Gisippo rimasosi in Atene, quasi da tutti poco a capital tenuto, dopo non molto tempo, per certe brighe cittadine, con tutti quegli di casa sua, povero e meschino fu d'Atene cacciato e dannato ad essilio perpetuo. Nel quale stando Gisippo, e divenuto non solamente povero ma mendico, come potè il men male a Roma se ne venne, per provare se di lui Tito si ricordasse; e saputo lui esser vivo e a tutti i romani grazioso, e le sue case apparate, dinanzi ad esse si mise a star tanto che Tito venne; al quale egli per la miseria nella quale era non ardì di far motto, ma ingegnossi di farglisi vedere, acciò che Tito riconoscendolo il facesse chiamare; per che, passato oltre Tito, e a Gisippo parendo che egli veduto l'avesse e schifatolo, ricordandosi di ciò che già per lui fatto aveva, sdegnoso e disperato si dipartì.
Ed essendo già notte ed esso digiuno e senza denari, senza sapere dove s'andasse, più che d'altro di morir disideroso, s'avvenne in uno luogo molto salvatico della città, dove veduta una gran grotta, in quella per istarvi quella notte si mise, e sopra la nuda terra e male in arnese, vinto dal lungo pianto, s'addormentò. Alla qual grotta due, li quali insieme erano la notte andati ad imbolare, col furto fatto andarono in sul matutino, e a quistion venuti, l'uno, che era più forte, uccise altro e andò via.
La qual cosa avendo Gisippo sentita e veduta, gli parve alla morte molto da lui disiderata, senza uccidersi egli stesso, aver trovata via; e per ciò, senza partirsi, tanto stette che i sergenti della corte, che già il fatto aveva sentito, vi vennero e Gisippo furiosamente ne menarono preso. Il quale essaminato confessò sé averlo ucciso, né mai poi esser potuto della grotta partirsi; per la qual cosa il pretore, che Marco Varrone era chiamato, comandò che fosse fatto morire in croce, sì come allor s'usava.
Era Tito per ventura in quella ora venuto al pretorio; il quale, guardando nel viso il misero condennato e avendo udito il perché, subitamente il riconobbe esser Gisippo, e maravigliossi della sua misera fortuna e come quivi arrivato fosse; e ardentissimamente disiderando d'aiutarlo, né veggendo alcuna altra via alla sua salute se non d'accusar sé e di scusar lui, prestamente si fece avanti e gridò:
- Marco Varrone, richiama il povero uomo il quale tu dannato hai, per ciò che egli è innocente. Io ho assai con una colpa offesi gl'iddii, uccidendo colui il quale i tuoi sergenti questa mattina morto trovarono, senza volere ora con la morte d'un altro innocente offendergli.
Varrone si maravigliò, e dolfegli che tutto il pretorio l'avesse udito; e non potendo con suo onore ritrarsi di far quello che comandavan le leggi, fece indietro ritornar Gisippo, e in presenzia di Tito gli disse:
- Come fostu sì folle che, senza alcuna pena sentire, tu confessassi quello che tu non facesti giammai, andandone la vita? Tu dicevi che eri colui il quale questa notte avevi ucciso l'uomo, e questi or viene e dice che non tu ma egli l'ha ucciso.
Gisippo guardò e vide che colui era Tito, e assai ben conobbe lui far questo per la sua salute, sì come grato del servigio già ricevuto da lui. Per che, di pietà piagnendo, disse:
- Varrone, veramente io l'uccisi, e la pietà di Tito alla mia salute è omai troppo tarda.
Tito d'altra parte diceva:
- Pretore, come tu vedi, costui è forestiere, e senza arme fu trovato allato all'ucciso, e veder puoi la sua miseria dargli cagione di voler morire; e per ciò liberalo, e me, che l'ho meritato, punisci.
Maravigliossi Varrone della instanzia di questi due, e già presummeva niuno dovere essere colpevole, e pensando al modo della loro assoluzione, ed ecco venire un giovane, chiamato Publio Ambusto, di perduta speranza e a tutti i Romani notissimo ladrone, il quale veramente l'omicidio aveva commesso; e conoscendo niuno de'due esser colpevole di quello che ciascun s'accusava, tanta fu la tenerezza che nel cuor gli venne per la innocenzia di questi due, che, da grandissima compassion mosso, venne dinanzi a Varrone, e disse:
- Pretore, i miei fati mi traggono a dover solvere la dura quistion di costoro, e non so quale iddio dentro mi stimola e infesta a doverti il mio peccato manifestare; e per ciò sappi niun di costoro esser colpevole di quello che ciascuno sé medesimo accusa. Io son veramente colui che quello uomo uccisi istamane in sul dì, e questo cattivello che qui è, là vid'io che si dormiva, mentre che io i furti fatti divideva con colui cui io uccisi. Tito non bisogna che io scusi: la sua fama è chiara per tutto, lui non essere uomo di tal condizione; adunque liberagli, e di me quella pena piglia che le leggi m'impongono.
Aveva già Ottaviano questa cosa sentita, e fattiglisi tutti e tre venire, udir volle che cagion movesse ciascuno a volere essere il condannato, la quale ciascun narrò. Ottaviano li due, per ciò che erano innocenti, e il terzo per amor di loro liberò.
Tito, preso il suo Gisippo, e molto prima della sua tiepidezza e diffidenzia ripresolo, gli fece maravigliosa festa, e a casa sua nel menò, là dove Sofronia con pietose lagrime il ricevette come fratello; e ricreatolo alquanto, e rivestitolo e ritornatolo nello abito debito alla sua virtù e gentilezza, primieramente con lui ogni suo tesoro e possessione fece comune, e appresso, una sua sorella giovinetta, chiamata Fulvia, gli diè per moglie; e quindi gli disse:
- Gisippo, a te sta omai o il volere qui appresso di me dimorare, o volerti con ogni cosa che donata t'ho in Acaia tornare.
Gisippo, costrignendolo da una parte l'essilio che aveva della sua città e d'altra l'amore il qual portava debitamente alla grata amistà di Tito, a divenir romano s'accordò. Dove con la sua Fulvia, e Tito con la sua Sofronia, sempre in una casa gran tempo e lietamente vissero, più ciascun giorno, se più potevano essere, divenendo amici.
Santissima cosa adunque è l'amistà, e non solamente di singular reverenzia degna, ma d'essere con perpetua laude commendata, sì come discretissima madre di magnificenzia e d'onestà, sorella di gratitudine e di carità, e d'odio e d'avarizia nimica, sempre, senza priego aspettar, pronta a quello in altrui virtuosamente operare che in sé vorrebbe che fosse operato. Li cui sacratissimi effetti oggi radissime volte si veggono in due, colpa e vergogna della misera cupidigia de'mortali, la qual solo alla propria utilità riguardando, ha costei fuor degli estremi termini della terra in essilio perpetuo re legata.
Quale amore, qual ricchezza, qual parentado avrebbe il fervore, le lagrime e'sospiri di Tito con tanta efficacia fatti a Gisippo nel cuor sentire, che egli per ciò la bella sposa gentile e amata da lui avesse fatta divenir di Tito, se non costei? Quali leggi, quali minacce, qual paura le giovanili braccia di Gisippo ne'luoghi solitari, ne'luoghi oscuri, nel letto proprio avrebbe fatto astenere dagli abbracciamenti della vaga giovane, forse talvolta invitatrice, se non costei? Quali stati, qua'meriti, quali avanzi avrebbon fatto Gisippo non curar di perdere i suoi parenti e quei di Sofronia, non curar de'disonesti mormorii del popolazzo, non curar delle beffe e de gli scherni, per sodisfare all'amico, se non costei?
E d'altra parte, chi avrebbe Tito, senza alcuna diliberazione (possendosi egli onestamente infignere di vedere) fatto prontissimo a procurar la propria morte per levar Gisippo dalla croce la quale egli stesso si procacciava, se non costei? Chi avrebbe Tito senza alcuna dilazione fatto liberalissimo a comunicare il suo ampissimo patrimonio con Gisippo, al quale la fortuna il suo aveva tolto, se non costei? Chi avrebbe Tito senza alcuna suspizione fatto ferventissimo a concedere la propia sorella per moglie a Gisippo, il quale vedeva poverissimo e in estrema miseria posto, se non costei?
Disiderino adunque gli uomini la moltitudine dei consorti, le turbe de'fratelli, e la gran quantità de'figliuoli, e con gli lor denari il numero de'servidori s'accrescano, e non guardino, qualunque s'è l'uno di questi, ogni minimo suo pericolo più temere, che sollicitudine aver di tor via i grandi del padre o del fratello o del signore, dove tutto il contrario far si vede all'amico.