All'alba Efix s'avviò al villaggio.
Gli usignoli cantavano, e tutta la valle era color
d'oro - un oro azzurrognolo per il riflesso del cielo luminoso.
Qualche figura di pescatore si disegnava immobile come dipinta in
doppio sul verde della riva e sul verde dell'acqua stagnante fra
i ciottoli bianchi.
Benché fosse presto, quando arrivò al villaggio,
Efix vide l'usuraia filare nel suo cortile, fra i porcellini
grassi e i colombi in amore, e la salutò accennandole che
sarebbe passato più tardi; ma ella rispose agitando il fuso:
ella poteva aspettare, non aveva fretta.
Più su, ecco zia Pottoi, con una ciotola di latte
per la colazione dei ragazzi. Efix cercò di passare oltre, ma la
vecchia cominciò a parlar alto ed egli dovette
fermarsi per ascoltarla.
«Ebbene, che ti ho fatto? Perché i ragazzi si
voglion bene, dobbiamo odiarci noi, vecchi?»
«Ho fretta, comare Pottoi.»
«Lo so, c'è chiasso, in casa delle tue padrone. Ma
la colpa non è mia. Io ci perdo, in questa occasione. Il tuo
padroncino vuole che Grixenda stia a casa, che non vada più
scalza, che non vada più a lavare. Io devo fare la serva; ma lo
faccio con piacere poiché si tratta di render felici i
ragazzi...»
«Signore, aiutaci!», sospirò Efix. «Lasciatemi,
comare Pottoi. Pregate Cristo, pregate Nostra Signora del
Rimedio...»
«Il rimedio è in noi», sentenziò la vecchia.
«Cuore, bisogna avere, null'altro...»
«Cuore, bisogna avere», ripeteva Efix fra se,
entrando dalle sue padrone.
Tutto era silenzio e sole nel cortile: fiorivano i
gelsomini sopra il pozzo e le ossa dei morti fra l'erba d'oro
dell'antico cimitero. Il Monte circondava col suo cappuccio verde
e bianco la casa; una colonnina istoriata era caduta dal balcone
e giaceva in mezzo ai sassolini come l'avanzo di un razzo. Tutto
era silenzio. Efix entrò e vide che il cestino mandato da lui
con don Predu era quasi vuoto sopra il sedile, segno che gli
ortaggi eran già stati venduti: rimanevano solo i pomini gialli
di San Giovanni: gli parve quindi di aver sognato. Sedette e
domandò:
«Dove son le altre? Che è accaduto?».
«Ester è a messa, Noemi è su», disse donna Ruth,
curva a preparare il caffè.
E non disse altro, finché non arrivarono le sorelle,
donna Ester col dito fuori dell'incrociatura dello scialle, Noemi
pallida silenziosa con le palpebre violette abbassate.
Efix non osava guardarle; s'alzò rispettoso davanti
a loro che prendevano posto sul sedile, e solo dopo che donna
Ester ebbe domandato:
«Efix, sai che succede?», egli sollevò gli occhi e
vide che Noemi lo fissava come il giudice fissa l'accusato.
«Lo so. La colpa è mia. Ma l'ho fatto a scopo di
bene.»
«Tu fai tutto, a scopo di bene! Sarebbe bella che lo
facessi a scopo di male, anche! Ma intanto...»
«Ebbene, non era poi un nemico! E' un parente, alla
fine!»
«Gente tua, morte tua, Efix!»
«Ebbene, non accadrà più, vuol dire!»
«E' partito?», domandò allora donna Ester,
turbandosi.
«Partito? Don Predu? Dove?»
«Chi parla di Predu? Io parlavo di quel
disgraziato.»
Efix guardò il cestino.
«Io volevo dire per don Predu... per quello che ho
fatto ieri.»
Noemi sorrise, ma un sorriso che le torse la bocca e
l'occhio verso l'orecchio sinistro.
«Efix», disse con voce aspra, «noi parliamo di
Giacinto. Tu, quando si trattava di farlo venire, dicesti:
"Se si comporta male penso io a mandarlo via". Hai sì
o no detto questo?»
«Lo dissi.»
«E allora tieni la promessa. Giacinto è la nostra
rovina.»
Efix abbassò un momento la testa: arrossiva e aveva
vergogna di arrossire, ma subito si fece coraggio e domandò:
«Posso dire una parola? Se è mal detta è come non
detta».
«Parla pure.»
«Il ragazzo a me non sembra cattivo. E' stato finora
mal guidato: ha perduto i genitori nel peggior tempo per lui, ed
è rimasto come un bambino solo nella strada e s'è perduto.
Bisogna ricondurlo nella buona via. Adesso, qui, in paese, non sa
che fare; ha la febbre, s'annoia, va perciò a giocare e a fare
all'amore. Ma ha idee buone, è beneducato. Vi ha mancato mai di
rispetto?...»
«Questo no...», proruppe donna Ester, e anche donna
Ruth fece cenno di no. Ma Noemi disse con voce amara, stringendo
lentamente i pugni e stendendoli verso Efix:
«Dacché è venuto non ha fatto altro che mancarci
di rispetto. Già, è venuto senza dir nulla... Appena arrivato
ha fatto relazione con tutta la gente che ci disprezza. Poi s'è
messo a far all'amore con la ragazza della peggior razza di
Galte. Una che va scalza al fiume! Ed è stato ozioso, e vive nel
vizio, tu stesso lo dici. Se questo non è mancare di rispetto a
noi, alla casa nostra, che cos'è? Dillo tu, in tua
coscienza...».
«E' vero», ammise Efix. «Ma è un ragazzo, ripeto.
Bisognerebbe aiutarlo, cercargli un'occupazione. Poi vorrei dire
un'altra cosa...»
«E parla pure!», disse Noemi, ma con tale disprezzo
ch'egli si sentì gelare. Tuttavia osò:
«Io credo che gli gioverebbe aver famiglia propria.
Se ama davvero quella ragazza... perché non lasciargliela
sposare?...».
Noemi balzò su, appoggiando le gambe tremanti al
sedile.
«Ti ha pagato, per parlare così?»
Allora egli ebbe il coraggio di guardarla negli
occhi, e una risposta sola: «io non sono avvezzo a esser
pagato» gli riempì la bocca di saliva amara; ma ringhiottì
parole e saliva perché vedeva donna Ester tirar la giacca di
Noemi, e donna Ruth pallida guardarlo supplichevole, e capiva
ch'esse tutte indovinavano la sua risposta, e sapevano che non
era un servo da esser pagato lui; o meglio, sì, un servo, ma un
servo che nessun compenso al mondo poteva retribuire.
«Donna Noemi! Lei dice cose che non pensa, donna
Noemi! Suo nipote non ha denari, per potermi pagare, e quando
anche ne avesse non gli basterebbero!», disse tuttavia, vibrante
di rancore, e Noemi tornò a sedersi, posando le mani sulle
ginocchia quasi per nascondere il tremito.
«In quanto a denari ne ha! Non suoi, ma ne ha.»
«E chi glieli dà?»
Sei occhi lo fissarono meravigliati: Noemi tornò a
sogghignare; ma donna Ester posò una mano sulla mano di lei e
parlò con dolcezza.
«Egli prende i denari da Kallina. Noi credevamo che
tu lo sapessi, Efix! Prende i denari da Kallina, a usura, e Predu
gli ha firmato qualche cambiale perché spera di toglierci il
poderetto. Comprendi!»
Egli comprendeva. A testa curva, a occhi chiusi,
livido, apriva e chiudeva i pugni spaventato e non gli riusciva
di rispondere.
«E loro credevano ch'io sapessi? E come?... e
perché?...», si domandava.
«Sì», disse Noemi con crudeltà. «Noi credevamo
che tu lo sapessi, non solo, ma che gli facessi garanzia presso
la tua amica Kallina...»
«La mia amica?», egli gridò allora aprendo gli
occhi spauriti. E vide rosso. Gridò ancora qualche parola, ma
senza sapere quel che diceva, e corse via agitando la berretta
come andasse a spegnere un incendio.
Si trovò nel cortiletto dell'usuraia.
Tutto era pace là dentro come nell'arca di Noè. Le
colombe bianche tubavano, con le zampe di corallo posate
sull'architrave della porticina sotto un tralcio di vite che
gettava una ghirlanda d'oro sulla sua ombra nera; e in questa
cornice l'usuraia filava, coi piccoli piedi nudi entro le
scarpette ricamate, il fazzoletto ripiegato sulla testa.
Lo spasimo di Efix turbò la pace del luogo.
«Dimmi subito come va l'affare di don Giacinto.»
L'usuraia sollevò le sopracciglia nude e lo guardò
placida.
«Ti manda lui?»
«Mi manda il boia che ti impicchi! Parla, e subito,
anche.»
Con un gesto minaccioso le fermò il fuso ed ella
ebbe paura ma non lo dimostrò.
«Ti mandano le tue dame, allora? Ebbene, dirai loro
che non si prendano pensiero. C'è tempo, a pagare, non ho
fretta. In tutto ho dato quattrocento scudi, al ragazzo. Egli
cominciò a chiedermi i quattrini quando eravamo alla festa.
Voleva far bella figura. Diceva che aspettava denari dal
Continente. Mi rilasciò una cambiale firmata da don Predu. Come
potevo dire di no? Dopo, ritornò, qui. Mi disse che i denari del
Continente li aveva giocati col Milese e li aveva perduti. Io gli
dissi che portavo la cambiale da don Predu: allora si spaventò e
me ne portò un'altra firmata da donna Ester. Allora gli diedi
altri denari. Come potevo dire di no? Tu non sapevi nulla?»,
ella concluse riprendendo a filare.
Efix era annientato. Ricordava che donna Ester aveva
di nascosto scritto a Giacinto di venire; di nascosto poteva
anche aver firmato la cambiale. Come avrebbero pagato? Gli pareva
di non potersi più muovere, d'aver le gambe gonfie, pesanti di
tutto il sangue che gli calava giù lasciandogli vuoto il cuore e
la testa e le mani inerti. Come avrebbero pagato?
E l'usuraia filava e le colombe tubavano, e le
galline beccavano le mosche sulla pancia rosea dei porcellini
stesi al sole: tutto il mondo era tranquillo. Lui solo spasimava.
«Ah, dunque non lo sapevi? Io credevo che parte del
denaro l'avessero tenuto loro, le dame, per pagarti. Anzi volevo
proporre a don Giacinto di scontare i dieci scudi che tu mi devi,
ma in fede mia poi ho pensato che non andava bene: se però,
rinnovando la cambiale, vogliamo fare tutto un conto...»
Efix fece uno sforzo per muoversi: si strappò di
nuovo la berretta dal capo e cominciò a sbattergliela sul viso,
pazzo di disperazione.
«Ah, maledetta tu sii... ah, che il boia
t'impicchi... ah, che hai fatto?»
Nel cortiletto fu tutto un subbuglio; le colombe
volarono sul tetto, i gatti s'arrampicarono sui muri; solo la
donna taceva per non far accorrere gente, ma si curvò per
sfuggire ai colpi e si difese col fuso, balzando,
indietreggiando, e quando fu dentro la cucina si volse verso
l'angolo dietro la porta, afferrò con tutte e due le mani un
palo di ferro e si drizzò, ferma contro la parete, terribile
come una Nemesi con la clava.
E fu fei allora a far indietreggiare l'uomo,
dicendogli sottovoce, minacciosa:
«Vattene, assassino! Vattene...».
Egli indietreggiava.
«Vattene! Che vuoi da me, tu? Vengo io, a cercarvi,
forse? Venite voi tutti, da me, quando la fame o i vizi vi
spingono. E' venuto don Zame, son venute le sue figlie, è venuto
suo nipote. Sei venuto anche tu, assassino! E quando avete
bisogno siete buoni, e poi diventate feroci come il lupo
affamato. Vattene...»
Efix era sulla porta: ella lo incalzava.
«Anzi ti devo dire che non voglio più pazientare,
giacché mi trattate così. O alla scadenza, in settembre, mi
pagate, o protesto la cambiale. E se la firma è falsa, metto il
ragazzo in prigione. Va'!»
Egli se ne andò. Ma non tornò a casa; andava andava
per il paesetto deserto sotto il sole: inciampava nelle pietre
vulcaniche sparse qua e là, e gli pareva che il terremoto
ricordato dalla tradizione fosse avvenuto quella mattina stessa.
Egli s'aggirava tra le rovine; e gli sembrava di aver
l'obbligo di scavare, di ritrarre i cadaveri dalle macerie, i
tesori di sottoterra, ma di non potere, così solo com'era, così
debole, così incerto sul punto da incominciare.
Passando davanti alla Basilica vide ch'era aperta ed
entrò. Non c'era messa, ma la guardiana puliva la chiesa, e
s'udiva il frusciar della scopa, nel silenzio della penombra,
come se le antiche castellane vi passassero coi loro vestiti di
broccato dallo strascico stridente.
Efix s'inginocchiò al solito posto sotto il pulpito,
appoggiò la testa alla colonna e pregò. Il sangue tornava a
circolargli nelle vene, ma caldo e pesante come lava; la febbre
lo pungeva tutto, i raggi obliqui di polviscolo argenteo che
cadevano dal tetto in rovina gli parevano buchi bianchi sul
pavimento nero, e le figure pallide dei quadri guardavano tutte
giù, si curvavano, stavano per staccarsi e cadere.
La Maddalena si spinge in avanti, affacciata alla sua
cornice nera sul limite dell'ignoto. L'amore, la tristezza, il
rimorso e la speranza le ridono e le piangono negli occhi
profondi e sulla bocca amara.
Efix la guarda, la guarda, e gli sembra di ricordare
una vita anteriore, remotissima, e gli sembra che ella gli
accenni di accostarsi, di aiutarla a scendere, di seguirla...
Chiuse gli occhi. La testa gli tremava. Gli pareva di
camminare con lei sulla sabbia lungo il fiume, sotto la luna:
andavano, andavano, silenziosi cauti; arrivavano allo stradone
accanto al ponte. Laggiù la sua visione si confondeva. C'era un
carro su cui Lia sedeva, nascosta in mezzo a sacchi di scorza. Il
carro spariva nella notte, ma sul ponte, sotto la luna, rimaneva
don Zame morto, steso sulla polvere, con una macchia gonfia
violetta come un acino d'uva sulla nuca. Efix s'inginocchiava
presso il cadavere e lo scuoteva.
«Don Zame, padrone mio, su, su! Le sue figliuole
l'aspettano.»
Don Zame restava immobile.
E singhiozzò così forte che la guardiana s'accostò
a lui con la scopa.
«Efix, che hai? Stai male?»
Egli spalancò gli occhi spauriti e gli parve di
vedere ancora Kallina col palo che gli gridava: «Assassino!».
«Ho la febbre... mi par di morire. Vorrei
confessarmi...»
«E vieni proprio qui? Se non ti confessi col
Cristo!», mormorò la guardiana sorridendo ironica; ma Efix
appoggiò di nuovo la fronte alla colonna del pulpito e con gli
occhi sollevati verso l'altare cominciò a balbettare confuse
parole; grosse lagrime gli cadevano lungo il viso, deviavano
verso il mento tremulo, cadevano goccia a goccia fino a terra.
Giacinto lo aspettava sdraiato davanti alla capanna.
Appena lo vide venir su, con in mano il cestino che
sebbene vuoto pareva lo tirasse giù verso la terra, capì che si
sapeva tutto. Meglio! Così poteva liberarsi d'una parte
del peso che lo schiacciava, la più vergognosa: il silenzio.
«Raccontami», disse mentre Efix sedeva al solito
posto senza abbandonare il cestino. «Racconta!», ripeté più
forte, poiché l'altro taceva. «Adesso?» Efix sospirò.
«E adesso? Le mie padrone si sono un po' calmate
perché ho promesso di cacciarti via, intendi? Esse credono che
le cambiali son davvero firmate da don Predu ed io non ho avuto
il coraggio di dir loro la verità perché le firme sono false,
vero? Ah, sì, è vero? Ah, Giacinto, anima mia, che hai fatto! E
adesso? Andrai a Nuoro? Lavorerai? Pagherai?»
«E' tanto... è una somma grossa, Efix... Come
fare?»
Ma Efix gli parlava sottovoce, curvo su lui
delirante:
«Va' figlio di Dio, va'! Io avrei voluto che tu non
andassi, ma se io stesso ti dico d'andartene è perché non c'è
altra salvezza. Ricordati le cose belle che dicevi, l'altra sera.
Dicevi: voglio che le zie stian bene, voglio che la casa
risorga... Queste cose le pensavo anch'io, quando tu dovevi
venire. E invece! Invece, se tu non paghi, l'usuraia metterà
all'asta il poderetto o ti caccerà in carcere per le firme
false; e loro dovranno domandare l'elemosina... Questo hai
fatto tu, questo! So che non l'hai fatto per male. Tu che
promettevi, l'altra sera, tante cose belle, tu, figlio di
Dio...».
La spalla di Giacinto ricominciò a tremare. Sollevò
il viso, sotto il viso reclinato di Efix, e si guardarono
disperati.
«Non l'ho fatto per male. Volevo guadagnare. Ma come
si fa, in questo paese? Tu lo sai, tu che sei rimasto così...
così... miserabile...»
«Le zie non rimetteranno un soldo», riprese, dopo
un momento di silenzio ansioso. «C'è, sì, anche la firma di
zia Ester; l'ho dovuta far io perché... l'usuraia non mi dava
credito. Ma io pagherò, vedrai: e se no, andrò in carcere. Non
importa. »
«Tu, dunque, Efix, hai denari?»
«Se ne avessi non sarei qui spezzato! Avrei già
ritirato le cambiali...»
«Che fare, Efix, allora? Che fare?»
«Ebbene, senti: tu andrai ancora dall'usuraia e ti
farai dare cento lire per recarti a Nuoro. Là cercherai il
posto. L'importante è di cambiar strada, adesso; di sollevarti
una buona volta. Intendi?»
Ma Giacinto, che fino all'ultimo momento aveva
sperato nell'aiuto del servo, non rispose, non parlò più.
Ripiegato su se stesso come una bestia malata, sentiva le
cavallette volare crepitando tra le foglie secche e seguiva con
uno sguardo stupido lo sbattersi delle loro ali iridate. Due gli
caddero sulla mano, intrecciate, verdi e dure come di metallo.
Egli trasalì. Pensò a Grixenda, pensò che doveva partire e non
rivederla più, così povero da rinunziare anche a una creatura
così povera. E affondò il viso tra l'erba, singhiozzando senza
piangere, con le spalle agitate da un tremito convulso.