Irene Castells Olivan, La rivoluzione liberale spagnola nel recente dibattito storiografico
5. Lo Stato e il nuovo sistema politico.
Il trionfo della rivoluzione liberale portò a un profondo
cambiamento nell'apparato dello Stato: e furono le Cortes
costituenti del 1836-1837 a realizzare le misure principali di
smantellamento dell'antico regime (abolizione del regime
signorile, abolizione della manomorta, articolazione di un
mercato nazionale, libertà di produzione e di scambi,
stabilimento di un sistema politico costituzionale, ecc.). Questa
svolta cronologica è ormai acquisita, mentre la formazione delle
basi dello Stato spagnolo viene collocata nel decennio 1844-1854,
sotto l'egemonia dei moderati.
Per chi sostiene il carattere radicale della rivoluzione politica, si pone il problema di capire come mai essa portò ad uno Stato fortemente accentrato e oligarchico, che rifletteva nettamente la simbiosi fra le classi realizzatasi nella società spagnola, la fusione delle élites dell'antico e del nuovo regime. Alcuni studiosi hanno affrontato il problema su un piano comparativo: se si guarda all'Europa del tempo, il dominio dei regimi censitari e l'instabilità parlamentare non appaiono certo una peculiarità spagnola, e il sistema politico dominante in Spagna non appare sostanzialmente diverso da quello di altri paesi europei, anzi è stato notato che la Spagna ebbe « tra il 1812 e il 1914 piú anni di governo costituzionale rappresentativo di qualunque altro paese del continente, compresa la Francia» . 57La « singolarità» spagnola incomincerebbe con il periodo della Restaurazione, dal 187558, quando si era ormai chiuso il ciclo di assestamento, crisi e revisione del nuovo Stato.
Altri, invece, insistono sulle peculiarità e sulle anomalie del processo di consolidamento delle trasformazioni tanto economico-sociali quanto istituzionali. F. Tomas y Valiente, ad esempio, ha recentemente sottolineato quanto siamo ancora lontani dal sapere che cosa « la borghesia rivoluzionaria fece per la costruzione dello Stato liberale» , insistendo sulla progressiva svalutazione del concetto di « nazione» come soggetto costituente e titolare della sovranità e sulle deficienze nella divisione funzionale dei poteri e nella loro subordinazione alla legge e a strumenti di controllo59.
Perché, ad esempio, nel campo dell'istruzione e della cultura il caso spagnolo è cosí lontano da quelli della Francia o della Germania? L'arretratezza culturale spagnola si accentuò con le riforme di ispirazione liberale e anticlericale, in quanto i provvedimenti di ammortizzazione di Mandizábal (1836-1837) e di Madoz (1855) smantellarono l'apparato di insegnamento elementare precedentemente a carico dei comuni o della Chiesa, senza creare un sistema alternativo, ciò che non fece che perpetuare l'analfabetismo di massa delle generazioni seguentitra 60 le quali la bassa percentuale di scolarizzazione fu di norma61. Aspetto, questo, che per gli storici che fanno propria la « teoria della modernizzazione» come schema interpretativo applicato alla storia, è uno degli indicatori piú importanti per misurare lo sviluppo della società62.
Altri studi sulle nuove istituzioni liberali cercano invece di misurare la portata dei mutamenti intervenuti nella struttura dello Stato alla luce dei nuovi approcci della storia politica. Sicché, piú che sullo studio dello Stato e delle sue istituzioni, insistono su quello dell'esercizio effettivo del « potere» , che non seguiva le regole fissate dalle leggi ma piuttosto quelle del patronato, del clientelismo e della corruzione. Tema di rilievo, in quanto affronta il problema di capire in che misura il cambiamento coinvolse la vita sociale, politica ed economica delle comunità urbane e rurali.
Non solo, ma l'interesse di questi lavori sui poteri localista 63 anche nel fatto che essi avvalorano la tesi degli effetti di rottura esercitati dalla rivoluzione liberale: lo Stato liberale avrebbe, in effetti, trasformato la società rurale e quindi il sistema di potere locale, portando a ridefinire la rete di relazioni sociali necessarie per accedere agli strumenti di potere. La questione pone, invece, qualche problema a quella parte della storiografia che sostiene che la configurazione del « blocco di potere oligarchico» 64 che controllò lo Stato liberale si realizzò lentamente, favorendo soluzioni di compromesso con le oligarchie locali. In questo senso, sarebbe responsabilità del nuovo Stato aver consentito ai poteri locali di conservare attribuzioni eccessive. Il « caciquismo» che ne derivò è stato visto come un elemento di mediazione tra la vecchia società rurale e lo Stato e, secondo alcuni storici, avrebbe esercitato un ruolo di « modernizzazione» , supplendo alle carenze di quest'ultimo, mentre altri, soprattutto nell'ambito della storia agraria, sostengono esattamente il contrario: sarebbe stata proprio l'amministrazione centrale a creare nuove istituzioni in materia agraria, che furono a loro volta organi rappresentativi delle oligarchie locali65.
Nel complesso, se è indubbio che lo Stato liberale introdusse un centralismo che lasciava ampi margini di manovra alle oligarchie locali, gli ambiti di potere locali mantennero a loro volta relazioni complesse con i poteri dello Stato. Perciò, se gli interessi agrari poterono esercitare un forte peso sulla politica statale, i limiti stessi dell'azione dello Stato lasciavano d'altra parte un campo d'azione specifica e spesso decisiva in ambito locale. Di qui il crescente interesse per questo tema da parte di una storiografia che non ha niente di « localistico» ma che tenta di andare al di là delle affermazioni generiche sulla debolezza o inefficacia del nuovo Stato, attraverso lo studio del funzionamento dei poteri locali.
Non mancano le divergenze nella considerazione della natura e dei fondamenti del potere. Vanno soprattutto segnalate le critiche svolte alle impostazioni economicistiche, che riportano il potere ad un'unica fonte di natura economica, vedendo un'unica classe o gruppo come suo detentore66. Anche su questo terreno, molto ancora resta da fare, tanto piú che gli studi esistenti si riferiscono ad un periodo molto piú tardo, quello della prima fase della Restaurazione (1875-1898).
Per quanto riguarda il nuovo sistema politico, questo si articolò finalmente sulle basi teoriche del liberalismo dottrinario e intorno al partito moderato. Gli studi mostrano concordemente che fu questa la formazione piú solida e coerente, tanto nella teoria quanto nella pratica. Le dottrine di pensatori politici della statura di un Alcalá Galiano o di un Donoso Cortés sulla difesa delle « classi medie» esprimevano esplicitamente la necessità di « amalgamare» le forze di antico regime con i ceti borghesi. Per questo, alcuni accentuano il peso degli elementi del vecchio ordine, che rimasero chiaramente riflessi in uno Stato debole e autoritario, con una base sociale molto ristretta, dominata dalla nuova borghesia agraria e finanziaria, prodotto della fusione delle élites determinata dal trionfo della rivoluzione liberale. Il carattere arcaico del nuovo Stato appare evidente tanto dalla supremazia del potere militare sull'amministrazione civile, quanto dalla sopravvivenza dell'antico diritto locale nel paese basco-navarro67.
Il sistema politico si articolò quindi intorno ai due partiti dinastici, quello moderato e quello progressista, costituendo quest'ultimo un mero strumento di ricambio nei momenti in cui risultava impossibile alla ristretta oligarchia che lo sosteneva mantenersi al potere. Questa incapacità del nuovo Stato liberale di ottenere il consenso di ampie masse della popolazione, che fece dell'esercito e della Chiesa i due pilastri del regime della monarchia borbonica, finí col provocare alla fine del secolo l'esplosione centrifuga di nazionalismi e regionalismi periferici, che resero evidente il fallimento della costruzione di uno Stato-nazione.
Quest'ultima questione è attualmente molto dibattuta dalla storiografia: se tutti concordano sulla debolezza dello Stato spagnolo scaturito dalla rivoluzione liberale, sull'assenza di un progetto politico nazionale di integrazione e modernizzazione (mancanza di scuole, di segni di identità nazionale, rifiuto del servizio militare da parte della popolazione civile ecc.), le argomentazioni variano a seconda delle prospettive adottate. Al di là dell'ovvia considerazione che lo sviluppo economico e sociale fu diverso nei vari territori e che ciò rese piú difficile la coesione nazionale, diverse sono le diagnosi per quanto riguarda la debolezza dello Stato e l'emergere dei nazionalismi periferici alla fine del secolo. Secondo Borja de Riquer, fu proprio la scarsa efficacia del processo di nazionalizzazione spagnola del XIX secolo a rendere possibile l'insorgere e il consolidarsi di alternative nazionalistiche e regionalistiche. Secondo altri storici, di orientamento marcatamente nazionalistico68, il fenomeno non dipese dalla debolezza dello Stato, ma dall'orientamento intransigente ed elitario della sua organizzazione amministrativa. Per il caso catalano, i sostenitori di questa tesi affermano che se lo Stato spagnolo non riuscí a diventare una nazione spagnola fu, da un lato, perché non riuscí a soddisfare gli interessi della borghesia industriale, e dall'altro, soprattutto perché la retorica unitaria del liberalismo spagnolo non poté eliminare la coscienza della diversità, espressa, ad esempio, nella persistente fedeltà alla propria lingua di comunità storiche che pure presentavano forti caratteri culturali nazionali.
Una posizione intermedia, che sfuma quella di Borja de Riquer, ha assunto Juan Pablo Fusi69, secondo il quale la Spagna del secolo XIX fu un paese « di centralismo legale, ma di localismo reale» , e la comparsa dei nazionalismi periferici fu il risultato di processi di integrazione sociale e di affermazione di identità dipendenti dallo stesso sviluppo regionale interno. Mentre Borja de Riquer pone l'accento sulla natura dell'élite politica spagnola e sulla sua peculiare percezione della nazionalità, Fusi accentua l'incidenza dei cambiamenti sociali verificatisi nel corso del XIX secolo, concludendone che la costruzione dello Stato non fu opera del nazionalismo politico spagnolo, ma il « risultato di un lungo processo di adattamento della macchina del governo ai diversi e successivi problemi della società spagnola» .
Infine, A. Elorza ha assunto una netta posizione nel dibattito, insistendo sulla incapacità del modello politico moderato (sia nella sua versione isabelina sia in quella della Restaurazione) di produrre consenso intorno al sistema, ciò che provocò la sua instabilità, non essendo capace di assolvere « la funzione essenziale di garantire la rappresentanza di una pluralità di interessi sociali» , e spinse le borghesie periferiche verso strategie centrifughe di segno nazionalista e regionalista70.
Molti storici, ancora, riconducono i caratteri del nuovo sistema politico alla persistenza di fattori retrogradi dell'antico regime, di un mondo agrario caratterizzato da forme di dominio e da una mentalità tradizionali71Ariportando >, cosí l'attenzione sulla questione degli esiti della nostra rivoluzione liberale.
Studi Storici 1, gennaio-marzo 1995 anno 36
Irene Castells Olivan, La
rivoluzione liberale spagnola nel recente dibattito storiografico
57 A. Shubert, Historia social de España,cit., p. 17. Vanno nella stessa direzione le conclusioni di M. Santirso, Revolución liberal y guerra civil, cit., pp. 691-695.
58 Cosí M. Martí, La Revolución liberal, cit., pp. 102-103.
59 F. Tomás y Valiente, Lo que no sabemos acerca del Estado liberal (1808-1868), in Antiguo Régimen y liberalismo, cit., pp. 137-145.
6 0 L'Espagne de l'immobilisme à l'essor, B. Bennassar, coord., Paris, Ed. du Cnrs, 1989, p. 141.
61 Cfr. sul tema F. Villacorta Baños, Burguesía y cultura. Los intelectuales españoles en la sociedad liberal, 1808-1931, Madrid, Siglo XXI, 1980.
62 T. Carnero, Modernización política: una propuesta de análisis, in « Historia contemporánea» , 1990, 4, pp. 133-144.
63 Si vedano M. Gonzales de Molina, La funcionalidad de los poderes locales en una economía orgánica, e J. Millán, Poderes locales, conflictividad y cambio social en la España agraria. Del Antiguo Régimen a la sociedad burguesa, entrambi in « Noticiario de Historia Agraria» , 1993, n. 6, pp. 9-32.
64 L'espressione « blocco di potere oligarchico» compare spesso nella nostra storiografia, per designare i gruppi sociali che uscirono trionfanti dalla rivoluzione liberale. Vi ricorrono, tra gli altri, M. Tuñon de Lara e J. M. Jover, nei loro numerosi lavori di sintesi di storia spagnola del XIX secolo: si vedano soprattutto M. Tuñon de Lara, Estudios de Historia contemporánea, Barcelona, Hogar del libro, 1982, Estudios sobre el siglo XIX español, Madrid, Siglo XXI, 1974, e Poder y sociedad en España, 1900-1931, Madrid, (Austral) Espasa Calpe, 1992; J. M. Jover Zamora, La civilización española a mediados del siglo XIX, Madrid, (Austral) Espasa Calpe, 1992.
65 M. Gonzalez de Molina, La funcionalidad de los poderes locales, cit., pp. 21-23.
66 Si veda la recensione di J. Suau Puig al convegno su Metodología y fuentes para el estudio de las élites en España (1834-1936), in « Noticiario de Historia Agraria» , vol. 2, 1991, pp. 211-216.
67 Sui rapporti tra « fueros» e rivoluzione liberale nel Paese Basco e la loro integrazione nel nuovo Stato, si veda il numero monografico di « Historia contemporánea» , 1990, 4. M. C. Mina, Ideología, Fueros y Modernización. La Metamófosis del Fuerismo, II, Siglos XIX y XX, ivi, pp. 89-106, affrontando la questione dei rapporti tra resistenza alla modernizzazione ideologica e modernizzazione economica, conclude che i due aspetti furono compatibili (p. 105).
68 Per esempio, A. Colomines, Buròcrates i centralistes. Centre i perifèria en la construcció de l'Estat liberal espanyol, in « Afers» , 16, 1993, pp. 471-481.
69 La polemica tra Borja de Riquer e J. P. Fusi si trova in « Historia Social» , cit., n. 7, 1990, pp. 105-134.
70 A. Elorza, La modernización política en España, Madrid, Endymion, 1990, pp. 274-276.
71 Anche A. Elorza, La modernización política, cit., insiste su questi caratteri.