Era un giovedì sera e l'usuraia non filava per
timore della Giobiana, la donna del giovedì, che
si mostra appunto alle filatrici notturne e può loro cagionare
del male.
Pregava, invece, seduta sullo scalino della porta
sotto la ghirlanda della vite argentea e nera, alla luna: e ogni
volta che guardava intorno le sembrava ancora di vedere, qua e
là sulla muraglia dei fichi d'India, gli occhi di Efix verdi
scintillanti d'ira. Eran le lucciole.
Eran le lucciole: ma anche lei credeva alle cose
fantastiche, alla vita soprannaturale degli esseri notturni e
ricordava che da ragazzetta, quando era povera e andava a chieder
l'elemosina ed a raccogliere sterpi sotto le rovine del castello,
e la fame e la febbre di malaria la perseguitavano come cani
arrabbiati, una volta mentre scendeva fra i ciottoli, acuti come
coltelli, in faccia al sole cremis fermo sopra i monti violetti
di Dorgali, un signore l'aveva raggiunta, silenzioso, toccandola
per la spalla. Era vestito di colore del sole e dei monti, e il
viso si rassomigliava a quello di un figlio di don Zame Pintor
morto giovane.
Ella lo aveva subito riconosciuto: era il Barone, uno
dei tanti antichi Baroni i cui spiriti vivevano ancora tra le
rovine del Castello, nei sotterranei scavati entro la collina e
che finivano nel mare.
«Ragazza», le disse con voce straniera, «corri
dalla Maestra di parto, e pregala di venir su stanotte al
Castello, perché mia moglie, la Barona, ha i dolori. Corri,
salva un'anima. Tieni il segreto. Prendi questo.»
Ma Kallina tremava sostenendosi al suo fascio di
legna che contro il sole cremis le pareva una nuvola nera; non
poté quindi stendere la manina e le monete d'oro che il Barone
porgeva caddero per terra.
Egli sparve. Ella buttò il fascio, raccolse i denari
paurosa come l'uccellino che becca le briciole e scappò via
agile saltellante; ma la Maestra di parto, sebbene vedesse
le monete calde umide entro i pugni ardenti di lei, le
sputacchiò sul viso per toglierle lo spavento e le disse
ridendo:
«Vai che hai la febbre e il delirio; le monete le
avrai trovate. Se ne trovano ancora, sotto il Castello. Dammele,
che te le farò fruttare».
Kallina gliele diede; solo ne tenne una col buco e se
la mise al collo infilata ad un correggiuolo rosso.
«Andate», disse alla donna. «Salvate un'anima. Voi
fingete di non crederci perché io tenga il segreto. Ma lo terrò
lo stesso.»
E cadde a terra come morta.
La levatrice si ostinò finché visse a dire ch'era
stata un'illusione della febbre; ma si sa, ella diceva, questo
perché Kallina tenesse il segreto.
Le monete intanto fruttavano: fruttavano tutti
gli anni sempre più come i melograni che ella vedeva laggiù
verdi e rossi intorno al cortile di don Predu Pintor.
Una sera poi aveva provato, vecchia com'era, la
stessa impressione di gioia e di terrore di quella volta. Un
giovane signore le era apparso, tale e quale il Barone. Era
Giacinto. E ogni volta che lo vedeva, si rinnovava in lei quel
senso di vertigine, il ricordo confuso d'una vita anteriore,
antica e sotterranea come quella dei Baroni nel Castello.
Eccolo che viene. Alto, nero, col viso bianco alla
luna, entra, siede accanto a lei sulla soglia.
«Zia Kallina», disse una voce straniera, «perché
avete raccontato i miei affari al servo?»
«E' lui che ha voluto. Mi ha aggredita e voleva
uccidermi.»
«Uccidervi? Per così poco? Oh, quell'uomo e le mie
zie fanno tanto strepito per delle miserie, mentre c'è gente, laggiù,
che fa debiti per milioni e nessuno lo sa!»
Ma alla vecchia non importava nulla della gente di laggiù.
«Ho dovuto prendere il palo per difendermi! Intende,
vossignoria? Il servo è feroce: non si fidi!»
Giacinto stette un momento immobile, guardandosi le
mani su cui cadeva l'ombra tremula d'un riccio di vite. Poi
trasalì.
«Non mi fiderò. Anzi voglio partire. Non posso più
vivere, qui... Anzi, guadagnerò: fra quaranta giorni vi
restituirò tutto, fino all'ultimo centesimo. Adesso però mi
dovete dare i soldi per il viaggio. Vi rilascerò un'altra
cambiale.»
«Firmata da chi?»
«Da me!», egli disse risoluto. «Da me! Fidatevi.
Salvate un'anima. Su, presto! E tenete il segreto.»
Le tocco la spalla come il Barone, ed ella s'alzò e
andò a prendere i denari dalla cassa: due biglietti da cinquanta
lire che palpò a lungo, guardandoli attraverso la luna e
pensando che per il viaggio di Giacinto bastava uno. Così
l'altro lo ripose. La luna alta sul finestrino sopra la cassa
mandava un nastro d'argento fino al suo petto legnoso, e dalla
scollatura della camicia si vedeva la moneta d'oro infilata nel
correggiuolo diventato nero.
Giacinto non rimase contento. Cos'era quel foglietto
sottile in paragone dei tesori dei grandi signori del Continente?
Ma come l'usuraia diceva di non voler la cambiale, egli capì che
ella gli faceva una elemosina, e provò un'angoscia
insostenibile: gli parve d'essere ancora nell'anticamera del
capitano di porto, immobile ad aspettare.
«Allora non più tardi di domani ve li
restituirò», promise alzandosi.
E andò dal Milese per dirgli che l'indomani partiva.
Anche là, attraverso la porta si vedeva il cortile
bianco e nero di luna e dell'ombra del pergolato: la suocera
seduta sulla sua scranna da regina primitiva non filava per
rispetto alla Giobiana, chiacchierando con la figlia
febbricitante e con le serve pallide sedute per terra appoggiate
al muro.
«Mio genero è uscito un momento fa; dev'essere
andato da don Predu», disse a Giacinto. «E le zie di
vossignoria stan bene? Le saluti tanto e le ringrazi per il
regalo che han mandato a mio fratello il Rettore.»
«Le susine nere!», disse una serva golosa.
«Natòlia, corfu 'e mazza a conca, se le ha mangiate
tutte di nascosto.»
«Se me ne dà ancora, don Giacì, vengo giù al
podere con lei» disse Natòlia provocante.
«Vieni pure», egli rispose, ma la sua voce era
triste; e sebbene la vecchia padrona ammonisse:
«Ognuno deve andare coi pari suoi, Natòlia!»,
quando fu nella strada, egli sentì che le donne ridevano
parlando di lui e di Grixenda.
Sì, bisognava partire, andare in cerca di fortuna.
Per non ripassare davanti alla casa della fidanzata,
scese un viottolo, poi un altro, fino ad uno spiazzo su cui
guardavano le rovine d'una chiesa pisana.
L'euforbia odorava intorno, la luna azzurrognola
splendeva sul rudero della torre come una fiamma su un candelabro
nero, e pareva che in quell'angolo di mondo morto non dovesse
più spuntare il giorno. Ma subito dietro lo spiazzo
biancheggiava fra i melograni e i palmizi, simile a un'abitazione
moresca, con porte ad arco, logge in muratura, finestre a mezza
luna, la casa di don Predu.
Attraversando il grande cortile ove luccicavano alla
luna larghi graticolati di canna su cui di giorno s'essiccavano i
legumi adesso coperti da stuoie di giunco, Giacinto vide la
grossa figura di suo zio e quella smilza del Milese immobili
sullo sfondo dorato d'una porta preceduta da un portico.
Bevevano, seduti nella queta stanza terrena, con le gambe
accavallate e il gomito sullo spigolo del tavolo: e tutti e due,
l'uomo grasso e l'uomo magro, sembravano contenti della vita.
«Bevi, bevi!», dissero assieme porgendo a Giacinto
il loro vino; ma egli respinse assieme i due bicchieri.
«Stai male, che non bevi?»
«Sto male, sì.»
Però non disse che male, tanto quei due non
l'avrebbero capito.
«Tua zia Noemi t'ha bastonato?»
«Grixenda non ti ha baciato abbastanza? Corfu 'e
mazza a conca», disse il Milese ripetendo l'imprecazione
della serva golosa.
«Ohuff!», sbuffò Giacinto appoggiando i gomiti al
tavolino per stringersi la testa fra le mani; e come la sua
spalla tremava, don Predu gliela guardò, sbiancandosi lievemente
in viso; e quella spalla convulsa parve dargli tale noia che si
alzò e vi posò la mano dicendo:
«Usciamo, andiamo a prendere il fresco».
Andarono a prendere il fresco; i loro passi
risuonavano nel silenzio come quelli della ronda notturna. Gira e
rigira anche Giacinto fu preso dall'allegria un po' amara de'
suoi compagni.
«Andiamo a teatro, zio Pietro? A quest'ora nelle
città del Continente comincia la vita e il divertimento. Davanti
ai teatri passano tante carrozze, come un fiume nero. Si vedono
persino delle signore in giro ancora coi cagnolini...»
Il Milese rise tanto che gli venne il singhiozzo. Don
Predu era più riserbato, ma il suo sorriso, a guardarlo bene,
tagliava come un coltello.
«E tornatene là, allora! E portati dietro Grixenda
come un cagnolino.»
«Ohuff! Come siete stupidi, in questo paese.»
«Non come nel tuo, però.»
Egli tacque, ma dopo riprese:
«Perché mi chiamate stupido? perché ho buon cuore?
Perché vorrei passar bene la gioventù? E voi, che fate? E'
vita, la vostra? Che vita è la tua? Non vuoi bene neanche a tua
moglie malata. E voi, zio Pietro? Che vita è la vostra?
Accumulare i denari, come le fave sulla stuoia, per darle poi ai
porci. Non volete bene a nessuno, neanche a voi stesso».
I due amici s'urtavano sorridendo.
«Sei malato davvero, stanotte: male di borsa.»
«La mia borsa è più colma della vostra! Andiamo
nella bettola e vedrete», egli disse arrossendo nell'ombra.
«Tu non hai voluto bere con noi! Neppure se ti vedo
morire accetto il tuo vino!»
Tuttavia finirono nella bettola quasi deserta; solo
due uomini giocavano silenziosi e un terzo guardava ora le carte
dell'uno ora le carte dell'altro, ma a un cenno di don Predu si
avvicinò ai nuovi venuti e tutti e quattro sedettero intorno a
un altro tavolo.
Il bettoliere, un piccolo paesano che pareva un ebreo
della Bibbia, col giustacuore slacciato sulle brache orientali,
portò il vino in un boccale levantino e depose una lucerna di
ferro nero in mezzo alla tavola; e il Milese con la testa
reclinata a destra mescolò pensieroso le carte guardando ora
l'uno ora l'altro dei suoi compagni.
«Quanto la posta?»
«Cinquanta lire», rispose Giacinto.
Trasse il biglietto dell'usuraia. Perdette.
Sulla lucerna nera la fiammella azzurrognola immobile
pareva la luna sul rudero della torre.