Invano però nei giorni seguenti e per intere
settimane le dame Pintor aspettarono il nipote.
Donna Ester fece il pane apposta, un pane bianco e
sottile come ostia, quale si fa solo per le feste, e di nascosto
dalle sorelle comprò anche un cestino di biscotti. Dopo tutto
era un ospite, che arrivava, e l'ospitalità è sacra. Donna Ruth
a sua volta sognava ogni notte l'arrivo del nipote, e ogni giorno
verso le tre, ora dell'arrivo della diligenza, spiava dal
portone. Ma l'ora passava e tutto restava immoto intorno.
Ai primi di maggio donna Noemi rimase sola in casa
perché le sorelle andarono alla festa di Nostra Signora del
Rimedio, come usavano tutti gli anni, da tempo immemorabile, per
penitenza, - dicevano - ma anche un poco per divertimento.
Noemi non amava né l'una né l'altro, eppure, mentre
sedeva all'ombra calda della casa, in quel lungo pomeriggio
luminoso, seguiva col pensiero nostalgico il viaggio delle
sorelle. Rivedeva la chiesetta grigia e rotonda simile a un gran
nido capovolto in mezzo all'erba del vasto cortile, la cinta di
capanne in muratura entro cui si pigiava tutto un popolo
variopinto e pittoresco come una tribù di zingari, il rozzo
belvedere a colonne, sopra la capanna destinata al prete, e lo
sfondo azzurro, gli alberi mormoranti, il mare che luccicava
laggiù fra le dune argentee. Pensando a queste dolci cose, Noemi
sentiva voglia di piangere, ma si morsicava le labbra, vergognosa
davanti a se stessa della sua debolezza.
Tutti gli anni la primavera le dava questo senso
d'inquietudine: i sogni della vita rifiorivano in lei, come le
rose fra le pietre dell'antico cimitero; ma ella capiva che era
un periodo di crisi, un po' di debolezza destinata a cessare coi
primi calori estivi, e lasciava che la sua fantasia viaggiasse,
spinta dalla stessa calma sonnolenta che stagnava attorno, sul
cortile rosso di papaveri, sul Monte ombreggiato dal passaggio di
qualche nuvola, sull'intero villaggio metà dei cui abitanti era
alla festa.
Eccola dunque col pensiero laggiù.
Le par d'essere ancora fanciulla, arrampicata sul
belvedere del prete, in una sera di maggio. Una grande luna di
rame sorge dal mare, e tutto il mondo pare d'oro e di perla. La
fisarmonica riempie coi suoi gridi lamentosi il cortile
illuminato da un fuoco d'alaterni il cui chiarore rossastro fa
spiccare sul grigio del muro la figura svelta e bruna del
suonatore, i visi violacei delle donne e dei ragazzi che ballano
il ballo sardo. Le ombre si muovono fantastiche sull'erba
calpestata e sui muri della chiesa; brillano i bottoni d'oro, i
galloni argentei dei costumi, i tasti della fisarmonica: il resto
si perde nella penombra perlacea della notte lunare. Noemi
ricordava di non aver mai preso parte diretta alla festa, mentre
le sorelle maggiori ridevano e si divertivano, e Lia accovacciata
come una lepre in un angolo erboso del cortile forse fin da quel
tempo meditava la fuga.
La festa durava nove giorni di cui gli ultimi tre
diventavano un ballo tondo continuo accompagnato da suoni e
canti: Noemi stava sempre sul belvedere, tra gli avanzi del
banchetto; intorno a lei scintillavano le bottiglie vuote, i
piatti rotti, qualche mela d'un verde ghiacciato, un vassoio e un
cucchiaino dimenticati; anche le stelle oscillavano sopra il
cortile come scosse dal ritmo della danza. No, ella non ballava,
non rideva, ma le bastava veder la gente a divertirsi perché
sperava di poter anche lei prender parte alla festa della vita.
Ma gli anni eran passati e la festa della vita s'era
svolta lontana dal paesetto, e per poterne prender parte sua
sorella Lia era fuggita da casa...
Lei, Noemi, era rimasta sul balcone cadente della
vecchia dimora come un tempo sul belvedere del prete.
Verso il tramonto qualcuno batté al portone
ch'ella teneva sempre chiuso.
Era la vecchia Pottoi che veniva per domandarle se
occorrevano i suoi servizi; benché Noemi non la invitasse a
restare sedette per terra, con le spalle al muro, sciogliendosi
il fazzoletto sul collo ingemmato, e cominciò a parlare con
nostalgia della festa.
«Tutti son laggiù; anche i miei nipotini, Nostra
Signora li aiuti. Ah, tutti son laggiù e han fresco, perché
vedono il mare...»
«E perché non siete andata anche voi?»
«E la casa, missignoria? Per quanto povera, una casa
non deve esser mai abbandonata del tutto: altrimenti ci si
installa il folletto. I vecchi rimangono, i giovani vanno!»
Sospirò, curvando il viso per guardarsi e
aggiustarsi i coralli sul petto, e raccontò di quando anche lei
andava alla festa con suo marito, sua figlia, le buone vicine.
Poi sollevò gli occhi e guardò verso l'antico cimitero.
«Di questi giorni mi par di rivedere tutti i morti
risuscitati. Tutti andavano a divertirsi, laggiù. Mi sembra di
rivedere la madre di vossignoria, donna Maria Cristina, seduta
sulla panca all'angolo del grande cortile. Sembrava una regina,
con la gonna gialla e lo scialle nero ricamato. E le donne di
tanti paesi le stavano sedute intorno come serve... Essa mi
diceva: Pottoi, vieni, assaggia questo caffè; cosa ti pare, è
buono? - Sì, così umile era. Ah, per questo non amo neppure
tornare laggiù; mi pare che ci ho lasciato qualche cosa e che
non la ritroverei più...»
Noemi assentì vivacemente, con la testa reclinata
sul lavoro; la voce della vecchia le sembrava l'eco del suo
passato.
«E don Zame, missignoria? Era l'anima della festa.
Gridava, spesso, sembrava la burrasca, ma in fondo era buono.
L'arcobaleno c'è sempre, dietro la tempesta. Ah, sì, proprio in
questi giorni, quando sto seduta giù a filare, mi sembra di
sentire un passo di cavallo... Eccolo, è lui che va alla festa,
sul suo cavallo nero, con le bisacce piene... Passa e mi saluta:
Pottoi, vieni in groppa? Su, mala fata!»
Ella rifaceva commossa la voce del nobile morto; poi,
a un tratto, seguendo i suoi pensieri, domandò:
«E questo don Giacintino non arriva più?».
Noemi s'irrigidì, perché non permetteva a nessuno
di immischiarsi nei fatti di casa sua.
«Se verrà ch'egli sia il benvenuto», rispose
fredda; ma andata via la vecchia riprese il filo dei suoi
pensieri. Riviveva talmente nel passato che il presente non la
interessava quasi più.
A misura che l'ombra calda della casa copriva il
cortile e l'odore dell'euforbia arrivava dalla pianura, ricordava
più intensamente la fuga di Lia. Ecco, è un tramonto come
questo: il Monte bianco e verde incombe sulla casa, il cielo è
tutto d'oro. Lia sta su nelle camere di sopra e vi si aggira
silenziosa; s'affaccia al balcone, pallida, vestita di nero, coi
capelli scuri che par riflettano un po' l'azzurro dorato del
cielo; guarda laggiù verso il castello, poi d'improvviso solleva
le palpebre pesanti e si scuote tutta agitando le braccia. Pare
una rondine che sta per spiccare il volo. Scende, va al pozzo,
innaffia i fiori, e mentre il profumo dolce della violacciocca si
mesce all'odore acre dell'euforbia, le prime stelle salgono sopra
il Monte.
Lia va a sedersi sull'alto della scala, con la mano
sulla corda, gli occhi fissi nella penombra.
Noemi la ricordava sempre così, come l'aveva veduta
l'ultima volta passandole accanto per andare a letto. Dormivano
assieme nello stesso letto, ma quella sera ella l'aveva attesa
invano. S'era addormentata aspettandola e ancora l'aspettava...
Il resto le si confondeva nella memoria: ore e giorni
d'ansia e di terrore misterioso come quando si ha la febbre
alta... Rivedeva solo il viso livido e contratto di Efix che si
curvava a guardare per terra quasi cercasse un oggetto smarrito.
«Padrone mie, zitte, zitte!», mormorava, ma egli
stesso era poi corso per il paese domandando a tutti se avevano
veduto Lia; e si curvava a guardare entro i pozzi, e spiava le
lontananze.
Poi era tornato don Zame...
A questo ricordo un fragore di tempesta echeggiava
nella memoria di Noemi; ogni volta ella sentiva il bisogno di
muoversi, come per rompere un incubo.
S'alzò dunque e salì nella sua camera, la stessa
ove un tempo dormiva con Lia: lo stesso letto di ferro
arrugginito a foglie d'oro stinte, a grappoli d'uva di cui solo
qualche acino conservava come nei grappoli veri acerbi un po' di
rosso e di violetto: le stesse pareti imbiancate con la calce, i
quadretti con cornici nere, con antiche stampe di cui nessuno in
casa conosceva il valore: lo stesso armadio tarlato, sopra la cui
cornice arance e limoni in fila luccicavano al tramonto come pomi
d'oro.
Noemi aprì l'armadio per rimettere il lavoro, e il
cardine stridette nel silenzio come una corda di violino, mentre
il sole già senza raggi gettava un chiarore roseo sulla
biancheria disposta sulle assi rivestite di carta turchina.
Tutto era in ordine là dentro: in alto alcune
trapunte logore, tappeti di seta, coperte di lana che il lungo
uso aveva ingiallito come lo zafferano: più giù la biancheria
odorosa di mele cotogne, e canestrini di asfodelo e di giunchi
sul cui sfondo giallino si disegnavano in nero i vasi, i pesci,
gl'idoletti dell'arte sarda primitiva.
Noemi rimise il suo lavoro entro uno di questi
canestrini, e ne sollevò un altro: sotto c'era un plico di
carte, le carte di famiglia, gli stromenti, i legati, gli atti di
una lite, stretti forte da un nastrino giallo contro il
malocchio. Il nastrino giallo che non aveva impedito alle terre
di passare in altre mani e alla lite di esser vinta dagli
avversari, legava alle carte morte una lettera che Noemi, ogni
volta che sollevava il panierino, guardava come si guarda dalla
riva del mare il cadavere di un naufrago respinto lentamente
dall'onda.
Era la lettera di Lia dopo la fuga.
Quel giorno Noemi aveva come il male del ricordo: la
lontananza delle sorelle e un'istintiva paura della solitudine la
riconducevano al passato. Lo stesso chiarore aranciato del
crepuscolo, il Monte coperto di veli violetti, l'odore della
sera, tutto le ridestava l'anima di vent'anni prima. Silenziosa,
nera nel chiarore tra la finestruola e l'armadio, sembrava essa
stessa una figura del passato, salita su dall'antico cimitero per
visitare la casa abbandonata. Rimise in ordine le trapunte e i
cestini; chiuse, riaprì: l'armadio strideva e pareva la sola
cosa viva della casa.
Finalmente si decise e strappò la lettera dal fascio
di carte; era ancora bianca, entro la busta bianca; sembrava
scritta ieri e che nessuno ancora l'avesse letta.
Noemi sedette sul letto, ma aveva appena svolto il
foglio e messo una mano sul pomo d'ottone che qualcuno picchiò,
giù: prima un colpo, poi tre, poi incessantemente.
Ella sollevò la testa, guardando verso il cortile
con occhi spaventati.
«Il postino non può essere: è già passato...»
I colpi echeggiavano nel cortile silenzioso: così
picchiava suo padre quando tardavano ad aprirgli...
Abbandonò la lettera e corse giù, ma arrivata al
portone si fermò ad ascoltare: il cuore le batteva come se i
colpi arrivassero al petto.
«Signore! Signore! Non può esser lui...»
Finalmente domandò un po' aspra:
«Chi è?».
«Amici», rispose una voce straniera.
Ma Noemi non riusciva ad aprire, tanto le tremavano
le mani.
Un uomo giovane che pareva un operaio, alto e
pallido, vestito di verde, con le scarpe gialle polverose e i
piccoli baffi in colore delle scarpe, stava davanti al portone
appoggiato a una bicicletta. Appena vide Noemi si tolse il
berretto che lasciava l'impronta sui folti capelli dorati, e le
sorrise mostrando i bei denti fra le labbra carnose.
Ella lo riconobbe subito agli occhi, occhi grandi a
mandorla, d'un azzurro verdognolo; erano ben gli occhi dei
Pintor, ma il suo turbamento aumentò quando lo straniero balzato
sugli scalini del portone la strinse forte fra le sue braccia
dure.
«Zia Ester! Sono io... E le zie?»
«Sono Noemi...», ella disse un poco umiliata: ma
tosto s'irrigidì. «Non ti aspettavamo. Ester e Ruth sono alla
festa...»
«C'è una festa?», egli disse tirando su la
bicicletta a cui era legata una valigia polverosa. «Ah, sì,
ricordo: la festa del Rimedio. Ah, ecco...»
Gli sembrava di riconoscere il luogo dov'era. Ecco il
portico tante volte ricordato da sua madre: egli vi spinse la
bicicletta e cominciò a slegare la valigia battendovi su un
fazzoletto per togliere la polvere.
Noemi pensava:
«Bisogna chiamare zia Pottoi, bisogna mandar da
Efix... Come farò, sola? Ah, esse lo sapevano che doveva
arrivare, e mi han lasciata sola...».
L'abbraccio di quell'uomo sconosciuto, arrivato non
si sa da dove, dalle vie del mondo, le destava una vaga paura; ma
ella sapeva bene i doveri dell'ospitalità e non poteva
trascurarli.
«Entra. Vuoi lavarti? Porteremo poi su la valigia:
chiamerò una donna che ci fa i servizi... Adesso son sola in
casa... e non ti aspettavo...»
Cercava di nascondere la loro miseria; ma pareva
ch'egli conoscesse anche questa, perché senza attender d'esser
servito, dopo aver portato la valigia nella camera che zia Ester
aveva già preparato per lui - l'antica camera per gli ospiti, in
fondo al balcone - ridiscese disinvolto e andò a lavarsi al
pozzo come il servo.
Noemi lo seguiva con l'asciugamano sul braccio.
«Sì, da Terranova, son venuto. Che strada! Si vola!
Sì, devo esser passato davanti alla chiesa, ma non mi sono
accorto della festa. Sì, il paese sembra deserto: è molto
decaduto, sì...»
Rispondeva sì a tutte le domande di Noemi, ma pareva
molto distratto.
«Perché non ho scritto? Dopo la lettera di zia
Ester stavo incerto. Poi sono stato anche malato e... non
sapevo... A dirvi la verità mi son deciso avantieri; c'era un
amico che partiva. Allora, ieri, visto che il mare era calmo,
sono partito...»
Asciugandosi, si dirigeva verso la cucina. Noemi lo
seguiva.
«Ester gli ha scritto! E lui è partito, così, come
alla festa!»
Egli sedette sull'antica panca, di faccia al Monte
che gettava la sua ombra violetta nella cucina, accavalcò le
lunghe gambe, incrociò sul petto le lunghe braccia palpandosele
con le mani bianche. Noemi osservò che le calze di lui erano
verdi, un colore strano davvero per calze da uomo, e accese il
fuoco ripetendo fra se:
«Ah, Ester gli ha scritto di nascosto? Che se lo
curi lei, adesso!».
E provava un vago timore a voltarsi, a guardare
quella figura d'uomo un po' tutta strana, verde e gialla,
immobile sulla panca dalla quale pareva non dovesse alzarsi più.
Ma egli ricominciò a parlare del viaggio, della
strada solitaria, e domandò quanto s'impiegava per arrivare a
Nuoro. Voleva recarsi a Nuoro: c'era lassù l'amministratore di
un molino a vapore, amico di suo padre, che gli aveva promesso un
posto.
Noemi si sollevò sorridente.
«Quanto ci vuole? Non so dirtelo, quanto ci vuole in
bicicletta. Poche ore. Io sono stata a Nuoro molti anni fa, a
cavallo. La strada è bella, e la città è bella, sì; l'aria è
buona, la gente è buona. Là non ci sono febbri, come qui, e
tutti possono lavorare e guadagnare. Tutti i forestieri son
diventati ricchi, lassù, mentre, qui, pare d'essere in luogo di
morti...»
«Sì, sì, è vero!»
Ella andò a prender le uova per fare una frittata.
«Vedi, qui non c'è neanche carne, tutti i giorni;
di vino non se ne trova più... E questo amministratore del
molino, come si chiama? Tu lo conosci?»
No, egli non lo conosceva, ma era certo che andando a
Nuoro avrebbe ottenuto il posto.
Noemi sorrideva con rancore e con ironia, curva a
punger la frittata: si fa presto a dire che si trova un posto!
C'è tanta gente in cerca di posti!
«Ma tu hai lasciato quello che avevi?», domandò in
fretta senza sollevar gli occhi.
Giacinto non rispose subito; pareva molto preoccupato
per l'esito della frittata che ella rivoltava cautamente.
Alcune gocce di olio caddero sulle brace, inondando
la cucina di fumo grasso; poi la padella riprese a friggere
tranquilla e Giacinto disse:
«Era una cosa tanto meschina! E neppur sicura... Con
tanta responsabilità!...».
Non disse altro, e Noemi non domandò altro. La
speranza ch'egli se ne andasse presto a Nuoro la rendeva buona e
paziente. Apparecchiò la tavola nell'attigua camera da pranzo
abbandonata e umida come una cantina, e cominciò a servirlo
scusandosi di non potergli offrire altro.
«In questo paese bisogna contentarsi...»
Giacinto schiacciava le noci con le sue forti mani,
tendendo l'orecchio al tintinnio delle greggi che passavano
dietro la casa. Era quasi notte; il Monte era diventato scuro e
là dentro in quell'umida stanza dalle pareti macchiate di verde
pareva d'essere in una grotta, lontani dal mondo. Le descrizioni
che Noemi faceva della festa lo suggestionavano. Egli la
guardava, un po' stanco e assonnato, e quella figura nera sullo
sfondo ancora lucido del finestrino, coi capelli folti e le mani
piccole appoggiate al tavolo melanconico, doveva ricordargli i
racconti nostalgici di sua madre, perché cominciò a domandar
notizie di persone del paese che erano morte o di cui Noemi non
s'interessava affatto.
«Zio Pietro? Com'è questo zio Pietro? E' il più
ricco, vero? Quanto può possedere?»
«E' ricco, sì, certo: ma è una testa! Superbo come
un giudeo.»
«Egli dà denari a usura?»
Noemi arrossì, perché sebbene le relazioni col
cugino fossero tese, le sembrava un'ingiuria personale dare
dell'usuraio a un nobile Pintor.
«Chi te lo ha detto, questo? Ah, non dirlo neanche
per scherzo...»
«Il Rettore e la sorella, però, sono usurai
davvero. Sono ricchi? Quanto posseggono?»
«Neanche loro, che dici? Forse forse il Milese, ma
un'usura giusta: il trenta per cento, non di più...»
«E' questa un'usura giusta? Ah, com'è allora
l'altra?»
Allora Noemi si curvò sul tavolo e mormorò:
«Anche il mille per cento... E anche di più,
qualche volta».
Ma invece di meravigliarsi, Giacinto si versò da
bere e disse pensieroso:
«Sì, anche da noi l'usura e diventata enorme... Il
nipote del cardinale Rampolla si è rovinato così!...».
Dopo cena volle uscire. Domandò dov'era la posta, e
Noemi lo condusse fino alla strada, indicandogli la piazzetta in
fondo verso la casa del Milese.
Appena egli si fu allontanato, ella si guardò
attorno e scese fino alla casupola della vecchia Pottoi. La
porticina era aperta, ma dentro tutto era nero, e solo ai
richiami timidi di Noemi la vecchia s'avanzò dalla profondità
scura della stamberga con un tizzone acceso in mano. Il barlume
rossastro faceva scintillare i suoi gioielli.
«Zia Pottoi, sono io: bisogna che mandiate subito
qualcuno a chiamare Efix. E' arrivato Giacinto. E poi voi verrete
a dormire con me. Ho paura a star sola... con un forestiero...»
«Andrò a chiamare qualcuno per mandarlo al podere.
Ma io dalla vossignoria non vengo, no: la casa non la lascio in
balìa del folletto...»
E perchè durante la sua assenza il folletto non
entrasse, lasciò il tizzone acceso sulla soglia della porta.