Se li tirò addietro per molto tempo.
Di festa in festa camminavano, o soli o in fila con
altri mendicanti, come condannati diretti a un luogo di pena
irraggiungibile.
Le feste si rassomigliavano: le principali erano di
primavera e di autunno, e si svolgevano attorno alle chiesette
campestri solitarie, sui monti, sugli altipiani, sull'orlo delle
valli. Allora, nel luogo tutto l'anno deserto, nei campi incolti
e selvaggi, era come una improvvisa fioritura, un irrompere di
vita e di gioia. I colori vivi dei costumi paesani, il rosso di
scarlatto, il giallo delle bende, il cremis ardente dei
grembiali, brillavano come macchie di fiori tra il verde dei
lentischi e l'avorio delle stoppie.
E dappertutto si beveva, si cantava, si ballava, si
rissava. Efix, vestito anche lui come gli altri mendicanti, si
portava addietro i due ciechi e gli sembrava fossero il suo
destino stesso: il suo delitto e il suo castigo.
Non li amava, ma li sopportava con infinita pazienza.
Anch'essi non lo amavano ma erano gelosi l'uno
dell'altro per le attenzioni di lui, e litigavano continuamente.
In agosto e settembre fu un andare continuo, un
correre affannoso. Dapprima salirono sul monte Orthobene, per la
Festa del Redentore.
Era d'agosto, la luna grande rossa sorgeva dal mare e
illuminava i boschi. Di lassù, sì, Efix vedeva il suo Monte
lontano; e passò la notte a pregare, sotto la croce nera che
pareva unisse il cielo azzurro alla terra grigia. All'alba s'udì
un salmodiare lontano; una processione salì dalla valle e in un
attimo le rocce si coprirono di bianco e di rosso, i cespugli
fiorirono di volti di fanciulli ridenti, e sotto gli elci i
vecchi pastori s'inginocchiarono come Druidi convertiti.
Sopra l'altare tagliato sulla viva pietra il calice
scintillò al sole, e il Redentore parve indugiare prima di
spiccare il volo dalla roccia, piantando la croce fra la terra
grigia e il cielo azzurro. S'udì qualcuno piangere forte; era un
mendicante fra due ciechi, dietro un cespuglio. Era Efix.
In settembre salirono sul Monte Gonare. Il tempo era
di nuovo brutto, sconvolto da violenti temporali: rivoli d'acqua
torbida solcavano le chine, sotto i boschi contorti dal vento, e
tutto il monte sussultava per il rombo dei tuoni. Ma i fedeli
accorrevano egualmente; salivano da tutti i sentieri tortuosi, da
tutte le strade serpeggianti, affluendo alla chiesetta come il
sangue che dalle vene va su al cuore.
Da una nicchia di pietre ove s'era rifugiato coi
compagni Efix vedeva le figure passare fra la nebbia come sopra
le nuvole, e la storia del Diluvio Universale che il cieco
giovane raccontava gli sembrava la loro storia. Ecco, alcuni
patriarchi s'erano salvati e si rifugiavano sul Monte: venivano
su con le loro donne e i loro figli, ed erano tristi e lieti in
pari tempo perché avevano tutto perduto e tutto salvato.
Le donne specialmente guardavano dall'alto dei
cavalli, dalla cornice dei loro scialli, coi grandi occhi
smarriti eppure a tratti scintillanti di gioia: qualche cosa le
spaventava, qualche cosa le rallegrava, forse il loro stesso
spavento. E gridi lontani risuonavano fra la nebbia come nitriti
di cavalli selvaggi in corsa col vento.
Efix aveva sempre paura d'esser riconosciuto sebbene
vestito da borghese e con la barba grigia ispida come una mezza
maschera fatta di pelo d'asino: guardava le figure che passavano
sul sentiero davanti a lui, se qualcuna gli era nota, e infatti
d'improvviso si piegò chiudendo gli occhi come i bambini quando
vogliono nascondersi.
Un uomo un po' abbandonato sopra un cavallo nero
saliva lentamente, tutto ricoperto da un gabbano d'orbace
foderato di scarlatto. Il vento sollevava le falde di questa
specie di mantello spagnuolo e lasciava vedere la bisaccia
ricamata e le grosse gambe del cavaliere con gli sproni lucidi
come d'argento. Il cappuccio ombreggiava un viso bonario e
sarcastico che si volse ai mendicanti e sogghignò lievemente
mentre la mano gettava alcune monete.
Efix riaprì gli occhi e piano piano si sollevò.
«Sai chi è quello?», disse al cieco giovane. «E'
il mio padrone!»
Cessata la pioggia i tre compagni ripresero a salire,
silenziosi, curvi, come cercando qualche cosa smarrita nel
sentiero; le nuvole correvano sopra le rocce e le macchie e gli
alberi si contorcevano al vento, folli dal desiderio di staccarsi
dalla terra e seguirle: il tuono rombava ancora, tutto era grande
di agitazione e d'angoscia, ed Efix si sentiva preso dal turbine
come una foglia secca.
Presero posto accanto ad una delle croci che
segnano il sentiero.
Il vento passava impetuoso, ma sul tardi il sole
apparve fra le nubi squarciandole e respingendole fino
all'orizzonte, e tutto brillò attorno ai monti e alle valli ove
la nebbia si raccolse in laghi argentei luminosi.
I mendicanti si scaldavano al sole ed Efix
raccoglieva le elemosine tremando a ogni rumore di passo per
paura di rivedere don Predu; eppure di tanto in tanto sollevava
la testa come ascoltando una voce lontana.
Gli pareva d'essere ancora seduto davanti alla sua
capanna nel poderetto, e sentiva il frusciare delle canne, ed era
la voce del suo cuore che gli diceva:
«Efix, se stai lì per vera penitenza, perché temi
d'esser riconosciuto? Alzati quando passa il tuo padrone e
salutalo».
E d'improvviso un senso di gioia lo fece balzare, lo
penetrò tutto come il sole che gli asciugava le vesti e scaldava
le sue membra intirizzite: ecco, egli pensava di nuovo alle sue
padrone, le amava ancora, e aspettava don Predu per domandar
notizie di loro.
Ma don Predu non scendeva.
Veniva giù, dopo aver ascoltata la messa, una catena
di fanciulle paesane belle come rose, l'una appresso l'altra
strette ridenti.
«Hai veduto quell'uomo grosso che s'e comunicato?»,
disse una. «E' un nobile, un riccone, ammaliato.»
«Sì, lo so. Lo ha fatto ammaliare una ragazza
povera che egli doveva sposare e non ha sposato.»
«Va', e impiccati, Maria, che dici? Se lo ammaliava
lo ammaliava per farsi sposare...»
«E non mi spingere, per questo! Va' a romperti il
collo, Franzisca Bè!»
Coi denti scintillanti nella bella bocca piena di
male parole, passavano davanti ad Efix: qualcuna s'indugiava a
gettare una monetina ai mendicanti e il vento sollevava i lembi
del suo fazzoletto ricamato.
Efix aspettava don Predu. Scendevano i patriarchi, le
donne taciturne, i giovani dalle ginocchia elastiche, i piccoli
pastori dagli occhi tristi di solitudine: don Predu non si
vedeva.
Efix aspettava. Ma dopo mezzogiorno la gente era già
tutta ritornata alle capanne giù nella radura, e don Predu non
era ancora passato.
Allora Efix fece salire i compagni fino alla
chiesetta davanti alla quale solo pochi giovani si aggrappavano
alla roccia per guardare le corse dei barberi a mezza costa. Il
vento pareva portarsi via lungo il sentiero laggiù, i cavalli
lunghi montati da paesani incappucciati.
Efix fece sedere i ciechi contro il muro ed entrò
nella chiesetta avanzandosi in punta di piedi fino ai gradini
dell'altare ove don Predu inginocchiato immobile pregava col viso
sollevato, i capelli azzurrognoli nella penombra dorata dai ceri,
una falda rossa del gabbano rivoltata, lo sprone al piede, simile
in tutto ai Baroni in pellegrinaggio quali il servo li aveva
veduti dipinti in qualche antico quadro della Basilica.
Pregava assorto, ma quando Efix gli ebbe toccato
lievemente il cappotto si volse dapprima sorpreso, poi violento,
senza riconoscere il mendicante.
«Al diavolo! Neanche qui lasciate in pace?»
«Don Predu, padrone mio! Sono Efix, non mi
riconosce?»
Don Predu balzò sollevando le falde del gabbano
quasi volesse abbracciare il suo servo: e si guardarono come due
vecchi amici.
«Ebbene? Ebbene?»
«Ebbene?»
«Sì», disse don Predu riprendendosi per il primo,
«Giacinto mi ha raccontato le tue prodezze, babbeo. E dunque, ti
sei messo a fare un mestiere facile, poltronaccio! Bel mestiere,
sì! Ecco, prendi!»
Gli porse una moneta, ma Efix lo guardava negli occhi
coi suoi occhi di cane fedele e sospirava senza offendersi.
«Don Predu, padrone mio, mi dia notizie delle mie
dame.»
«Le tue dame? Chi le vede? Stanno chiuse nella loro
tana come faine.»
«E Giacinto?»
«L'ho veduto a Nuoro, quel morto di fame. Perché
non l'hai preso con te a chiedere l'elemosina? E adesso, sai cosa
fa? Sposa quell'altra morta di fame, Grixenda, sì, stupido!»
«E' bene: lo aveva promesso», disse Efix, e di
nuovo si sentì pieno di gioia. «Ecco fatta la grazia che lei
chiedeva, padrone mio», pensava, e sorrideva agli improperi che
don Predu, pentito del suo primo impeto di benevolenza, gli
rivolgeva trattandolo da mendicante quale era.
Dopo la Festa di San Cosma e Damiano di Mamojada,
Efix e i ciechi andarono a Bitti per la Madonna del Miracolo.
Prima di arrivare fecero tappa sopra Orune, ma sebbene stanco
Efix non s'addormentò per paura che gli rubassero la bisaccia
col gruzzolo raccolto nelle ultime feste. Pregava, tranquillo,
socchiudendo ogni tanto gli occhi per guardare i suoi compagni
addormentati sotto una quercia.
Era notte ancora, ma un brivido di luce passava ad
Oriente fra i monti che si aprivano verso il mare: l'alba si
svegliava laggiù. Ed ecco Efix, vinto dal sonno, crede di non
poter più sollevare le palpebre e di sognare: vede il vecchio
cieco mettersi a sedere, protendersi in ascolto, appoggiare la
mano al tronco della quercia, alzarsi e dopo un momento di
esitazione accostarsi a lui e con la mano adunca tirar su la
bisaccia come pescandola nell'ombra.
Egli non si muove, non parla: e il vecchio se ne va,
piano piano, su fra le macchie e le pietre, senza voltarsi,
grande e nero sullo sfondo azzurro della montagna.
Solo quando non lo vide più s'accorse di non aver
sognato, e balzò in piedi, ma gli parve che una mano lo tirasse
giù costringendolo a sedersi di nuovo, a stare immobile. E a
poco a poco alla sorpresa seguì un impeto di gioia, un desiderio
di ridere: e rise, e tutto intorno il cielo si colorì di azzurro
e di rosa, e le cinzie cantarono fra le macchie.
«Ecco», egli pensava. «E' Dio che mi ha liberato
di uno de' miei compagni. Oh che peso mi ha tolto!»
Svegliò l'altro dicendogli dell'accaduto.
«Lo vedi? Efix, adesso sei convinto? Io lo sapevo,
che fingeva. Non lo dissi subito? E tu te lo sei portato
addietro, tu mi hai tormentato giorno e notte con lui. Adesso
andremo a denunziarlo: lo cercheremo, gli pesteremo le ossa.»
Efix sorrideva. Durante la festa fu quasi felice. Una
folla com'egli non l'aveva ancora veduta riempiva la chiesa. il
campo attorno, il sentiero che conduceva al paese. Una
processione s'aggirava continuamente attorno al santuario, come
un serpente rosso e bianco, giallo e nero: gli stendardi
sventolavano simili a grandi farfalle, e canti corali, tintinnii
di cavalli bardati per la corsa, grida di gioia si univano alle
cantilene gravi dei pellegrini. Passavano donne coi capelli neri
sciolti giù per le spalle come veli di lutto; seguivano uomini a
capo scoperto, con un cero in mano, scalzi, polverosi come
arrivassero dall'altra estremità del mondo: tutti avevano gli
occhi pieni di domande e di speranza.
E i cavalli pazienti salivano su per la strada
carichi di gioia o di dolore: li cavalcavano giovani dal viso
fiammante, gonfio di sangue, fanciulle pallide che nascondevano
la passione come le brage sotto la cenere, e infermi, pazzi,
indemoniati, tutti avevano gli occhi pieni di vita e di morte.
Efix s'era messo un po' discosto dalla chiesa, in un
posto ove non molta gente passava. Il cieco non finiva di
brontolare, fra una lamentazione e l'altra, e aveva un viso cupo,
minaccioso.
Verso sera - la raccolta era stata scarsa - diede
sfogo alla sua ira, accusando Efix di aver ammazzato l'altro
compagno per liberarsene e tenersi i denari.
Efix sorrideva.
«Vieni», disse, prendendolo per mano, e dopo aver
camminato un poco: «senti?».
Il cieco sentiva la voce dell'altro compagno, che lì
davanti a loro domandava l'elemosina.
«Adesso non farete come l'altra volta», disse Efix.
«Se vi azzuffate e vi arrestano, io, in verità, me ne lavo le
mani.»
Allora il cieco vero si chinò sul cieco finto, e gli
chiese a denti stretti, sottovoce:
«Perché hai fatto questo, fariseo?».
«Perché mi pare e piace.»
Efix sorrideva. Il cieco vedeva questo sorriso
e se ne esasperava: tutta la sua ira contro il compagno ladro si
riversò sul compagno buono.
«Io non voglio più venire con te: piuttosto mi
butto per terra e mi lascio morire. Tu sei uno stupido, un buono
a niente: tu vieni con me per divertirti e tormentarmi. Va' e
impiccati, va' al più profondo dell'inferno.»
«Tu parli così perché sai che non ti abbandono»,
disse Efix. «Tu sebbene cieco conosci me, ed io non conosco te
sebbene ci veda. Ma se tu credi di poterti trovare un altro
compagno fa' pure. Ti aiuterò.»
Il cieco finto ascoltava, con la bisaccia rubata
stretta a se. Afferrò la mano di Istène e gli disse:
«E rimani con me, diavolo!».
Stettero così, con le mani unite, come Efix li aveva
veduti uscire dalla caserma di Fonni, e pareva aspettassero
ch'egli parlasse, sfidandolo un poco: trasse quindi l'involtino
delle monete raccolte in quel giorno, e dopo averlo fatto
dondolare davanti a loro, guardandoli e sorridendo, lo lasciò
cadere in mano al cieco vero e se ne andò.
Libero! Ma aveva l'impressione fisica di tirarsi
ancora addietro i compagni, e si dava pensiero di loro.
Camminò tutta la notte e tutto il giorno seguente,
giù lungo la vallata dell'Isalle, finché arrivò al mare. Là
si gettò a terra, fra due macchie di filirea, e gli parve
d'esser tornato al suo paese dopo aver compiuto il giro del
mondo.
Ma nel sonno rivedeva il cieco, curvo su se stesso,
con le labbra livide semiaperte sui denti ferini, e gli sembrava
che lo deridesse e lo compiangesse.
«Tu credi d'essere tornato e di riposarti. Vedrai,
Efix; adesso comincia davvero il tuo cammino.»
A misura che s'avvicinava al poderetto, risalendo
lo stradone, sentiva un lamento di fisarmonica che gli pareva
un'illusione delle sue orecchie abituate ai suoni delle feste.
Tante cose lontane gli tornarono in mente: e tutte le
foglie si agitavano intorno per salutarlo. Ecco la siepe, ecco il
fiume, la collina, la capanna. Egli non era commosso, ma quel
lamento dolce, velato, che pareva salire dalla quiete dell'acqua
verdastra, lo attirava come un richiamo.
Entrò, sollevò gli occhi e subito si accorse che il
poderetto era mal coltivato. Pareva un luogo da cui fosse mancato
il padrone: gli alberi erano già quasi tutti spogli dei loro
frutti e qualche ramo stroncato pendeva qua e là.
Zuannantoni, seduto sotto il pergolato davanti alla
capanna, suonava la fisarmonica; e tutto intorno il motivo
monotono si spandeva come un velo di sonno sul luogo desolato.
Vedendo l'uomo sconosciuto che s'avanzava curvandosi
per guardare dentro la capanna, il ragazzo smise di suonare, e i
suoi occhi si fecero minacciosi.
«Che volete?»
L'uomo si tolse il berretto.
«Zio Efix!», gridò il ragazzo, e riprese a
suonare, parlando e ridendo nel medesimo tempo. «Ma non eravate
morto? E chi diceva che eravate in America e diventato ricco, e
che mandavate tanti denari alle vostre padrone. Adesso il
guardiano qui, sono io: se voglio scacciarvi come un ladro posso
farlo. Ma non lo faccio. Volete dell'uva? Prendetevela. Il mio
padrone, don Predu, se ne infischia, di questo pezzo di terra: ne
ha tanti altri, di poderi. Quello grande, di Badde Saliche,
quello sì, ne dà prodotto. Le frutta di qui, il mio padrone le
manda in regalo alle sue cugine, le vostre padrone: ma esse
stanno sempre chiuse dentro come il riccio nella sua scorza. Oh,
zio Efix, vi devo dire una cosa: l'altra notte - di notte sto
chiuso nella capanna, perché ho paura degli spiriti, e sempre
sento nonna raspare alla porta - l'altra notte che spavento! Ho
sentito una cosa molle agitarsi intorno ai miei piedi. Ho
gridato, ho sudato: ma poi all'alba mi accorsi che era una lepre
ferita: sì, presa al laccio era riuscita a scappare e stava lì
con la zampetta rotta e mi guardava con due occhi da cristiana.
Gliel'ho fasciata, la zampetta; ma poi ha avuto la febbre;
scottava fra le mie mani come un gomitolo di fuoco; e s'è fatta
nera nera ed è morta.»
Efix si era seduto davanti alla capanna guardando
lontano.
«Che ne dici tu», domandò gravemente. «don Predu
mi ripiglierà al suo servizio?»
Il ragazzo si fece minaccioso.
«E allora dovrebbe scacciarmi? E io come faccio,
allora? Grixenda si sposa e se ne va. E io cosa faccio, intanto?
Vado a chiedere l'elemosina? No, andateci voi, che siete
vecchio.»
«Hai ragione», disse Efix, e chinò la testa. Ma la
sua remissione gli rese benevolo il servetto.
«Don Predu è così ricco che può prendervi lo
stesso; vi può mandare negli altri poderi, perché a me piace
star qui. Qui è un bel posto: lo dice anche Grixenda.»
«Che fa Grixenda?»
«Cucisce il suo vestito da sposa.»
«Dimmi, Zuannantoni, don Giacinto è venuto in
paese?»
«Mio cognato», disse il ragazzo con orgoglio, «è
venuto, sì, questo luglio scorso. Grixenda stava sempre male: un
altro poco e la trovava morta. Sì, è venuto...»
Tacque, col viso reclinato sulla fisarmonica, gli
occhi gravi di ricordo.
«Dimmi tutto; puoi dirmelo, Zuannantò. Io sono come
di famiglia. »
«Sì, ecco, vi dirò. Dunque Grixenda stava male; si
consumava, come un lucignolo. Di notte aveva la febbre: s'alzava
come una matta e diceva: voglio andare a Nuoro. Ma quando si
trattava di aprir la porta non poteva. Capite: c'era fuori la
nonna che spingeva la porta e le impediva di andare. Allora, una
volta, sono andato io, a Nuoro. Ho trovato mio cognato, in un
luogo che pare l'inferno: nel Molino. Gli dissi tutto. Allora
egli domandò tre giorni di permesso e venne con me. Aveva preso
un cavallo a nolo, perché costa meno della carrozza; e mi prese
in groppa: era bello, andare così, pareva di esser giganti.
Così ha chiesto Grixenda in moglie, e così per i Santi si
sposano.»
«A chi l'ha chiesta: in moglie?»
«Non lo so; a lei stessa!»
«Dimmi, Zuannantoni, don Giacinto è dalle sue zie,
dalle mie padrone?»
Il ragazzo esitò nuovamente.
«Si», disse poi, «c'è stato. Credo che abbiano
litigato perché venne fuori con gli occhi rossi, come avesse
pianto; Grixenda lo guardava e rideva, ma stringeva i denti. Egli
disse: questa e l'ultima volta che mi vedono.»
Efix non fece altre domande. Passò la notte nella
capanna e siccome era venuto su un gran vento e le canne del
ciglione gemevano come anime in pena, destando paura al piccolo
guardiano, egli cominciò a raccontare le storie della Bibbia,
imitando l'accento del cieco.
«Sì, c'era un re che con la scusa che gli alberi
sono spiriti li faceva adorare e anche gli animali e persino il
fuoco. Allora il vero Dio, offeso, fece sì che i servi di questo
re diventassero così cattivi che congiurarono per uccidere il
loro padrone. Sì, egli faceva adorare un Dio tutto d'oro: per
questo è rimasto nel mondo tanto amore del denaro e i parenti,
persino, uccidono i parenti, per il denaro. Persino le anime
innocenti adorano il denaro.»
Poi cominciò a descrivere il tempio e i palazzi del
Re Salomone. Zuannantoni si addormentò ch'egli raccontava
ancora. Fuori le canne dei ciglione frusciavano con tale violenza
che pareva combattessero una battaglia.
All'alba, uscendo dalla capanna Efix infatti ne vide
centinaia pendere spezzate, con le lunghe foglie sparse per terra
come spade rotte. E le superstiti, un poco sfrondate anch'esse,
pareva si curvassero a guardare le compagne morte, accarezzandole
con le loro foglie ferite.
«Prendetevi dell'uva, zio Efix», gli disse il
ragazzo, salutandolo pensieroso: «se don Predu vi rimanda qui
son contento: così passeremo il tempo a contar le storie. E
andate da Grixenda a salutarla».
Ed ecco Efix che risale la strada verso il paese.
L'alba è quasi fredda e le colline bianche sembrano coperte di
neve. I monticelli sopra i paesetti sparsi per la pianura, dopo
il Castello, fumano come carbonaie coperte: e tutto è silenzio e
morto nel mattino roseo. Ma Efix ritrovava la sua anima, e gli
sembrava di tornare alla casa del suo dolore come il figliol
prodigo, dopo aver dissipato tutte le sue speranze.
Andò dritto dall'usuraia, e rise accorgendosi che
sebbene non lo riconoscesse subito ella lo accoglieva
benevolmente credendolo uno straniero, un servo mandato da
qualche proprietario per chiedere denaro.
«Kallina, i corvi ti becchino, non mi riconosci?
Anche tu sei diminuita, però.»
Ella aveva le scarpette in mano; le lasciò cadere
una dopo l'altra, poi si curvò a riprenderle.
«Efix, vedi? Come io ti ho maledetto così sei
andato! Hai persino mutato di vesti. Rammentati quando volevi
massacrarmi.»
«Sono sempre a tempo, se non smetti! Dimmi, come
stai?»
«Non troppo bene. Da qualche tempo ho sempre male di
testa, e il dolore e l'insonnia mi hanno ridotta così, piccola,
curva, come succhiata dal vampiro.»
«E' giusto!», pensava Efix; ma non lo disse.
«E' un male da cani, il male di testa, Efix mio. Ho
persino promesso di andare in pellegrinaggio a San Francesco,
adesso, in ottobre...»
«Senti», disse Efix, che s'era seduto davanti al
focolare e non accennava ad andarsene, «è inutile che tu vai in
pellegrinaggio: se hai da far penitenza falla in casa tua.»
«Io non ho da far penitenza! Se vado, vado per
devozione. La mia anima è davanti a Dio, non davanti a un
pari.»
Egli abbassò la testa.
«Senti», riprese, «io ho bisogno di vesti e di
denari. Tu devi aiutarmi, Kallina: se vuoi tu puoi farlo. Io sono
come il soldato ch'è stato in guerra: torno, ma non posso tenere
queste vesti.»
«Dimmi almeno, dove sei stato?»
«Così, ho voluto un poco girare il mondo. Sono
stato fino in Oriente, dove c'era il tempio e la casa del Re
Salomone... questa casa era tutta d'oro, con le porte che avevano
per pomi melagrane d'oro... e i piatti e i vasi erano d'oro e
persino le chiavi e i pali per fermare le porte erano d'oro...»
La donna lo guardava di sottocchi, mentre infilava i
lacci nuovi alle sue scarpette senza buttar via i vecchi, che a
legare qualche cosa ancora potevan servire. Perché egli parlava
così, con un accento cadenzato da mendicante? Si burlava di lei,
o aveva la febbre?
«Efix, anima mia, il girare il mondo ti ha consumato
le scarpe e il cervello!»
Tuttavia gli prestò i denari.
Egli però non se ne andò.
«Non posso uscire così, presentarmi alle serve
beffarde di don Predu. Bisogna che tu mi procuri le vesti. Va':
cosa pensi quando non dormi? Va', va', sei cristiana anche tu.»
«Come, anch'io? Più cristiana di te, anima mia: io
non ho mai lasciato la mia casa per correre il mondo da
vecchia...»
«Se non smetti prendo il palo, Kallì, bada!»
Per tutto il giorno continuarono a insolentirsi, un
po' scherzando, un po' sul serio: ma nel pomeriggio ella uscì e
comprò un costume quasi nuovo da una donna il cui marito era
andato in America.
Verso sera Efix ritornò dalle sue padrone. Sì,
verso sera, come dopo una giornata di libertà passata
girovagando ozioso e scontento. Tutto era tranquillo e triste
lassù; il Monte s'affacciava sopra la casa nera, sul cielo
verdolino del crepuscolo, la luna nuova cadeva sopra il Monte, la
stella della sera tremolava sopra la luna.
Il portone era chiuso, l'erba cresceva lungo il muro
e sugli scalini come davanti a una casa abbandonata: ed Efix ebbe
paura a picchiare.
Vide la porticina di Grixenda che brillava come un
rettangolo d'oro sul muro nero, e ricordò l'incarico di
Zuannantoni.
Grixenda stava davanti alla fiammata ad asciugarsi le
sottane bagnate. Era scalza e le sue gambe dritte luccicavano
come fossero il bronzo. Vedendo l'uomo lasciò cadere le sottane
e rise, gridando di gioia nel riconoscerlo.
«Come, Grixenda! Tu vai ancora al fiume? Lo sposo te
lo permette?»
«E lui non lavora? E' forse un signore, lui? Se
fosse stato un signore io sarei sottoterra... Ebbene, non venite
avanti? Sedetevi: vi pesa, quella bisaccia? E piena d'oro? Avete
fatto fortuna, voi, zitto, zitto, maligno che siete!»
Egli sedette e mise la bisaccia per terra, e guardava
Grixenda, e Grixenda lo guardava maliziosa lasciandogli capire
che sapeva la verità.
«Ma anche noi, zio Efix, anche noi, io e Giacinto,
qualche cosa faremo. Possiamo anche diventar ricchi, zio Efix;
chi lo sa? Tutto è possibile nel mondo: io credo che tutto sia
possibile.»
«E non siete già ricchi? Chi più ricchi di voi?»
Ella si chinò su di lui, graziosa e infantile come
un tempo.
«E' questo che dicevo, sempre! Quando le vostre dame
non volevano, che io e Giacinto ci sposassimo, perché io son
povera, io dicevo: non son giovane? Non gli voglio bene? Forse
che donna Noemi e don Predu, con tutta la loro roba, sono più
ricchi di noi? Di anni, sì, se vogliono, non di altro!»
Efix trasalì.
«Si sposano?»
«Si sposano, sì! Egli si consumava come mi
consumavo io questa primavera scorsa. Dicevano ch'era ammaliato.
Era ammaliato, sì! Malìa d'amore. Andò persino ad Oliena a
consultare la fattucchiera. Ultimamente, la settimana scorsa, è
andato alla Madonna di Gonare, in pellegrinaggio, ed ha fatto
un'offerta di tre scudi, per ottenere il miracolo. Così dicono i
maligni!»
Efix guardava pensieroso per terra, fra le sue
ginocchia.
«Devo tornare?», si domandava. «Non crederanno sia
il vento della buona fortuna che mi riporta?»
E d'improvviso, per un attimo, gli dispiacque che
Noemi avesse acconsentito prima ch'egli tornasse. Ma subito
s'alzò pentito umiliato. Ah, com'era peccatore ancora!
«Tu credi che don Predu sia là?», domandò
volgendosi prima di uscire.
«Io sono qui, non sono là, zio Efix!», disse
Grixenda, correndogli appresso ridente; «e non posso neppure
dire: vado a guardare perché le vostre padrone chiudono a doppio
giro il portone quando mi vedono!»
Egli andò; ma ancora una volta il suo cuore
palpitava convulso, e gli parve che i colpi battuti al portone
gli si ripercotessero dentro le viscere.