Un gran fuoco di lentischi, come lo aveva veduto
Noemi fanciulla, ardeva nel cortile di Nostra Signora del
Rimedio, illuminando i muri nerastri del Santuario e le capanne
attorno.
Un ragazzo suonava la fisarmonica, ma la gente,
ch'era appena uscita dalla novena e preparava la cena o già
mangiava entro le capanne, non si decideva a cominciare il ballo.
Era presto ancora: sul cielo lucido del crepuscolo
spuntavano le prime stelle, e dietro la torretta del belvedere
l'occidente rosseggiava spegnendosi a poco a poco.
Una gran pace regnava su quel villaggio improvvisato,
e le note della fisarmonica e le voci e le risate entro le
capanne parevano lontane.
Qua e là davanti ai piccoli fuochi accesi lungo i
muri si curvava la figura nera di qualche donna intenta a
cucinare.
Gli uomini, venuti alla vigilia per portare le
masserizie, eran già ripartiti coi loro carri e i loro cavalli:
rimanevano le donne, i vecchi, i bambini e qualche adolescente, e
tutti, sebbene convinti d'esser là per far penitenza, cercavano
di divertirsi nel miglior modo possibile.
Le dame Pintor avevano a loro disposizione due
capanne fra le più antiche (tutti gli anni ne venivan fabbricate
di nuove) dette appunto sas muristenes de sas damas,
perché divenute quasi di loro proprietà in seguito a regali e
donazioni fatte alla chiesa dalle loro ave fin dal tempo in cui
gli arcivescovi di Pisa nelle loro visite pastorali alle diocesi
sarde sbarcavano nel porto più vicino e celebravano messe nel
Santuario.
Ecco ancora, fra una capanna e l'altra, all'angolo
del cortile, il sedile di pietra addossato al muro ove zia Pottoi
aveva veduto donna Maria Cristina corteggiata come una Barona da
tutte le vassalle che si recavano in pellegrinaggio alla chiesa.
Adesso donna Ester e donna Ruth sedevano umili e nere
come due monache col fazzoletto bianco in testa e le mani sotto
il grembiale, pensando a Noemi lontana, a Giacinto lontano.
La loro cena era stata frugale: una zuppa di latte
che non gonfiava lo stomaco e lasciava il pensiero lucido e puro
come quel gran cielo di primavera. Eppure, di tanto in tanto,
donna Ester aveva come un brivido di rimorso, un pensiero segreto
quasi colpevole. Giacintino... la lettera scritta di nascosto...
Accanto a loro, seduta per terra con le spalle al muro e le
braccia intorno alle ginocchia, Grixenda rideva guardando il
ragazzo che suonava la fisarmonica. Nella capanna attigua le
parenti con cui ella era venuta alla festa cenavano sedute per
terra attorno ad una bertula stesa come tovaglia, e mentre
una di esse cullava un bambino che s'addormentava agitando le
manine molli, l'altra chiamava la fanciulla.
«Grixenda, fiore, vieni, prendi almeno un pezzo di
focaccia! Cosa dirà tua nonna? Che t'abbiamo lasciato morir di
fame?»
«Grixenda, non senti che ti chiamano? Obbedisci»,
disse donna Ester.
«Ah, donna Ester mia! Non ho fame... che di
ballare!»
«Zuannantò! Vieni a mangiare! Non vedi che il tuo
suono è come il vento? Fa scappar la gente.»
«Aspetta che le otri siano piene e vedrai!», disse
l'usuraia, uscendo sulla porticina a destra delle dame Pintor e
pulendosi i denti con l'unghia.
Anche lei aveva finito di cenare e per non perder
tempo si mise a filare al chiarore del fuoco.
Allora fra lei, le dame, la ragazza e le donne dentro
cominciò la solita conversazione: come al paese durante tutto
l'anno parlavano della festa, ora alla festa parlavano del paese.
«Io non so come avete fatto a lasciar la casa sola,
comare Kallì; come?», disse una ragazza alta che portava sotto
il grembiale un vaso di latte cagliato, dono del prete alle dame
Pintor.
«Natòlia, cuoricino mio! Io non ho lasciato in casa
i tesori che ha lasciato in casa il tuo padrone il Rettore!»
«Corfu 'e mazza a conca! E allora datemi la
chiave. Vado e frugo, in casa vostra, eppoi scappo nelle grandi
città!»
«Tu credi che nelle grandi città si stia bene?»,
domandò donna Ruth con voce grave, e donna Ester che aveva
vuotato il vaso del latte e lo restituiva a Natòlia con dentro
mezza pezza di mancia, si fece il segno della croce:
«Libera nos Domine».
Entrambe pensavano alla stessa cosa, alla fuga di
Lia, all'arrivo di Giacinto, e con sorpresa sentirono Grixenda
mormorare:
«Ma se quelli che stanno nelle grandi città
vogliono venir qui!».
La gente cominciava ad uscir nel cortile; sulle
porticine apparivan le donne che si pulivan la bocca col
grembiale e poi rincorrevano i bambini per prenderli e metterli a
dormire.
Una delle parenti di Grixenda andò dal suonatore di
fisarmonica e gli porse una focaccia piegata in quattro.
«E mangia, gioiello! Cosa dira tua nonna? Che non ti
do da mangiare?»
Il ragazzo sporse il viso, strappò un boccone dalla
focaccia e continuò a suonare.
Ma nessuno si decideva a cominciare il ballo tanto
che Grixenda e Natòlia, irritate per l'indifferenza delle donne,
dissero qualche insolenza.
«Si sa! Se non ci sono maschi non vi divertite!»
«Ci fosse almeno Efix il servo di donna Ruth. Anche
quello vi basterebbe!»
«E' vecchio come le pietre! Che me ne faccio di
Efix? Meglio ballo con un ramo di lentischio!»
Ma d'un tratto il cane del prete, dopo aver abbaiato
sul belvedere, corse giù urlando fuori del cortile e le donne
smisero d'insolentirsi per andare a vedere. Due uomini salivano
dallo stradone, e mentre uno stava seduto su un piccolo cammello,
l'altro si piegava su una grande cavalletta le cui ali parevano
mandassero giù e su i lunghi piedi del cavaliere. Il chiarore
del fuoco, a misura che i due salivano, illuminava però le loro
figure misteriose; e la prima era quella di Efix su un cavallo
gobbo di bisacce e di guanciali, e l'altra quella di uno
straniero la cui bicicletta scintillò rossa attraversando di
volo il cortile.
Grixenda balzò in piedi appoggiandosi al muro tanto
era turbata; anche la fisarmonica cessò di suonare.
«Donna Ester mia! Suo nipote.»
Le dame s'alzarono tremando e donna Ester parlò con
una vocina che pareva il belato d'un capretto.
«Giacintino!... Giacintino!... Nipote mio... Ma non
è una visione? Sei tu?...»
Egli era smontato davanti a loro e si guardava
attorno confuso: sentì le sue mani prese dalle mani secche della
zia, e sullo sfondo nero del muro vide il viso pallido e gli
occhi di perla di Grixenda.
Poi tutte le donne gli furono attorno, guardandolo,
toccandolo, interrogandolo: il calore dei loro corpi parve
eccitarlo; sorrise, gli sembrò d'esser giunto in mezzo ad una
numerosa famiglia, e cominciò ad abbracciare tutti. Qualche
donna balzò indietro, qualche altra si mise a ridere sollevando
il viso a guardarlo.
«E' costume del tuo paese? Donna Ester, donna Ruth,
ci ha scambiato con loro! Ci crede tutte sue zie!»
Efix intanto, tirati giù i guanciali, li portò
dentro la capanna vuota passando di traverso per la stretta
porticina. Grixenda lo aiutò a stenderli sul sedile in muratura,
lungo la parete, e fu lei a spazzar la celletta e a preparare il
lettuccio, mentre nell'altra capanna si udiva Giacintino
rispondere rispettoso e quasi timido alle domande delle zie.
«Sissignora, da Terranova in bicicletta: cos'è poi?
Un volo! Con una strada così piana e solitaria si può girare il
mondo in un giorno. Sì, la zia Noemi è rimasta, vedendomi: non
mi aspettava certo, e forse credeva che avessi sbagliato porta!»
Ogni sua parola e il suo accento straniero colpivano
Grixenda al cuore. Ella non aveva ben distinto il viso del
giovane arrivato da terre lontane, ma aveva notato la sua alta
statura e i capelli folti dorati come il fuoco. E provava già un
senso di gelosia perché Natòlia, la serva del prete, s'era
cacciata dentro la capanna delle dame e parlava con lui.
Com'era sfacciata, Natòlia! Per piacere allo
straniero si beffava persino delle capanne, che dopo tutto erano
sacre perché abitate dai fedeli e appartenenti alla chiesa.
«Neanche a Roma ci son palazzi come questi! Guardi
che cortine! Le han messe i ragni, gratis, per amor di Dio.»
«E i topi non li conta? Se si sente grattare i
piedi, stanotte, non creda che sia io, don Giacì!»
Grixenda si morse le labbra e picchiò sulla parete
per far tacere Natòlia.
«Ci sono anche gli spiriti. Li sente?»
«Oh, è una donna che picchia!», disse
semplicemente donna Ruth.
«Spiriti, topi e donne per me son la stessa cosa»,
rispose Giacinto.
E Grixenda, di là, appoggiata alla parete di mezzo,
si mise a ridere forte. Ascoltava la voce del giovane come aveva
poco prima ascoltato il suono della fisarmonica e rideva per il
piacere, eppure in fondo sentiva voglia di piangere.
Del resto tutti erano felici, ma d'una felicità
grave, nella vera capanna delle dame.
«Mi pare di sognare», diceva donna Ester, servendo
da cenare al nipote, mentre donna Ruth lo guardava fisso con
occhi lucidi, ed Efix traeva dalla bisaccia un bariletto di vino,
e pur così curvo si volgeva a sorridere ai suoi padroni.
Giacinto mangiava, seduto sul sedile in muratura che
serviva a più usi, da tavola e da letto: e credeva anche lui di
sognare.
Dopo l'accoglienza fredda di Noemi s'era sentito ciò
che veramente era, straniero in mezzo a gente diversa da lui; ma
adesso vedeva le zie servirlo premurose, il servo sorridergli
come ad un bambino, le fanciulle guardarlo tenere ed avide, -
sentiva la cantilena della fisarmonica, intravedeva le ombre
danzanti al chiaro del fuoco, e s'immaginava che la sua vita
dovesse trascorrere sempre così, fantastica e lieta.
«Adattarsi bisogna», disse Efix versandogli da
bere.
«Guarda tu l'acqua: perché dicono che è saggia?
Perché prende la forma del vaso ove la si versa.»
«Anche il vino, mi pare!»
«Anche il vino, sì! Solo che il vino qualche volta
spumeggia e scappa; l'acqua no.»
«Anche l'acqua, se è messa sul fuoco a bollire»,
disse Natòlia.
Allora Grixenda corse là dentro, prese per il
braccio la serva e la trascinò via con sé.
«Lasciami! Che hai?»
«Perché manchi di rispetto allo straniero!»
«Grixè! Ti ha morsicato la tarantola ché diventi
matta?»
«Sì, e perciò voglio ballare.»
Già alcune donne s'eran decise a riunirsi attorno al
suonatore, porgendosi la mano per cominciare il ballo. I bottoni
dei loro corsetti scintillavano al fuoco, le loro ombre
s'incrociavano sul terreno grigiastro. Lentamente si disposero in
fila, con le mani intrecciate, e sollevarono i piedi accennando i
primi passi della danza; ma erano rigide e incerte e pareva si
sostenessero a vicenda.
«Si vede che manca il puntello! Manca l'uomo.
Chiamate almeno Efix!», gridò Natòlia, e siccome Grixenda la
pizzicava al braccio aggiunse: «Ah, ti punga la vespa! Anche a
lui vuoi che si usi rispetto?».
Ma al grido Efix era apparso e si avanzava battendo i
piedi in cadenza e agitando le braccia come un vero ballerino.
Cantava accompagnandosi:
Arrivato accanto a Grixenda le prese il braccio,
si unì alla fila delle danzatrici e parve davvero animare con la
sua presenza il ballo: i piedi delle donne si mossero più agili,
riunendosi, strisciando, sollevandosi, i corpi si fecero più
molli, i visi brillarono di gioia.
«Ecco il puntello. Forza, coraggio!»
«E su! E su!»
Un filo magico parve allacciare le donne dando loro
un'eccitazione composta e ardente. La fila si cominciò a
piegare, formando lentamente un circolo: di tanto in tanto una
donna s'avanzava, staccava due mani unite, le intrecciava alle
sue, accresceva la ghirlanda nera e rossa dietro cui si muoveva
la frangia delle ombre. E i piedi si sollevavano sempre più
svelti, battendo gli uni sugli altri, percuotendo la terra come
per svegliarla dalla sua immobilità.
«E su! E su!»
Anche la fisarmonica suonava più lieta ed agile.
Grida di gioia echeggiarono, quasi selvagge, come per domandare
al motivo del ballo una intonazione più animata e più
voluttuosa.
«Uhì! Uhiahi!»
Tutti eran corsi a vedere, e là in fondo nell'angolo
del cortile Grixenda distinse i capelli dorati di Giacinto fra i
due fazzoletti bianchi delle zie.
«Compare Efix, fate ballare il vostro figlioccio!»,
disse Natòlia.
«Quello è un puntello, sì!»
«Mettilo accanto alla chiesa e ti sembrerà il
campanile.»
«E sta' zitta, Natòlia, lingua di fuoco.»
«Parlano più i tuoi occhi che la mia lingua,
Grixè.»
«Il fuoco ti mangi le palpebre!»
«E state zitte, donne, e ballate.»
«Uhì! Uhiahi!...»
Il grido tremolava come un nitrito, e le gambe delle
donne, disegnate dalle gonne scure, e i piedi corti emergenti
dall'ondulare dell'orlo rosso si movevan sempre più agili
scaldati dal piacere del ballo.
«Don Giacinto! Venga!»
«E su! E su!»
«E venga! E venga! »
Tutte le donne guardavano laggiù sorridendo. I denti
brillavano agli angoli delle loro bocche.
Egli balzò, quasi sfuggendo alla prigionia delle due
vecchie dame; arrivato però in mezzo al cortile si fermò
incerto: allora il circolo delle donne si riaprì, si allungò di
nuovo in fila, andò incontro allo straniero come nei giuochi
infantili, lo accerchiò, lo prese, si richiuse.
Messo in mezzo fra Grixenda e Natòlia, alto, diverso
da tutti, egli parve la perla nell'anello della danza; e sentiva
la piccola mano di Grixenda abbandonarsi tremando un poco entro
la sua, mentre le dita dure e calde di Natòlia s'intrecciavano
forte alle sue come fossero amanti.
Anche il prete uscì dalla sua capanna, guardò
qua e là, placido e rosso come un bambino ancora calvo, poi
andò a sedersi accanto alle dame Pintor.
«Bel ragazzo, suo nipote, donna Ruth!»
Trasse la tabacchiera d'argento, la scosse, l'aprì e
la porse nel cavo della mano prima a donna Ester, poi a donna
Ruth, infine alla stessa Kallina.
«Bel ragazzo, donna Ester, ma mi raccomando,
attenzione.»
Sollevò la sottana per rimettersi in tasca la
tabacchiera e ripiegò e arrotolò il suo fazzoletto turchino,
sbattendosene le cocche sul petto.
«Donna Ester, attenzione. Del resto anche noi
abbiamo ballato quando avevamo ali ai piedi. E adesso che fa,
vossignoria?»
Donna Ester piangeva di gioia, ma finse di
starnutire.
«Sembra pepe il suo tabacco, prete Paskà!»
Il più felice di tutti era Efix. Sdraiato su un
mucchio d'erba, in una delle muristenes vuote, gli pareva
ancora di ballare e di ammirare Giacinto. E gli sorrideva come
gli sorridevan le donne. Ecco, la figura del «ragazzo» aveva
già preso nella sua vita il miglior posto come nel circolo della
danza.
E riandava col pensiero fino al momento in cui era
corso alla casa dei suoi padroni per vedere il figlio di Lia: che
momento! Era stata così forte la sua gioia che neppure si
rammentava che cosa aveva detto, che cosa aveva fatto. Solo
rivedeva la figura fredda eppure inquieta di Noemi seguirlo e
dirgli come in segreto:
«Andate, su, andate alla festa... Andate: vi
aspettano».
E li aveva mandati via, col viso rischiarato solo
all'atto del congedo, su nella cornice del portone che si
chiudeva davanti a lei.
Passando sotto il poderetto s'eran fermati un
momento; ed Efix aveva additato con tenerezza d'amante la sua
collina, il ciglione ove le canne tremavano rosee al tramonto, la
capanna appiattata tra il verde ad aspettarlo.
«Io sto qui tutto l'anno. E vossignoria verrà
quando ci saran gli ortaggi e le frutta da portare al paese... Ma
il suo cavallo non sopporta la bisaccia!», aggiunse socchiudendo
gli occhi contro il barbaglio della bicicletta.
«Io me ne vado a Nuoro!», disse Giacintino, pur
guardando il podere di sotto in su come si guarda una persona.
«Qualche volta verrà! Prima che faccia troppo
caldo, e poi in autunno si sta bene all'ombra, lassù! E di
notte? La luna ci fa compagnia come una sposa. E le angurie qua
sotto l'orto sembrano allora bocce di cristallo.»
«Sì, qualche volta verrò», promise Giacinto,
buttandosi giù dalla macchina svelto come un uccello.
Ed era stato lui, quasi vinto dalle descrizioni del
compagno, a proporre di visitare il poderetto.
Ed avevano visitato il poderetto, lasciando giù il
cavallo a strappare qualche fronda della siepe del muricciolo.
Efix fece osservare bene al nuovo padroncino le
arginature costruite da lui con metodi preistorici: e il giovane
guardava con meraviglia i massi accumulati dal piccolo uomo, e
poi guardava questi come per misurare meglio la grandiosità
della costruzione.
«Tutto da solo? Che forza! Dovevi esser forte, in
gioventù!»
«Sì, ero forte! E il sentiero, non l'ho fatto io?»
Il sentiero serpeggiava su, rinforzato anch'esso da
muriccie, come da terrapieni eran sostenuti i ciglioni e i rialzi
del poderetto: un'opera paziente e solida che ricordava quella
degli antichi padri costruttori dei nuraghes.
E su, e su, ad ogni scaglione si fermavano e si
volgevano a contemplare l'opera del piccolo uomo, e lo straniero
aveva curiosità infantili che divertivano il servo.
«Il fiume si gonfia d'inverno?»
«Cos'è questo?», domandava tirando a sé qualche
fronda di alberello.
Non conosceva né le piante né le erbe; non sapeva
che i fiumi straripano in primavera! Ecco la striscia coltivata a
ceci, pallidi già entro le loro bucce puntute: ecco le siepi di
gravi pomidoro lungo il solco umido, ecco un campicello che
sembra di narcisi ed è di patate, ecco le cipolline tremule alla
brezza come asfodeli, ecco i cavoli solcati dai bruchi verdi
luminosi. Nugoli di farfalle bianche e giallognole volavano di
qua e di là, posandosi, confondendosi coi fiori dei piselli: le
cavallette si staccavano e ricadevano come sbattute dal vento, le
api ronzavano lungo le muricce come dorate dal polline dei fiori
su cui posavano. Una fila di papaveri s'accendeva tra il verde
monotono del campo di fave.
E un silenzio grave odoroso scendeva con le ombre dei
muricciuoli, e tutto era caldo e pieno d'oblio in quell'angolo di
mondo recinto dai fichi d'India come da una muraglia vegetale,
tanto che lo straniero, arrivato davanti alla capanna, si buttò,
steso sull'erba ed ebbe desiderio di non proseguire il viaggio.
Fra una canna e l'altra sopra la collina le nuvole di
maggio passavano bianche e tenere come veli di donna; egli
guardava il cielo d'un azzurro struggente e gli pareva d'esser
coricato su un bel letto dalle coltri di seta.
Vedeva Efix aprire la capanna, volgersi richiamandolo
con un gesto malizioso dell'indice, poi ritornare con qualche
cosa nascosta dietro la schiena e inginocchiarsi ammiccando.
Sognava?
S'alzò a sedere cingendosi le ginocchia con le
braccia e si fece un po' pregare prima di prendere la zucca
arabescata piena di vino giallo che il servo gli porgeva. Infine
bevette: era un vino dolce e profumato come l'ambra e a berlo
così, dalla bocca stretta della zucca, dava quasi un senso di
voluttà.
Efix guardava, inginocchiato come in adorazione:
bevette anche lui e sentì voglia di piangere.
Le api si posarono sulla zucca; Giacinto strappò di
mezzo alle sue gambe sollevate uno stelo d'avena, e guardando per
terra domandò:
«Come vivono le mie zie?».
Era giunto il momento delle confidenze. Efix sporse
la zucca di qui e di là, a destra e a sinistra.
«Guardi, vossignoria, fin dove arriva l'occhio la
valle era della sua famiglia. Gente forte, era! Adesso non resta
che questo poderetto, ma è come il cuore che batte anche nel
petto dei vecchi. Si vive di questo,»
«Ma che testa, mio nonno! E' stato lui a rovinare la
famiglia...»
«Se non era lui, vossignoria non era nato!»
Giacinto sollevò rapido gli occhi, riabbassandoli
tosto. Occhi pieni di disperazione.
«E perché nascere?»
«Oh bella, perché Dio vuole così!»
Giacinto non rispose: guardava sempre per terra e le
sue palpebre si sbattevano quasi stesse per piangere. Ma bevette
di nuovo, docile, chiudendo gli occhi, mentre Efix si lasciava
sedere a gambe in croce e si prendeva un piede fra le mani.
«Non è contento d'esser venuto, don Giacintì?»
«Non chiamarmi così», disse allora il giovane.
«Io non sono nobile, non sono nulla! Dimmi tu, come te lo dico
io. Se sono contento? No. Sono venuto qui perché non sapevo dove
andare... Là c'è tanta gente... Là bisogna esser cattivi per
far fortuna. Tu non puoi sapere! Ci son tanti ricchi... Ma c'è
tanta gente...»
Agitava le dita della mano tesa lontano, come per
accennare al brulichio della folla, ed Efix guardava il suo piede
e mormorava con tenerezza e con pietà:
«Anima mia bella!».
E avrebbe voluto curvarsi sul desolato «ragazzo» e
dirgli: sono qua io, non ti mancherà nulla! - ma non seppe che
offrirgli di nuovo la zucca come la madre offre il seno al
bambino che si lamenta.
«Lo sappiamo, sì, che diavolo di mondo è quello!
Ma qui è diverso: si può anche far fortuna. Le racconterò come
ha fatto il Milese... Un giorno arrivò come un uccello che non
ha nido...»
Ma Giacinto ascoltava desolato a testa bassa,
torcendo un poco la bocca con disgusto, e d'improvviso si buttò
col gomito appoggiato sull'erba e il viso alla mano, masticando
con rabbia l'avena.
«Se sapessi, tu! Ma che puoi sapere, tu? C'è a Roma
un principe che possiede terre quanto tutta la Sardegna, e un
altro, uno che s'è fatto grande da sé, che quando succede
qualche disastro nazionale offre denari più del re.»
«Anche in Sardegna c'è un frate che ha trecento
scudi di rendita al giorno», disse Efix umiliato, ma poi alzò
la voce: «Dico trecento scudi, intende, vossignoria?».
Vossignoria non parve sorpreso. Ma dopo un momento
domandò:
«Dov'è? Si può conoscere?».
«Sta a Calangianus, in Gallura.»
«Troppo lontano.» E Giacinto, con gli occhi
distratti, riprese a narrare delle favolose ricchezze dei Signori
del Continente, dei loro vizi e delle loro dissipazioni.
«E son gente contenta?», domandò Efix, quasi
irritato.
«E noi siamo gente contenta?»
«Io sì, vossignoria! Beva, beva e si faccia
coraggio!»
Giacinto bevette ed Efix scosse poi le ultime gocce
sull'erba: le api vi si posarono e tutt'intorno fu un ronzio di
dolcezza.
Ma dopo l'arrivo al Rimedio il ragazzo pareva
contento.
Aveva abbracciato le zie e le altre donne, aveva
mangiato bene e ballato come un pastore alla festa. Adesso
dormiva e russava, ed Efix l'aveva veduto poco prima sul
lettuccio lungo il muro, con le palpebre chiuse così delicate,
che pareva vi trasparisse l'azzurro degli occhi, coi capelli
rossicci sul bianco del guanciale e i pugni chiusi come un
bambino che sogna. Aveva dimenticato per terra il lume acceso.
Efix si curvo a spegnerlo pensando che i Pintor erano tutti
così; incuranti dell'economia e del pericolo!
Ebbene, forse meglio così nella vita! Anche lui si
volse supino e chiuse i pugni: attraverso i buchi del tetto
oscillavan le stelle e il loro tremolìo e l'incessante tremolìo
dei grilli parevano la stessa cosa.
Si sentiva l'odore degli ontani e del puleggio; tutto
era caduto in un silenzio tremulo come dentro un'acqua corrente.
Ed Efix ricordava le sere lontane, il ballo, i canti notturni,
donna Lia seduta sulla pietra all'angolo del cortile, piegata su
se stessa come una giovine prigioniera che rode i lacci e piano
piano si prepara alla fuga.