Il contributo del De Vivo si segnala, oltre che per la finezza dell’analisi,
per l’ampiezza della bibliografia sfruttata con non comune acribia e per
l’interesse, anche al di fuori dell’àmbito della filologia germanica,
dei problemi che il caso specifico esaminato propone: l’interpretatio
nominis e la riflessione medievale sul nome proprio.
L’etimologia medievale non distingue tra nomina appellativa e nomina
propria: nel Liber etymologiarum d’Isidoro di Siviglia il nome
proprio non ha lo status di etichetta paragonabile a quello che
la moderna teoria linguistica tende ad attribuirgli, ma presenta piuttosto
la natura di ciò che oggi vien definito segno. I riferimenti teorici
dell’interpretatio nominis medievale sono fondamentalmente il Liber
interpretationis Hebraicorum nominum di Girolamo e il Liber etymologiarum
d’Isidoro. All’Autore appare ancora operante anche la tripartizione quintilianea
(Institutio oratoria I 4,25), fondata sulle diverse causae riconoscibili
nell’imposizione di un dato nome (ex habitu corporis, ex casu nascentium,
ex iis, quos post natus eveniunt).
Sfruttando dunque la riflessione antica e tardo-antica sull’etimologia
del nome proprio, l’Autore individua cinque categorie grazie alle quali
è possibile una classificazione delle interpretazioni onomastiche
presenti nell’Historia ecclesiastica gentis Anglorum di Beda. Ogni
categoria corrisponde a un procedimento individuato dalla speculazione
etimologica precedente al monaco di Jarrow e a lui ben nota, come dimostra
la ricostruzione del contenuto della biblioteca dei monasteri di Jarrow
e Wearmouth fatta dal Laistner. A etnici e antroponimi si applicano perlopiù
due interpretazioni, quella ex habitu corporis (gli Angli sono
detti così in quanto angelicam habent faciem) e quella ex
iis quae post natus eveniunt: Aelle (primo re di Deira dal 560
al 588) prefigura nel suo nome il fatto che nel suo regno verrà
cantato un giorno l’alleluia (qui, in verità, la categoria quintilianea
non sembra descrivere compiutamente l’interpretatio nominis come
prefigurazione di un destino, tipica dell’esegesi medievale).
Alcune delle etimologie riguardanti i nomi di luogo sono accomunate dalla
figura dell’antonomasia. Da un lato abbiamo toponimi che derivano da altri
toponimi adiacenti (la categoria isidoriana ex nominibus locorum, urbium
vel fluminum, Liber etymologiarum I, 29, 5): «In monasterio,
quod iuxta amnem Dacore constructum ab eo cognomen accepit» (Historia
Ecclesiastica IV, 32, p. 446, citata nell’edizione a cura di Colgrave
e Mynors [Oxford 1969]). Dall’altro gli eponimi, come Hrofaescaestir
(nome dell’attuale Rochester, Kent), che viene da Beda interpretato,
erroneamente, come ‘città di un capo di nome Hrof’ (in realtà
si tratta di una corruzione del nome celtico Dorubreuis).
Se nettamente minoritario è il procedimento che prevede l’instaurazione
di un rapporto causa-effetto (per esempio il luogo detto Ad Candidam
Casam deriva il nome dal fatto che «ibi ecclesiam de lapide,
insolito Brettonibus more, fecerit» [Historia ecclesiastica III,
4, p. 222]), la categoria della traduzione, intitolata isidorianamente
ex diversarum gentium sermone, è quella che contempla il
maggior numero di casi (ventidue su trentanove). Dietro tale prassi si
staglia il modello del Liber interpretationis Hebraicorum nominum,
nel quale sistematicamente viene fornita la traduzione dei nomi biblici
dall’ebraico al latino. Lo stesso procedimento investe molti dei nomi propri
dell’Historia ecclesiastica, come nel caso del toponimo celtico
Inisboufinde (oggi Inishbofin, isola antistante la contea
di Galway), glossato correttamente con Insula uitulae albae, o dell’etnico
anglosassone Nordanhymbri, spiegato nel modo che segue: Gens
quae ad boream Hymbri fluminis inhabitat. Convincente la motivazione
che l’Autore dà del fenomeno. Tali traduzioni manifestano, oltre
che, banalmente, l’esigenza di spiegare il significato di un nome proprio
della tradizione celtico-inglese altrimenti in parte o del tutto incomprensibile
al lettore, la volontà di conferire decoro a elementi lessicali
volgari (e profani) all’interno di un’opera latina di storia religiosa.
Nell’ultima parte del suo saggio l’Autore passa a esaminare la traduzione
anglosassone, compiuta verso la fine del IX secolo, dell’Historia ecclesiastica,
con l’intento di verificare «se all’esigenza continuamente avvertita
da Beda di spiegare il significato dei nomi propri [il traduttore] reagisca,
ancora, con una prassi coerente, o piuttosto adotti di volta in volta soluzioni
ad hoc» (p. 74). Dall’analisi risulta una continuità
sostanziale col testo bedaico per quanto riguarda le interpretazioni onomastiche.
Viene eliminato ciò che è superfluo, ossia le traduzioni
dei nomi anglosassoni, ma si accolgono le glosse ai nomi celtici, come
il già citato Inisboufinde, tradotto con Ealond hwitre
heahfore ‘Isola della vacca bianca’. E talvolta, trattando di toponimi
anglosassoni, alla traduzione viene sostuito, secondo lo spirito dell’originale,
un altro tipo di interpretazione. E’ il caso di Hefenfeld, glossato
da Beda Caelestis Campus, e che il traduttore anglosassone illustra
“figuralmente” (cito dalla versione italiana fornita dall’Autore): «Il
posto è detto in inglese Heofenfeld. E’ denominato in tal
modo da lungo tempo, quale segno dei futuri miracoli» (p. 80).
Gianluca D'Acunti