra cosa ancora e poi basta. Senti, tu credi
Giacinto sposi davvero Grixenda?»
«Sì, è una cosa certa.»
«Quando si sposano?»
«Prima di Natale.»
Ella abbassò il lume, come per vedere bene il viso
di Lui: e così illuminò bene il suo. Com'era pallida, e come il
suo viso era giovane e vecchio nello stesso tempo!
L'orgoglio, la passione, il desiderio di spezzare la
sua vecchia vita miserabile, e coi frantumi ricostruirsene
un'altra, nuova e forte, le ardevano negli occhi.
«Sentimi, Efix», disse ritraendo il lume, «ebbene,
tu dirai a Predu che lo voglio. Ma che dobbiamo sposarci subito,
prima di quei due.»