Federigo Tozzi
Bestie
Carlo Mancosu Editore
Un click qui per tornare alla biblioteca telematica del progetto Manuzio.
Introduzione
Nel febbraio 1916, proseguendo da Roma il dialogo a distanza con l'amico Giuliotti inamovibile dal contado senese, Tozzi formulava un sintomatico giudizio sul pensiero di Leopardi che avrebbe potuto funzionare anche in chiave autobiografica: "Il suo pessimismo non è basso e non è ateismo: è dolore". Già Luigi Baldacci ha posto l'accento sulle ascendenze leopardiane della poetica di Tozzi, una visione del mondo in perenne stato di souffrance ma in prospettiva aideologica . almeno nel primo e non programmatico Tozzi - in linea piuttosto con le pulsioni del profondo. La nota formula d'Autore dei "misteriosi atti nostri" quale oggetto privilegiato della narrazione fa luce sulle pagine criptiche e, si è anche detto, per niente amene di questo contemporaneo così poco compreso. Una poetica del concreto, fatta di cose e di atti, appunto, che mantengono un legame privilegiato con il mistero interiore, con quello che nei precoci aforismi di Barche capovolte è "il profondissimo pozzo dell'anima". Le coordinate della modernità ci sono tutte, dalla crisi di comprensione del reale alle soluzioni adottate per uscire dall'impasse che puntano, com'è naturale nel Novecento, alla coscienza. E proprio in termini di cultura psicologica e scientifica Marco Marchi ha sorprendentemente e proficuamente affrontato il discorso critico su Tozzi, rivelandoci uno scrittore assai meno sprovveduto e di fatto più conscio della propria arte di quanto non fosse mai stato valutato. Sul Tozzi della consapevolezza letteraria piuttosto che su quello della genialità istintiva conviene oggi insistere per penetrare la scrittura di romanzi come Con gli occhi chiusi o Il podere e le stesse Bestie, unanimemente riconosciuti tra i capolavori dell'autore; ma anche per cogliere appieno il senso e il valore di opere apparentemente marginali come Barche capovolte, il frammentario romanzo Adele e tante novelle dove si condensano la qualità novecentesca e la cultura dell'autore, nelle forme ora del primitivismo misticheggiante (l'esempio etico e stilistico degli "antichi scrittori", di Santa Caterina, di San Bernardino), ora delle moderne acquisizioni filosofico-scientifiche (James e Bergson in primis). In Bestie il complesso e articolato sistema culturale di Tozzi è sostanzialmente attivo fin da quella data 1912-1913 che segna la composizione dei primi brani, in significativa concomitanza rispetto alla stesura di Con gli occhi chiusi. Non è certo la naturalistica degradazione dell'antropomorfico a livello della più bassa animalità a prendere corpo nella galleria di situazioni di questo ermetico libretto, con il quale lo scrittore senese riusciva finalmente nel 1917, a proporsi al vasto pubblico per i tipi ambitissimi di Treves. L'opera prima di Tozzi sul versante della narrativa (l'esordio risale al 1911, con il volume di liriche La Zampogna verde) propone con forza la tematica del gap esistenziale umano divino, dell'intollerabile oppressione di un Dio Padre dalle terribili cadenze vetero-testamentarie, da cui trae inevitabilmente origine l'omologazione nel dolore di bestie, cose e persone - titoli tra l'altro di una trilogia progettata e scritta, ma quanto all'edizione completata solo nel 1981. Nella scelta della prosa breve quale misura compositiva di Bestie si è a lungo voluto leggere il concretizzarsi di una specie di sospeso letterario dell'autore nei confronti del frammentismo vociano. Si deve tuttavia a Giacomo Debenedetti il merito del riconoscimento in Tozzi di un innegabile animus narrativo, che in realtà "forzava il frammento a diventare pietra e mattone di un edificio": di una tendenza cioè alla costruzione organica del testo, in perfetta sintonia con la formula borgesiana del "tempo di edificare". Eccole allora le bestie funzionare come collante di prose liriche eterogenee; e a ben guardare la volontà strutturante di Tozzi si impegna decisamente oltre l'utilizzazione sistematica del refrain animalesco con funzione emblematica, drammatica o puramente pretestuosa, che è poi la triplice alternanza giustificativa riscontrata da Debenedetti. Bestie è un'opera che nasce dal ragionato assemblaggio dei brani narrativi, e lo si intuisce fin dalla prosa collocata in apertura di volume che trova il suo esatto corrispettivo tematico e zoomorfico in quella di chiusura: la campagna e l'anima, il cielo e l'allodola a cornice del testo. "Che punto sarebbe quello dove s'è fermato l'azzurro? Lo sanno le allodole che prima vi si spaziano e poi vengono a buttarsi come pazze vicino a me?" Dunque la volta celeste ha un confine fisico, così come accade per la sfera terrestre. &EGRAVE possibile tracciare le linee della originale cosmografia tozziana tenendo conto del fatto che la prospettiva è quella di un corpo disteso sull'erba verde di un prato: l'occhio corre all'orizzonte come alla linea di cesura fra le due calotte speculari di cielo e terra che si aprono a guscio per accogliere al loro interno uomini e bestie. Alla finitezza cosmica si oppone l'infinitamente piccolo degli esseri animati, presenze allucinate e incomprensibili, spie di una realtà che si tenta di recuperare sprofondando nell'abisso dell'anima, ma che rivela solo il nulla. "Non ho mai guardato dentro un pozzo senza pensare alla morte". I pettirossi che "ruzzano" liberi, le rondini che stridono nell'azzurro o appena scampate al temporale sono altrettante metafore del desiderio di affrancarsi dal mistero dell'esistenza: "Ci si sta così bene a piangere con la faccia su l'erba fresca, che arriva fino all'anima! L'allodola! Piglia la mia anima: e il cerchio si chiude all'ultima pagina del libro. Solo di rado, tuttavia, la presenza degli uccelli assume valenza rasserenatrice. Nell'ampia casistica dell'avifauna tozziana (in assoluto la più ricca di presenze in questo singolare bestiario) s'incontrano anche merli e canarini in gabbia, gazze fradicie e spennacchiate, pipistrelli che emergono da distese di nebbia fumosa, pavoni orgogliosi, civette sibillinamente canterine, piccioni dalle ali tagliate; bestie vive ma non vitali, anzi inquietanti nelle loro significazioni simboliche e nel surplus di significato di cui le investe una coscienza straniata dal senso delle cose. C'è poi la sequenza crudele o semplicemente desolata delle bestie morte, insetti per lo più, che in genere si ricollegano all'area semantica dell'estate torrida e disseccata. In uno scenario da progressiva e inesorabile apocalisse il canto di una cicala risuona come una maledizione divina, e con il gesto finale ( "La stringo. Le stacco la testa".) si compie l'ultima dissacrazione possibile. Analogamente prosciugato dalla linfa fisiologica, ridotto a reperto epocale al pari di tre bottoni e un giornale illustrato, si materializza un piccolo scarabeo verde e oro, "quasi trasparente come un vetro prezioso", rimasto chiuso per anni nel fondo di un cassetto che odora di stantio e dove la vita ha da tempo rassegnato le dimissioni. Insetti, ancora, come distrazione dall'angoscia del male (la zanzara o l'ape di cui si segue il volo), momentanea perdita di coscienza di sé nella realtà della malattia e della morte. Antologizzati fra le diverse tipologie animalesche che fanno la loro comparsa nelle pagine di Bestie ecco infine una serie di esemplari domestici come cani, gatti, porci, e soprattutto galli e galline, a conferma di una speciale predilezione narrativa per la vita aggressiva e violenta del pollaio che ricorre già nel precoce abbozzo di romanzo Adele e in alcune novelle tozziane. Ed ancora l'atroce mattanza dei rospi che si compie nel più assoluto silenzio delle vittime, anch'esse predestinate al sacrificio come tanti personaggi tozziani, da Remigio Selmi del Podere alla ragazza cenciosa del racconto Il crocifisso. Di Bestie si può anche parlare come del poema in prosa di Siena, la mistica Città della Vergine dove "ci si tormenta fino alla disperazione". Nella stralunata topografia urbana e rurale è messa a frutto l'autentica vena espressionista dell'ispirazione tozziana: tutto rivela un senso di disagio e di incipiente rovina, è un precipitare "perpetuo di tetti insieme con le strade", con i lampioni che sembrano "acchiapparsi al muro per non cadere dalla stanchezza", e persino il cielo riflette la solitudine e la cattiveria di queste mura minacciose che nel loro crollo sembrano voler travolgere qualsiasi forma di vita. Non fu facile per Tozzi riuscire a dare alle stampe questo libro di "liriche senza canto e senza retorica" (secondo il giudizio di uno dei primi lettori: Paolo Orano), aspro e triste come l'anima del suo autore negli anni della disperata ricerca del senso di un'esistenza che si sarebbe dovuta compiere per forza di scrittura. Al cosidetto "sessennio di Castagneto" (1908-1914), vissuto nel podere lasciatogli in eredità dal violento padre-padrone Federigo Tozzi senior, succede il "sessennio romano" (1914-1920) dell'intensa attività saggistica nelle redazioni capitoline e delle innumerevoli collaborazioni periodiche: un mondo letterario nel quale Tozzi, con Bestie, si attestava narratore sicuro e di assoluta grandezza, dando avvio all'apprezzata (seppure troppo breve) stagione editoriale dei romanzi che hanno consacrato lo scrittore senese tra i massimi del nostro Novecento. Laura Melosi |
Bestie
Che punto sarebbe quello dove s'è fermato l'azzurro? Lo sanno
le allodole che prima vi si spaziano e poi vengono a buttarsi
come pazze vicino a me? Una mi ha proprio rasentato gli occhi,
come se avesse avuto piacere d'impaurirsi così, fuggendo.
Che chiarità tranquille per queste campagne, che si mettono
stese per stare più comode! Che silenzii là dall'orizzonte e
dentro di me!
La strada per tornare a Siena è là. Vado.
Le case si facciano un poco a dietro, e quel mendicante non mi
cada addosso. Almeno l'altro è seduto per terra! Dio mio, tutte
queste case! Più in là, più in là! Arriverò dove trovare un
poco di dolcezza!
Dio mio, queste case mi si butteranno addosso! Ma un'allodola è
rimasta chiusa dentro l'anima, e la sento svolazzare per escire.
E la sento cantare.
Verso il settentrione; dov'è di notte l'orsa, dove la luna non
va mai!
Ora, se anche io t'amo così, o allodoluccia, vuol dire che tu
puoi restare dentro la mia anima quanto tu voglia; e che vi
troverai tanta libertà quanta non ne hai vista dentro l'azzurro.
E tu, certo, non te ne andrai mai più.
Non fai né meno ombra!
Esciamo dalle strette delle case e dei tetti. La città si chiude
sempre di più; le case sono sempre più vuote; e non vi
troveremmo niente per noi.
Lasciamola qui, questa gente che metterebbe me al manicomio e te
dentro una gabbia!
Sono le tue ali che tremano oppure è il mio cuore? Credo che sia
passata la morte, in cerca non si sa di chi. Oh, ma la chiuderemo
dietro qualcuno di questi cancelli, in uno di questi vicoli senza
sfondo, insieme con la spazzatura! A Siena, ce ne sono di questi
cancelli che nessuno apre mai, perché non servono più a niente;
dalla parte di dietro a qualche orto che nessuno coltiva; di
fianco a qualche palazzo disabitato.
* * *
Nel tinaio, sotto un vecchio barile che aveva perduto anche i
cerchi, ritrovo una tavola di sorbo. Perdio! Se mi riesce a
segarla come voglio, mi ci viene un bel tagliere.
Prima, con la lima a triangolo, arroto i denti della sega, poi mi
metto all'opera. &EGRAVE legno così duro, che, per quanto
consumi tutta la sugna che tenevo incartata su la cappa del
camino, non giungo alla fine. La sega brucia e doventa pavonazza.
E poi, non riesco ad andare a filo. Allora prendo un accettino e
concio la tavola alla meglio. Quando ho quasi finito, m'accorgo
che c'è un buco fatto da un tarlo. Lo voglio trovare! Spacco nel
mezzo la tavola; e in fondo al buco, che gira quasi come una
spirale, lo trovo: bianco e tenero, con una puntina rossa. Lo
lascio stare: io sono Dio, ed egli è un solitario dentro una
Tebaide.
* * *
Da ragazzo mi compravano pochi libri. Mio padre voleva ch'io
non leggessi; e, con la scusa che mi sarei sciupato gli occhi,
non cavava mai un soldo di tasca. Quei cinque o sei che avevo, li
tenevo insieme con la biancheria; e m'avveniva che, quando tiravo
il cassetto per prendere una camicia o altro, ne aprivo uno e
leggevo senza muoverlo dal suo posto.
Ma, un capodanno, la mia donna si decise a comprarmi per regalo,
avendo io insistito fin da un mese prima, quel libro del Verne
che si chiama Nel paese delle pellicce. Io cominciai a leggerlo,
ma non andavo mai in fondo, perché tornavo sempre alle pagine a
dietro.
Finalmente, dopo un tre mesi, giunsi all'ultima pagina come se
quelle avventure fossero toccate a me. E più d'ogni altra cosa,
forse, mi rimase a mente una figura dov'era un orso che voleva
entrare dentro una capanna.
Tutte le volte che ho visto orsi veri, ho sempre pensato a
quello; e come, guardandolo, per un bel pezzo mi scuotevo e mi
smuovevo tutto.
* * *
Mi ricorderò sempre degli otto mesi che, a Siena,
precedettero il mio matrimonio: forse perché non mi accadeva mai
niente e tutti i giorni, due volte, scrivevo alla mia fidanzata.
Stavo a retta in Via del Refe Nero, in fondo alla scesa. La mia
padrona vendeva il vino e dalla sua fiaschetteria si poteva
salire in casa: di lì passava sempre lo sguattero di quella
trattoria che avevo incaricato di mandarmi il pranzo e la cena.
Per pigliare moglie aspettavo che i miei interessi, essendomi
morto anche il padre, fossero stati sistemati. Parentele non
c'erano; ed io vedevo molto di rado anche i miei amici. Andavo a
trovarne qualcuno la sera, quando mi ero sentito troppo solo.
Anche con la mia fidanzata parlavo, sì e no, tre volte il mese,
di nascosto, fuori di città, perché suo padre non aveva ancora
voluto dare il consenso, permettendole nondimeno di ricevere le
mie lettere e di rispondermi; credo che volesse aspettare la
sistemazione della mia eredità, ch'egli supponeva molto al
disotto di quanto è stata. C'erano, è vero, molti debiti da
pagare; ma non abbastanza da sciuparmela!
Il mio amore sincero per Clementina aveva molto influito su la
mia vita e sul mio carattere. Mi ricordo che una volta, per
esempio, avrei potuto veder nuda, riflessa dal suo specchio, la
mia padrona di casa, che non era né brutta né vecchia ed io
invece entrai in fretta nella mia camera. Un'altra volta,
d'estate, mi ritrassi dalla finestra perché a un'altra finestra,
dall'altra parte della strada, a un piano più basso, c'era una
ragazza che si spogliava. Ora non lo farei più!
Ogni giorno m'accadeva di vedere e di osservare le stesse cose e
le stesse persone. Il calzolaio di faccia, che faceva invano la
corte alla mia padrona: era un ometto piuttosto basso, magro, con
i baffetti sottili e gli occhi glauchi: ad ogni momento,
lavorando, seduto sul suo panchetto, si passava il dorso della
mano, quella libera, sopra i baffetti.
Un altro vinaio che stava su la porta della sua fiaschetteria a
guardare sempre quella della mia padrona: qualche volta faceva
anche pochi passi, nella strada, con le mani incrociate: portava
un grembiule con una gran tasca dove teneva i soldi e le chiavi,
un berrettino scuro; e aveva i baffi neri, alto e sempre serio, a
capo basso. Quando entrava un cliente nella sua bottega, lo
lasciava passare innanzi e dava un'occhiata a quella della mia
padrona. Sopra la sua insegna c'era una Madonna, ad affresco,
scalcinata e stinta: tutti i sabati le accendeva il lumino,
tirando giù la fune a cui era attaccato; riconoscevo perfino il
lieve cigolio della carrucolina. E poi restavo, dietro i vetri, a
guardare quel lumicino che faceva scorgere soltanto le mani e le
ginocchia della Madonna.
Nella casa di faccia alla mia, un poco di sghembo, perché la via
non è dritta, c'era un laboratorio di sarta. Una delle ragazze,
saranno state quasi una dozzina, non andava, nell'ore di riposo,
a mangiare come facevano le altre; ma socchiudeva la finestra
dietro la quale prima aveva mangiato, in piedi, il suo spicchio
di pane con il companatico, per fare all'amore con uno studente
che aveva la finestra di fianco alla mia. Il sole batteva tra
l'una e le due, proprio su la faccia, ma stava per tutto quel
tempo quasi immobile: era biondissima, con una carnagione più
rossa che rosea. Non sorrideva mai, forse per nascondere di più
agli altri il suo motivo di star lì.
Sopra a me, abitava la moglie di un pizzicagnolo, e tutti i
pomeriggi, il vicecurato della nostra parrocchia saliva da lei:
ne sparlavano, ma non ci credo. Era pallida e con un collo così
gonfio che mi faceva pensare a quello di un'anatra quando ha il
gozzo pieno.
Qualche sera, io escivo e andavo in Piazza di Provenzano: c'era
più fresco e vedevo la campagna doventar madreperlacea, dietro
le mura della città, tutte rosse e più alte o più basse
secondo la forma dei poggi che, di seguito, salgono e poi
scendono. In fondo, il Monte Amiata che brillava come una seta
azzurrognola; mentre gli avvallamenti del terreno, quasi tutto
creta, si empivano di un'ombra violacea, e i rialzi
s'illuminavano di giallo o di bianco. Poi l'ombra velava ogni
cosa, i colori si confondevano e sparivano: e tutta la campagna
mi dava un senso di solitudine che mi scoraggiava. Quando
m'allontanavo dal murello, su cui m'ero appoggiato con il petto e
con i gomiti, i tre lampioni della piazza erano già stati
accesi, la facciata della Chiesa era più grigia, la cupola
pareva per sparir nel cielo con la sua palla dorata che non
luccicava più. Via Lucherini, in salita, era oscurissima: io
tornavo a casa toccando uno per volta i colonnini dalla parte del
mio marciapiede. Qualche volta, da un uscetto, che è più alto
della strada due scalini, esciva una meretrice che ci stava di
casa. Ed io, per guardarla, una volta, buttai giù, urtandoci,
una gabbia con un merlo; che un ciabattino teneva attaccata ad
uno stipite fuor della sua bottega.
* * *
La mia anima è cresciuta nella silenziosa ombra di Siena, in
disparte, senza amicizie, ingannata tutte le volte che ha chiesto
d'esser conosciuta.
E così, molte volte, escivo solo, di notte, scansando anche i
lampioni. Per lo più andavo fino alla Piazza dei Servi, tutta
pendente dalla scalinata della chiesa, con due abeti in mezzo a
due piccoli prati, divisi tra loro dalla imboccatura della
strada. Accanto alla Chiesa, un convento, quasi di faccia, un
angolo: di là dal muro, Siena con tutta la sua torre. Allora
pensavo alla mia fidanzata.
Siccome mi riesciva di vivere, così, separato da tutti, ogni
volta che qualcuno mi guardava con quella sua curiosità acuta
che m'offendeva, io doventavo più triste; e facevo la strada
più corta possibile, non passavo mai per Via Cavour, che è
quella principale; ma, dal Vicolo della Torre, rasente il Palazzo
Tolomei, le cui pietre sono ormai nere, attraversavo e scendevo
per il Vicolo del Moro: in fondo, a sinistra, c'era la mia casa.
Basta ch'io mi ricordi di quelle mie tristezze perché mi sembri
cattivo anche il cielo di Siena. Specialmente la sera soffrivo
troppo, e non accendevo il lume per non vedere le mie mani: la
tristezza stava sopra la mia anima come una pietra sepolcrale,
sempre più greve; e mi sentivo schiacciato sulla sedia. E avrei
voluto morire.
La mattina, quando incominciavano i soliti pettegolezzi e le
chiacchiere - la mia padrona, Marianna, non poteva fare a meno,
magari con una parola sola, di farmene sentire subito la feroce
persecuzione - andavo subito in collera; ed ero certo che sarei
stato male tutta la giornata.
O strade che mi parevano chiuse sotto campane di vetro!
O amicizie sognate, e soffocate per forza dentro la mia anima,
con ira!
Quando andavo a lavarmi le mani e il viso in cucina, sotto la
cannella, quasi sempre una lumaca aveva scombiccherato, con il
suo inchiostro luccicante, tutta la porta.
* * *
Egli è tisico: con il viso giallo e incavato. Soltanto la
punta del naso ha pavonazza e con qualche bitorzolo. Porta gli
occhiali e dentro i suoi occhi pare che cada la cenere. Cammina a
lunghi passi rigidi; smuovendo, secondo il piede, le spalle.
Ella si vergogna di mettersi una rosa! I suoi guanti sgualciti e
sfondati, la sottana che le resta tra le gambe, il cappello
ch'era stato di moda dieci anni prima, le scarpe con i tacchi
storti.
Si conobbero a una birreria, accanto al pubblico passeggio, di
domenica: i tavolini di pietra, rotondi, gli sgabelli di ferro
verniciato, l'orchestrina stonata, diretta dal maestro calvo.
Si sposarono.
Non escono quasi mai insieme; ed ella è seguita da un
canettaccio bastardo, spelacchiato e rattrappito, che dopo ogni
trenta metri s'arresta per non cadere su le gambe di dietro.
* * *
Mi ricorderò sempre dei bei prati verdi che cominciavano
dalla mia anima e da' miei piedi, e finivano quasi all'orizzonte.
Pareva che tutta la terra stesse zitta per forza! O lunghe
ventate, che non mi davano tempo di pensare! Forse, non ero
triste quanto oggi; e tutte quelle mattine passate in ozio mi
facevano bene.
Vedevo i contadini lavorare, di lontano, sul terreno a poggetti:
e mi proponevo di andarci a parlare. Ma, fatti pochi passi, non
ne avevo più voglia. Allora guardavo le case dei poderi, sempre
dietro una sfilata di cipressi, con la strada in salita dove i
carri avevano lasciato solchi larghissimi, sciupandola e portando
via qualche strisciatura dai greppi. Forse, lo ripeto, non ero
triste quanto oggi; e nel mio cuore i sogni non erano come vipere
che si sentono buone. Allora, una giornata trascorsa non mi
pareva un'altra ruga della mia fronte; e non avevo voglia di
piangere, come ora, anche per piccola cosa e anche per niente.
Ma, forse, mi pentirei io di piangere?
Io sono soffocato dal mondo; e, quando parlo, mi pare che la mia
anima riesca ad escirne fuora. E perché posso sentire odori che
forse né meno esistono?
Io avevo in mente di trovare alberi, ed alberi erano da per
tutto. Ma quel cielo, tutto turchino uguale, che mi pareva
fossesi chiuso soltanto pochi momenti innanzi che io arrivassi,
mi metteva un rimpianto di sogni.
Su i poggi cretacei l'aria splendeva, i fieni tremavano e
luccicavano; e dalla strada, ch'io non vedevo, si fermavano,
quasi salendo sopra i greppi, lunghe strisce di polvere dietro le
automobili. Quella polvere pareva gialla; ma, diradandosi sempre
di più, cominciava a brillare proprio nel momento ch'era per
sparire affatto.
Dopo aver guardato, scendevo lungo i confini umidi del mio campo,
dove l'erba era sempre più fitta e più alta. Talvolta
nascondeva l'acqua traboccata dal fossetto; e mi bagnavo tutte le
scarpe. Arrivavo fino ad un pinzo, dov'era un nocciolo selvatico;
fermatomi dinanzi a lui, a poca distanza, non andavo via senza
prima aver troncato un ramicello che mettevo subito in bocca.
Risalendo il confine, verso casa, mi chinavo, senza fermarmi, per
strappare un ciuffo di nipitella; e la sfregavo tra le mani.
Sul mio poggio, rivedevo i cipressi e le siepi. Allora guardavo
lungamente il turchino, ed ero contento di vedervi un pettirosso
che ruzzava con le sue ali.
* * *
Io non so chi fosse il morto. La marcia funebre suonata dalla
Filarmonica mi fece balzare da sedere: il carro a cavalli aveva
già voltato per un'altra strada, e le fiamme delle torce mi
fecero caldo al viso. Passò la folla degli amici e dei curiosi.
Le corone, sorrette a mano, si comportavano così bene che
ciascuna s'appoggiava su le braccia dei due uomini come se non
avesse potuto più resistere al pianto della musica. I ceri
cercavano di cadere. Lo stendardo, verdastro e sporco, faceva di
quando in quando alzare gli occhi incappucciati di bianco; le cui
medaglie attaccate alla cintola sbattevano.
Quando tutto il corteo fu passato, io rimasi alla finestra
rodendo con i denti il legno della persiana. E mi distrassi, a
poco a poco, guardando una zanzara le cui ali parevano infilate a
due pezzetti di capello.
* * *
Invidio quel ciabattino che suona così bene la chitarra
quando non ha più voglia di farsi male alle dita con la lesina.
Una ventina d'anni, una gamba sola, e poca voglia di lavorare.
Le donne, che tornano invano più di una volta a riprendersi le
scarpe, stanno con lui sempre a chiacchiera.
Quando ha fatto colazione, stende la gamba di legno su la
seggiolina del compagno, il quale va a cucire in fondo alla
stanzetta: il suo bel viso esprime una contentezza, quasi cattiva
e viziosa: ha i capelli lunghi e a zazzera, gli occhi chiari,
furbi ed anche intelligenti. Se poi si mette a cantare, quando ha
finito ride, seguitando a fare qualche accordo più piano che è
possibile e pigiando perciò subito la mano su le corde. Quella
sua chitarra ha una voce che riconoscerei fra cento altre con le
corde un poco lenti e molli, rauca e triste.
Egli dà la baia a tutte le ragazze che passano, alzando il viso
dall'uscetto. Ma essendo la sua bottega, senza finestre, più
bassa della strada quattro scalini, le ragazze lo sentono e non
vedono nessuno. Ho notato che qualcuna trattiene il passo per
capire da dove viene quella voce.
Egli dice più bestemmie che non dia punti alle suole. Ha
bestemmie inventate da lui e che, dagli altri, ridendo, sono
lodate così: - Me le insegna Fonfo!
La sua bottega somiglia a quella di tutti i ciabattini; non è
difficile ch'egli ve la faccia ammirare, se andate a parlargli.
Nella parete più larga, quella dinanzi alla porta, ci ha
impastato un calendario tredici anni fa, quand'era ragazzino. Il
suo babbo, religioso, teneva una madonna quasi all'altezza del
soffitto, e sopra una tavola sorretta da due mensoline di gesso
le accendeva il lume ad olio tutti i sabati. Ora c'è rimasta la
madonna e il bicchierino del lume che invece d'olio è pieno di
polvere nera.
Ma non so definire l'effetto che mi produce Fonfo quando fa
saltare in cima alla gamba di legno, tenendola su più alta del
capo, la gazza spennacchiata, sudicia e sempre fradicia, perché
entra nel catino dove egli bagna il cuoio.
* * *
Il Migliorini è un uomo che lavora la terra a un tanto il
giorno; cambia padrone quasi tutte le stagioni, ed è bravo a
potare le viti.
Egli comprò, da un suo amico rigattiere, la Gerusalemme e
l'Orlando: dieci volumi di quella carta che pare cencio, e con
una piccola figura ogni canto. Quando è l'ora di riposo cava
dalla sporta, lasciata a un ramo di qualche pianta, un volume, e
lo legge agli altri.
L'anno che lo conobbi, se pioveva entrava dentro una porta vicina
al mio podere, dove ci potevano stare a pena in dieci, seduti
sopra pezzi di legno secco e avanzi di potature.
L'acqua sgocciolava da per tutto e colando dal tronco di un
pesco, nato quasi a traverso l'imbocco, faceva una pozzanghera
proprio nel bel mezzo. Ma il Migliorini, con la zappa, scavando
un fossetto e alzando un argine con la terra smossa, aveva
provveduto in modo che le scarpe non se le bagnavano più. Poi,
acceso un poco di fuoco, arrostiva le fette del pane, infilandole
ad una frusta che egli girava, tenendo l'Orlando aperto sopra una
coscia e stando in ginocchio con l'altra gamba.
Io mi ci sarei indolenzito subito.
Ad ogni ottava, faceva il commento a modo suo, e poi:
- State a sentire com'è bella! Non pare vera?
E batteva le lunghe dita terrose sul libro. Sapeva dire in poche
parole la storia di ogni personaggio; e rispondeva a tutte le
domande che gli facevano i compagni. Aveva gli orecchi bucati; ma
aspettava che morisse un suo zio che gli avrebbe lasciato due
anelli d'ottone. Portava i capelli lunghi da dietro, come una
ragazza a cui stanno per ricrescere dopo che le sono stati
tagliati. Teneva il cappello sopra gli occhi, ed era molto alto.
Quando tornava a casa, infilava la sporta al braccio fino al
gomito: d'inverno aveva un pastrano turchino; e al cappello, in
vece del solito nastro, una trina nera da donna.
Una volta, veduto un rospo, insegnò come si uccidono: si prese
di bocca, con un dito, la cicca che biascicava e, messala in cima
al coltello, gliela cacciò dentro la gola. Il rospo cominciò a
tremare, doventando quasi giallo; apriva e chiudeva gli occhi,
che parevano più piccoli e più lucidi. Quando venne il padrone,
perché l'ora del desinare era passata, con un calcio tirarono in
fondo alla balza la bestia già morta, dove facevano le fosse per
le viti. E quando, l'anno passato, ripulirono un gran frontone
putrido e verde che pareva una palude, di fianco a un bosco di
querci e di castagni, pieno di macigni e di radici nere, cavavano
fuori dall'acqua i rospi con una rete fatta con il filo di ferro,
per metterli dentro un secchio. Quando il secchio era colmo,
aprivano una buca con una vanga; e ve li zeppavano dentro. Poi li
ricoprivano di terra; e sopra, dopo averci pigiato con i piedi,
lasciavano uno di quei macigni più pesi.
Io andavo da una pianta all'altra senza dir niente, perché
sarebbe stato impossibile farli smettere; con il cuore doventato
mencio. Ma come mi s'empì la bocca di saliva che pareva bava,
quando vidi una rospa che pareva un grande involto! E poi che
ella mi guardava con quei suoi occhi di ragazza brutta, forse
più acuti dei miei, mi sentii venir male.
Ma due anni fa, dopo il vespro, per tornare a casa, io dovevo
camminare lungo un viottolo fatto sul margine di un torrente,
scansando a ogni passo i salci e i pioppi. La mia scontentezza
cresceva come le ombre; e niente c'era di peggiore della sera
diaccia. Le nebbie salivano lungo il torrente, i salci
sgocciolavano, con le gocciole che si fermavano un poco in punta
alle foglie all'ingiù, i pioppi erano umidi. I poggi
s'oscuravano, e le terre lavorate doventavano più nere. A
qualche podere vedevo una finestra con il lume. Le chiese avevano
già suonato, e i loro echi m'erano parsi di un azzurro così
cupo e taciturno come erano taciturni gli usci rossi delle
capanne chiuse e le aie deserte.
Siccome la strada era lunga, mi si faceva buio presto; e, se
nessuno s'accompagnava con me, camminavo più piano quantunque mi
crescesse la fretta d'arrivare. Che tristezza desolante e
silenziosa! Qualche volta un rovo, i cui tralci erano stesi in
terra, mi si attaccava ai calzoni: prima di distrigarmi, mi
approfittavo d'esser stato fermato per sfogare la mia
scontentezza guardando l'ombra dietro a me. Ma tutto il torrente
era pieno di rospi da dove ero venuto a dove andavo, anche così
lontano che gli ultimi a pena s'udivano; e la loro voce che mi
pareva tranquilla, ed è invece tremula, mi consolava. Tutti gli
altri che avevo veduto morti o agonizzanti ricordavo allora!
Quello a cui con una frusta di salcio avevano fatto un nodo
scorsoio e l'avevano lasciato lì ciondoloni; quello infilato,
dal ventre, a una canna aguzzata: la canna riesciva dalla bocca,
e il sangue colava più grosso e scuro; quello a cui avevano
schiacciato con i sassi tutte e quattro le zampe; quello accecato
con i tizzi della brace; quello sbudellato con un colpo di
falcino; quello schiacciato dalle ruote del carro, a posta;
quello lanciato in aria dando un colpo sopra una tavoletta messa
in bilico; quello pestato dai due fidanzati; questi sono i rospi
che ho visto morire, silenziosi, con quei loro occhi che di notte
luccicano.
* * *
Dietro la mia aia ci sono due pagliai quasi uguali, l'uno
accanto all'altro che a pena ci passa tra il mezzo un uomo.
Sedendomi in cima all'aia, dove tira meno vento, vedo tra i due
stolli, un pezzo d'orizzonte. Non c'è mai niente; né meno le
stelle, perché stanno più alte; ma non so perché seguito mezze
ore a tenerci gli occhi pensando tante cose.
Una sera mi divertivo a veder le nuvole che, a brancare fitte,
una dietro l'altra, passavano tra quei due legni. Era già più
di un'ora; ma il vento tirava sempre eguale facendo un brusio
tranquillo dietro le mie spalle, nel bosco di una villa. A volte,
ascoltando, pareva che il brusio crescesse sempre di più; ma mi
accorgevo subito che era un'illusione.
Dunque, le nuvole venivano forse per ruzzare, ma senza mai
urtarsi o trattenersi, dubitando della strada: talvolta, se
tenevo il capo riverso, mi pareva un'enorme nevicata a sguiscio,
orizzontale: e, in fatti, quelle nuvole parevano immensi fiocchi
di neve; ma non traballavano e non deviavano. Da dietro
all'ultima collina facevano a pena in tempo ad apparire che già
erano sopra i due stolli: di quelle passate dietro di me non me
n'occupavo, ma mi pareva di udirle correre cadendo sopra l'altra
cerchia di poggi dove tramonta il sole. Ad un tratto, si
diradarono; il vento cambiò, mulinando un poco e buttandomi su
gli occhi la polvere dell'aia. Allora una nuvola sola, grande,
piatta, candida nel chiaro di luna, ma soffice e leggera leggera,
si fece avanti. Di mano in mano che s'avvicinava, si stese di
più, perse qualche lembo; si forò, ma si richiuse; non molto
compatta, quasi per cadermi addosso; a pena sorretta dal vento
che doveva durare fatica a smuoverla. A mezzo cielo, si fermò.
Allora m'accorsi che tutto l'orizzonte ormai ne era coperto. La
luna che io non potevo vedere, la illuminava così bene di sotto
che quasi abbagliava gli occhi; specie la sua punta; mentre il
turchino del cielo s'era fatto più nero, senza stelle. Quando
smisi di guardarla, e girai gli occhi intorno, mi sentii smarrito
e per morire subito; ed avrei avuto bisogno di appoggiarmi: ma
mentre così aspettavo che mi passasse il malessere e di tornare
bene in me per andarmene, mi rasentò, come se fosse mandato da
quella stesa di nebbia così alta, un vipistrello.
* * *
Dove vai tu ch'io sento parlare e perciò riconosco? Tu non
esisti, ma io vedo lo stesso come sei vestita; ti vedo camminare,
ti sento vicina; e scorgo bene il tuo viso. Allora, non mi rimane
che mettermi a scrivere, perché ci sentiamo già d'accordo; ed
io qualche volta suggerisco e finisco i tuoi pensieri, e qualche
volta bisogna che ti ascolti. Tu sparirai come una bolla di
sapone; anzi bisogna ch'io mi affretti perché tu mi giri intorno
con troppa fretta, rapidamente.
E se m'avvicinasse una persona di casa, ecco tu, o allucinazione,
te ne andresti dietro la porta; ed è probabile che tu non
tornassi.
Potrei raccontare con precisione come sei pettinata, come tieni
le mani.
Ma ecco sento chiacchierare da vero; e un piccione, beccando a un
vetro della finestra, ti strappa da me.
* * *
Per lo più i nomi di quelli che fanno parte d'una famiglia
acquistano un'armonia che li riunisce, sembrano fatti d'una
stessa materia, come i chicchi di un rosario. Già i nomi, che si
tramandano da avo a nipote, completano questa fisionomia.
Delle persone che amiamo, dei nostri parenti, non rimane nel
tempo che il loro nome; quand'essi non sono né meno doventati
fotografie sbiadite negli angoli meno visibili del nostro
salotto.
Siccome la mia zia era morta povera, non avevo mai più aperto
l'armadio dove stavano ancora i suoi abiti. Soltanto dopo cinque
anni, dovendo ripulire la casa per prendere moglie, untai con la
penna e con l'olio la serratura prima di ficcarci la chiave piena
di ruggine.
Dunque dicevo che la mia zia aveva una voce che ricordava le
pasticche biascicate senza che nessuno se ne avveda. Tutte le
volte che veniva a cercarmi, ch'io l'avessi chiamata o no, teneva
le mai, una dietro l'altra, nel grembo. Quando se ne andava, era
certo che le moveva perché aveva intenzione di mettersi a
qualche faccenda.
Si chiamava Betta, ed aveva cinquant'anni quando morì di male
nervoso.
La sua vita ch'ella non mi confidava, il suo modo di parlare per
nascondersi di più che fosse possibile; per me non era che una
vecchia vestita male, con molte grinze, senza denti, senza
sentimenti, affezionata, paziente, modesta.
Accendeva i fiammiferi soltanto sull'impiantito, a mangiare ci
metteva tre volte più di noi e mangiava meno, voleva essere
l'ultima ad andare a letto, la prima ad alzarsi; quando non
faceva niente, s'appoggiava sempre a qualche cosa, in cucina,
alla madia; si confessava ogni mese; era di stomaco debole, non
le piaceva l'agnello; non sapeva né leggere né scrivere;
canticchiava quand'era sola. Tutte le cose che diceva
riguardavano solo quelli della famiglia. Per solito cominciava
così: "Il mio povero marito...". Aveva tre figliole
tutte sposate, che andava a trovare per le feste solenni.
Era invecchiata tra cinque casupole, che chiamano Ferraiola, a
ridosso d'una scorciatoia scavata sul galestro e le macchie di
ginepro. Questa scorciatoia è l'ultima svoltata, dinanzi al
lavatoio, che si trova per salire a Pari; e porta, passando da
casale, fino a Paganico e poi a Grosseto.
La prima figliola stava a Pari, ossia distante meno di mezzo
chilometro da Ferraiola; ma la zia non si sarebbe mossa da casa
senza mettersi il miglior vestito, e parlava di Pari come di un
territorio straniero, a cui non s'appartiene e con il quale non
c'è niente da vedere, dove non si va che di rado e il meno
possibile e per qualche ragione speciale. Non importava che dalla
sua finestra vedesse tutto il cocuzzolo del caseggiato!
L'ultima volta che la mia zia venne da me, mi portò, dentro un
fazzoletto, due conigli da razza che le graffiarono le mani.
Bisognò disinfettargliele; ed ella non voleva e ci pianse.
Nei grandi prati, che mi piacevano anche prima di leggere il
Petrarca, torno per vedere i fiori che avrei offerto, molti anni
fa, a qualche ragazza che me l'immaginavo come ora la vedo
disegnata in qualche libro. Doveva esser soprattutto buona e
sentimentale; e mi doveva amare sempre lo stesso quantunque
l'avessi sposata. E, qualche volta, rileggendo le nostre lettere,
dovevamo sospirare insieme.
Ma i fiori ci sono anche quest'anno e forse di più, perché il
tempo è stato meno secco; e allora mi vien voglia di correre
verso l'orizzonte per vedere se mi riesce d'abbracciare questa
donna che mi pare più viva di prima.
Ma c'è soltanto una rondine che stride.
* * *
Le notti d'estate non dormivo: e, s'ero andato a letto
piuttosto presto, mi rialzavo e uscivo.&EGRAVE strano come la
notte mi sia impossibile pensare a quel che ho fatto il giorno!
&EGRAVE per me un altro mattino che comincia. I miei sogni,
allora, sapevano d'aceto od erano voluttuosi.
E le strade solitarie dove i lampioni parevano acchiapparsi al
muro per non cadere dalla stanchezza, svegliavano tutti i miei
brividi, e cercavo per l'indomani gli amici e la donna da amare,
che non avevo mai. Quando tirava vento, qualche manifesto
staccato, sotto un arco, sbatteva al muro, e anche il mio cuore
sbatteva.
Quando amavo sempre la medesima, mi piacevano i tetti rossi e i
geranei. Di primavera m'ostinavo a doventar cattolico e d'inverno
sognavo di doventar ricco.
Ah, non dimenticherò che ella si faceva togliere le calze da me
perché le baciassi i piedi, si faceva sbucciare le frutta, mi
bruciava il viso con la sua sigaretta! E perché, quand'ella mi
teneva abbracciato, io guardavo noi due nello specchio e non
sapevo se fossimo di qua o di là da esso? E perché dimenticavo
perfino il mio nome? Ella mi aveva ingannato sempre, ma ero così
abituato a lei che l'amavo egualmente. E per la stessa ragione
che l'orsa la notte splendeva, così doveva esserci il mio amore;
e mi pareva che la mia bocca fosse nata soltanto per baciare lei.
Ah, sì!
Mi piacevano i tetti rossi, i platani pieni di foglie, le acacie
quando avevano messo i loro fiori, i muri delle strade e le
finestre chiuse! Ma più di tutto, lo ripeto un'altra volta, mi
piacevano le distese dei tetti rossi ch'erano una festa per la
pioggia e per il chiaro di luna che mi faceva stare con la testa
ai vetri.
Pensavo, in vece a cose che avrebbero dovuto nascere l'indomani e
che io stesso dimenticavo. Non so di che mi vergognassi.
In campagna mi fermavo sotto un albero che aveva i rami troppo
schiacciati, e gli offrivo di sorreggerli con la mia anima. E
prima d'entrare in una strada io mi ci affidavo tutto. La stessa
città mi pareva forse più di cento città; quella di quando
avevo vent'anni non somigliava a quella di venticinque; la molta
gente, che conoscevo, mi faceva lo stesso effetto di un
pianoforte se si pigiassero insieme tutti i suoi tasti.
Rientrato in casa, deliberavo di star con la finestra aperta e
allora la notte aveva una dolcezza piena di estasi sovrapposte,
come accordi, dal silenzio. Palpavo, con le braccia scosse da
brividi, il mio letto dove m'aspettava il sonno come un compagno.
Ma io ero certo di non aver mai dormito; e mentre la musica della
notte entrava, quasi di corsa, dalla finestra, io ascoltavo in
piedi nel mezzo della stanza: la mia giovinezza era una cosa sola
con il tempo, che mi trasportava con sé. E respingevo da me
l'ultima donna, la cui nullità mi faceva un poco ribrezzo.
Ma perché, dunque, quando due briachi cantarono io non chiusi la
finestra? Perché la loro voce mi dava una gioia irrefrenabile,
una contentezza che non mi faceva star fermo? Sapevo forse
spiegarmi quel che fosse avvenuto? Non potevo io aver ucciso
molta gente? Di che cosa temei, all'improvviso? Perché non morii
in quel momento di dolore?
La voce dei due briachi divenne come un disperato singhiozzo
lungo, una tristezza che mi faceva raccapriccio. E, quando,
affievolita, fu per sparire, io mi sporsi dalla finestra: le
stelle mi parvero più belle, e lì ad aspettarmi.
E capii perché un gatto, accovacciato su la porta di casa mia,
fosse scappato quando gli fui vicino.
* * *
Che primavera disperata e terribile! Avevo ancora da pagare il
conto del fabbro, quello del falegname, quello del carraio,
quello della spazzatura, dello zolfo, del maniscalco, e i soldi
non c'erano. Il tepore dell'aria mi faceva girare la testa.
Andavo per il mio campo, da un filare all'altro, quasi tutto il
giorno, senza perché, come un cane che cerca un osso qualunque.
La sera, prima di dormire, soffrivo anche di più; e mi sforzavo
di non pensare a niente, ma di sognare subito. Una mattina mi
alzai con la voglia di uccidermi: dalla finestra pareva che anche
il mio campo si travolgesse come me, nel vento; come mi volesse
portar via tutti gli olivi. I muri della camera si facevano
sempre più stretti, accostandosi insieme, e il mio respiro si
mescolava con il loro; sentivo il sapore della calcina. Sono
certo che piangevo! Mi pareva di cadere con la testa in giù,
senza aver niente a cui sorreggermi.
Un tratto, proprio dinanzi alla mia bocca, io vidi un ragnolino,
quasi trasparente, attaccato, come un peso, al suo filo.
* * *
Era dopo mezzanotte. Ogni passo che facevo verso la mia casa
pareva che mi troncasse le gambe. E dovevo arrivare a tutti i
costi! Io non amavo più la donna che mi aspettava; e perciò,
qualche volta, mi soffermavo con gli occhi fissi alle stelle,
sentendomi doventar pazzo e cattivo. E già vedevo il tetto della
casa, nell'ombra di otto cipressi, più suoi che miei perché
niente mi pareva mio all'infuori della donna che non amavo.
La mattina dopo, avrei avuto la forza di andar via, perché il
suo pessimo amore non corrompesse più il mio sangue? Per fortuna
non l'avevo sposata, e non volevo più che la sua anima, falsa
come due dei suoi denti, sebbene non m'avesse mai tradito,
cercasse la mia quando sognavo l'amore che devastava tutta la mia
anima. Mi pareva di durar fatica ad attraversare il chiaro di
luna, così silenzioso, tra le ombre delle fronde e quelle delle
cancellate dinanzi alle ville.
Quando fui presso un pino, sentii un usignolo; io feci un grido,
e poi gli tirai un sasso. Avessi avuto un fucile!
* * *
Una sera d'estate mi sedei a piè d'un greppo e cominciai a
fumar sigarette l'una dopo l'altra. Era molto scuro, e le stelle
parevano così piccole che certo avrebbero bucato. Avrei voluto
con me un amico per parlare di qualche cosa, o meglio per
ascoltarlo. Quando voglio bene ad un amico, mi piace di più star
zitto fumando.
Quasi annoiato e intristito a star lì, appuntellai le mani su
l'erba e feci per alzarmi. Allora un grillo, così vicino che non
raccapezzavo dove, cominciò a cantare. Era tra le mie ginocchia,
forse? Era dietro di me? Né meno. M'era saltato addosso? Mi
scossi tutto: no. Dovetti andarmene, e mi misi a piangere.
* * *
A diciannove anni mi venne l'idea che sarei morto tra qualche
mese. Non so perché, tanto più che non ero ammalato né avevo
mai tossito. Ma m'ero convinto, e basta.
Con l'ebbrezza della mia adolescenza mi sentivo doventare amico
di tutte le cose, ed io mi preparavo a salutarle, qualche sera,
quando la luce del tramonto si stendeva sopra i tetti di quella
parte della città che guardavo, seduto su la mia poltrona dove
sarei certamente morto. E nel tempo delle vacanze, non mi voltavo
né meno verso il mio scaffale pieno zeppo dinanzi alla scrivania
inclinata; della quale avevo contato scrupolosamente, con
angoscia, tutte le macchie d'inchiostro.
Ma i tetti erano là, cominciando dal mio davanzale, come un
pendio che volesse precipitare la mia anima nell'oscurità
silenziosa e diaccia della campagna. Qualche sera, escivo e
andavo fuori di porta fino a Pescaia dove stava un contadino che
teneva sette mucche. La mia malinconia aumentava con la sera; e i
lumi a olio, che vedevo dentro la stalla di quel contadino,
perché per lo più l'uscio lo lasciava aperto, mi tormentavano
come una dolcezza che non potevo spegnere con me. Dopo di me
avrebbero bruciato ancora; e forse, qualcuno li avrebbe guardati
volentieri. E siccome non potevo mangiare, perché digerivo male,
dicevo al contadino che volevo bevere un bicchiere di latte a
pena avesse munto. Quando l'avevo bevuto, sempre con due sorsate
che cercavo di fare uguali, guardavo le mucche che avevano il
muso dentro la mangiatoia.
* * *
Qualche mattina, anzi giorno, sono entrato nella Basilica di
San Francesco, a Siena. I colori delle vetrate erano lividi, come
pezzi di diaccio, con i santi e le sante intirizziti, dentro e
attraverso.
Cercavo di camminare in punta di piedi per non udire il mio
passo, e m'avanzavo fin sotto l'altare maggiore; poi, tanto a
destra che a sinistra, andavo da una cappella all'altra, cercando
con superstizione di fermarmi, dentro ciascuna, più nel mezzo
che mi fosse possibile ma senza troppo tempo a mesurare lo spazio
con gli occhi e restandoci finché non avessi contato fino a
cinquanta. Dopo ogni cappella la mia esaltazione mistica si
faceva sempre più completa, e mi veniva in mente di non escire
più dalla Basilica. Tutto il mondo, attorno alle sue alte mura,
diveniva sempre più dolce e più religioso. Qualcuno faceva
segni di croce che rimandavano indietro le folgori e arrestavano
il vento. Gli organi cantavano insieme con la mia anima, che
fruttificava come un miracolo fatto sopra una vigna. (Certo il
ricordo di qualche leggenda manoscritta, letta alla Biblioteca
Comunale).
Le campane suonavano, le ore battevano; e tutto era musica.
L'azzurro del soffitto di una cappella si moveva e si apriva; gli
angioli venivano fuori come se fossero stati sospinti
dall'infinito. Gli affreschi del Lorenzetti si animavano; tutto
il medio evo era dinanzi a me; io mi sentivo una spada in mano, e
dovevo per primo cominciare battaglie che duravano secoli.
Io sorridevo guardando il sagrestano che zoppicando portava la
scala da un punto all'altro delle lunghe pareti.
I sacerdoti mi benedicevano, il papa m'invitava a trovarlo.
Scricchiolò in una cappella, da un lato, una cassapanca antica:
corse attraverso tutto l'impiantito, sparì, come il brivido
dalla testa ai piedi, un topo.
* * *
Gli interessi tra mio padre e i miei fratelli ci facevano
inasprire; e, a poco a poco, cominciammo a odiarci l'un l'altro
come se fossimo i peggiori nemici. Evitavamo di parlarci, e
quando non era possibile farne a meno, per quanto vivessimo tutti
separati, le discussioni finivano sempre a pugni e a legnate;
anzi una volta, ci mancò poco ch'io non ferissi, con una
coltellata, mio padre. Quando li lasciavo, mi sentivo arso
dall'odio; come se tutto il mio sangue doventasse veleno per
loro, e le mie maledizioni attraversavano l'aria come quei lampi
che vengono proprio sopra la testa. Un giorno o l'altro avrei
minato le case!
Me ne tornavo, una volta, così pieno d'ira e d'odio che ne
subivo, quasi immediatamente, una stupefazione densa, molle,
paniosa, che soddisfaceva la mia anima. Alla mia anima appiccavo
i miei fratelli e mio padre; e mi sentivo il sangue più arido
della terra screpolata dall'estate; fermandomi a rompere con i
tacchi qualche zolla entro la quale s'eran perfino seccati i fili
di gramigna, le cui punte bianche apparivano fuori. Se qualcuno
m'avesse raggiunto o m'avesse detto: "sono tutti morti"
finalmente la mia anima si sarebbe riavuta. Ma no, no; mai!
Voglia Dio che l'azzurro che respirate, così bello e limpido,
divenga fiele o così duro che moriate subito a bocca aperta con
i denti troncati in vano per roderlo! Che le vostre case entrino
dentro la terra; e sopra ci verrò a ballare con un'intera banda
di musicanti che pagherò quanto vogliano! Cada il veleno dal
cielo, e stasera sappia che siete affogati in quel fiume che vi
farei bere per forza!
Quando fui in cima alla salita, vicino a un aratro, vidi una
lucertola morta, con le gambe aperte all'insù, così sottile e
pallida che singhiozzai.
* * *
Con mia madre che mi voleva molto bene, andavo da luglio ad ottobre, in villeggiatura. Mangiavo il pane dei contadini, che di nascosto mi facevano bere il loro vino anche a mezzi bicchieri per volta. Io stavo quasi tutto il giorno insieme con i loro ragazzi, a cui insegnavo a rotolarsi giù per le balze del tufo sodo, a fare gli archi con una frusta o con un laccio delle scarpe. Senza che ne avessimo bisogno, andavamo a rubare negli altri campi; e, così, mangiavo tante pesche, la maggior parte acerbe, che mi sentivo la pancia più dura di un muro. E noi ci divertivamo a picchiarci, vicendevolmente, cazzotti sopra. M'ero fatto scuro e grasso: bestemmiavo e cantavo lungo i borri in fondo alle vallate, camminando tra i roghi, le canne e i pioppi; che si sentivano tremare sotto le nostre mani. Qualche volta andavamo a pesticciare sui seminati, scappando a tempo con le scarpe che non si alzavano più da quanto fango c'era rimasto attaccato. Ma ero contento di non portare più il colletto e d'avere una giubba non meno rattoppata di quella dei miei amici. Ci sentivamo con un mezzo fischio, ci capivamo a volo storcendo a pena la bocca o alzando le sopracciglia e raggrinzando la fronte: certe nostre risate avevano significati impossibili agli altri; e, ormai, non c'era più nascondigli dentro i quali non fossimo stati. O zufoli di canne e di buccia di castagno! O fruste agili e flessibili, con le quali qualche volta ci segnavamo le gambe nude! O ginocchi incrostati di sudicio, piene di ferite e di lividi! O dormite fino alla mattina, finché non m'avevano chiamato due o tre volte! E chi dirà la mia gioia quando, grattandomi i capelli con le unghie, la mamma mi disse che mi avevano attaccato i pidocchi?
* * *
Io ho sempre avuto poco tempo di voler bene a qualcuno.
Quell'estate era così calda che né meno in cielo c'era posto
per lei. Pareva che il sole si levasse sempre più grande, ed era
impossibile farsi un'idea di quando sarebbe tramontato.
Siepi polverose, cipressi che parevano per seccarsi, alberi,
morti, saggine e granturcheti doventati bianchi, fili di ragno
così lucenti che parevano di metallo che tagliasse le mani, usci
screpolati, botti sfasciate, la terra così dura che non la
lavorava più nessuno, i letti dei torrenti senza libellule e con
l'erba appassita, salci che non crescevano più, gelsi con la
foglia piccola, vomeri lucenti, sassi che scottavano, nuvole
rosse come fiamme, stelle cadenti!
Una cicala, sopra il nocchio d'un olivo, canta: la vedo. Mi ci
avvicino, in punta di piedi, stando in equilibrio dall'una zolla
all'altra. La stringo. Le stacco la testa.
* * *
L'aria dava una sensazione di violenza. Nel cielo c'era una
nuvola che pareva una fiamma; e vapori bianchicci e torbidi,
quasi pigiati da tutto l'azzurro grande, un azzurro un poco
violaceo e umido. Ma che m'importava, se io avevo perfino paura
di guardare intorno a me?
La notte innanzi, destato tra un sonno e l'altro, avevo sentito
portar via le stelle e l'obbligo di non arrivare fino alla sera
dell'indomani. Ed ecco, invece, ch'io m'ero messo ad aspettare
questa sera! Ecco che io volevo vivere per forza ed inutilmente,
quantunque tutte le cose rifuggissero da me. Ecco che per un
tempo indefinibile, un anno forse, io mi esponevo a ritrovare i
segni della mia sofferenza tutte le volte ch'io avessi voluto
aprire gli occhi e il respiro. Ma io vi andavo incontro come ad
un cadavere che avessi dovuto seppellire dopo aver desiderato di
assomigliargli. Ecco che la mia tristezza veniva ad oscurare
definitivamente la mia anima.
Ma ora avrei voglia di scrivere una novella, i cui personaggi
fossero burattini di legno. Io credo che essi possono meglio di
noi godere della luce e delle altre cose belle. Chi non ha visto
quanto piacere hanno quando sono mossi dai loro fili? Essi
recitano volentieri; e sento tutto il baccano che fanno entro la
trama della novella. Inoltre, Rosaura non m'ha ingannato mai; e
il vestituccio se lo cambia pure che voglia io. Tutta la mia
tristezza sentimentale non costa l'occhiata di vernice della mia
dolce Rosaura. Vedo che nessuna donna vera è gelosa di lei; ma
ha torto.
Oggi (già passato un anno?) il cielo è in un modo che pare
rosolio; e i calabroni se lo bevono tutto.
* * *
Ah, sì, ella mi ama tanto che mi viene da piangere! E, come
se io non l'avessi amata mai, sento tutt'insieme la voglia di
vederla e di mettere la testa sopra il suo petto.
Ma perché soffro così e non vado a trovarla? Non c'è più la
mia casa, i muri si spalancano, ed io mi metto fermo; così fermo
da sembrare che le cose si muovano.
Il mio alito fa appannare i vetri della finestra, ma lo specchio
sembra un abisso che divora tutto.
Una canzone che forse canterebbe qualcuno andandosene; il respiro
del tempo, che io sento lo stesso quantunque tanto lontano che
c'è da impazzirne; la mia giovinezza che non è più con me;
quelle rose vere che, se doventassero grosse e larghe come le
voglio io, ne proverei sollievo; e quella mosca che si move,
sopra il tavolino!
* * *
Non ho mai guardato dentro un pozzo senza pensare alla morte.
Quando la brocca, tirata su dalla contadina, la rivedevo
dondolare al gancio della fune, mi pareva che fosse stata
salvata. E, prima di beverci, mettendola piegata alla bocca, lo
sguardo a quell'altra acqua dove i riflessi del cielo si
spezzavano!
Aprendo la finestra, la mattina, la prima occhiata era al pozzo;
la sera, rientrando in casa, mi allontanavo in fretta dal pozzo.
E i mendicanti che si fermavano a bere! E le loro lingue molli
della sua acqua! E la bella pioggia, limpida e allegra, che
v'andava dentro giù per le grondaie contorte, attorno alla mia
casa! E l'annaffiatoio che non ne aveva paura! E la capra che,
belando, vi s'arrampicava!
* * *
La strada dove non sono più stato è quella che m'era
piaciuta tanto, forse più delle altre.
Già non vi passava nessuno! L'erba v'era alta, con il muschio
così verde che pareva una vernice a olio, sciolta.
Sempre l'ombra del muro altissimo, scrostato, scalcinato;
un'ombra che pareva più pesa del muro, fredda, silenziosa.
E di là, a pochi metri di distanza, il sole chiaro e caldo, e le
farfalle che quando si sono prese in mano bisogna ucciderle!
* * *
In fondo a un cassetto, che odora di stantio e di cose andate
a male, quante bricciche ritrovo! Un pezzetto di canna, con la
quale volevo fare uno zufolo, un giornale illustrato, un coltello
che non taglia più, un manico di lesina, tre bottoni e poi un
cartoccino, giallo, legato stretto stretto con un filo bianco.
L'apro per vedere che c'è; semi di papavero. Quando sono per
buttarli via dalla finestra, perché ormai non devono nascere
più, vedo un piccolo insetto che non conosco: una specie di
scarabeo verde e d'oro, quasi trasparente come un vetro prezioso.
Mi dispiace.
* * *
Volerti dimenticare! E i discorsi che ti fo! E i miei sorrisi
e la voglia di venirmi a inginocchiare, e la luce dei tuoi occhi!
E il tempo con il quale riempio la distanza tra me e te! E
qualche tua parola che par viva e sola! E il pensiero che, se
t'amassi, sarei felice! E tu che non mi hai rimproverato mai! E i
nostri ricordi! E il tempo che siamo stati insieme, così dolce,
così bello! E il mio ostinato silenzio! E le mie strette di
mano, quando le nostre mani sapevano tutto della mia anima! Sei
ancora bella, o forse di più? Mi piaceresti lo stesso? Potrei
tacere ancora, se ti rivedessi? Ti accorgeresti di niente?
E questa rondine che corre dinanzi al suono della campana, per
non farsi raggiungere!
* * *
Quante volte il freddo del mio cadavere fa le veci della mia
anima! I monti mi paion la terra scavata attorno alla mia fossa,
e il cielo mi fa tenere gli occhi chiusi come se fosse lo spruzzo
dell'acqua benedetta che non potrò sentire. E il mio cuore non
batte come le manciate di terra che mi getteranno addosso?
O morte che sei bella nei fili alti dell'erba, tremolanti nel
vento fresco, e rugiadosi! Morte che non mi farai udir più le
rane quando è vicino a piovere!
* * *
Un poco di primavera entro l'acqua della fontana; ma pareva
che i fiori le fossero ostili e non ne volessero sapere. Le
violette malcontente, i peschi sfioriti presto, quasi per far
piacere al vento, qualche usignolo stonato; e il chiù non si
sentiva mai. Le mattinate accosto alle sere come se fossero state
legate per una ghirlanda, e il mezzogiorno sempre breve e rapido,
benché con qualche raccoglimento abbastanza intenso verso l'ora
del pranzo. Ma nessuna vera voglia di vivere: piuttosto una
specie di scontentezza piacevole, con la quale stavo bene anche a
finestre chiuse. Anzi le cose, di là dalla finestra, parevano
più belle, come se fossero state troppo lontane o quasi di un
passato commemorativo. E i suoni delle campane s'attaccavano e
non venivano via più dai campanili; ed ero curioso di sapere
perché. Troppa luce e troppo sole, che però mi facevano
dimenticare meno le mie giornate fredde e tristi quando non si
riesce né meno a imaginarlo più il sole!
Ma se guardavo l'acqua della fontana di marmo, a poligono, piena
di alghe che si staccavano dal fondo per andare a galleggiare un
poco alla volta, quasi salissero ad amoreggiare con il tepore del
sole che combaciava con la superficie liquida, io vedevo e
sentivo la primavera come forse mai più.
E allora non comprendevo le violette: ma soltanto il loro odore
come una serenata alla luce. E la mia anima sopra quell'odore
s'ingrandiva fino a sentirmela dentro i miei occhi. Ma i miei
occhi erano attaccati all'acqua, con l'anima tutta a riverso per
prendere un poco di sole e di luce; e sentivo, allora, una
primavera paziente, tutta dipinta di silenzi casalinghi, e non
volevo convincermi di trovarmi sempre solo, come se fossi andato
a spasso e non avessi più voglia di tornare a casa.
Io sentivo che la mia faccia tentava in vano d'invecchiare la mia
anima, e per questo io m'attaccavo all'anima. Ma tutto m'ero arso
di me stesso, con una cenere che mi faceva lacrimare. Perché
quel pesce rosso, nascondendosi sotto le alghe, guizzò?
* * *
La primavera è proprio da per tutto, anche dove non ce n'è
bisogno. Anche tra i sassi del muro franato l'erba è voluta
crescere. Per i sentieri più scoscesi, tra i tronchi degli
alberi che furono abbattuti con l'ascia, con un'ambizione di
farsi vedere che pare perfino ingenua. La primavera assomiglia,
questa volta, un poco alla stanza che la nostra amica,
aspettandoci, ha adornato di fiori comprati a posta. C'è uno
sciupio di gemme e una voglia di fiorire che pare una di quelle
accoglienze da segnare poi nel nostro calendario. La primavera in
tutti gli stili, perfino roccocò; con certe manie di fare
effetto per forza. E pensando a tutto questo lusso, ci si prova
ad essere contenti. Le margherite bianche, quelle dei prati,
fanno di tutto per darvi nell'occhio; e gli stessi prati si sono
lisciati con la rugiada e il fresco che pare perfino bizzarria e
voglia di divertirsi. I pini mettono fuori la loro resina come se
volessero regalarvela a tutti i costi, e ci si avvicina a loro
per guardarli meglio; mentre anche l'azzurro rimane lì per lì
un poco rintontito, quasi non sapesse che fare, e, forse,
vergognoso di non odorare né meno quanto una violetta. E c'è
modo, del resto, per tutti di far qualche cosa.
Ma perché, proprio ora, un maggiolino morto?
* * *
Sentirsi solo è un piacere che spaventa.
Un'ora dopo la mezzanotte non avevo più sonno né stanchezza; e
la conversazione fatta con un amico e un'amica, quantunque di
poche ore innanzi, cominciando da quando avevamo cenato insieme,
mi pareva già sì lontana che pensavo se l'indomani ambedue si
ricordassero di conoscermi.
Con il chiaro di luna in bocca, credevo di masticarlo, e c'era
tutta la strada che voleva saltarmi addosso.
Prima ancora di sapere perché, mi viene freddo e poi distinguo
la voce della civetta.
* * *
Oggi sono rientrato nella chiesa della mia parrocchia. Lo
scialbo bianco è uguale a quindici anni fa: ho creduto
riconoscere, su una colonna, vicino a una panca, una scalcinatura
che ogni domenica allargavo sempre più con le unghie. E mi son
ricordato dei fiori finti, a mazzolini, portati al curato dalle
due zitelle che andavano sempre insieme e facevano poca
elemosina, e tutti dicevano che erano avare. Oggi mi dispiace di
averle odiate con feroce avversione, quasi sempre inciampando se
mi voltavo a perseguitarle con gli occhi.
E tutte quelle ragazze, forse ora madri, e non le riconosco, di
cui ero un poco innamorato!
Ma quanto piansi quando mi confessai per la prima comunione!
Ora non ho più paura quando suonano le campane, ma mi piace
ch'io volessi mettere al collo di una di quelle ragazze un nastro
uguale alla riga ch'era per margine a ogni pagina del libro di
preghiere della mamma. La voce di quella ragazza mi faceva lo
stesso effetto di quando mi guardava; ed io ridevo che la mamma
sapesse a pena leggere, ma mi pentivo tanto d'aver ficcato
pezzetti di cartasuga dentro il calamaio.
Riesco fuori dalla chiesa, sicuro che il suo scialbo sia più
fresco della primavera che inonda la piazzetta sbilenca di San
Donato; e, scesi gli scaloni, mi volto a dietro, in su, a guardar
le campane.
Me ne vo con meno dispiacere, perché vedo che un branco di
passerotti hanno il nido sul tetto.
* * *
Piove tanto che ormai i fichi sono sciapiti. Allora assaggio
l'uva e, con un grappolo in mano, piglio attraverso la vigna. Qui
c'è un palo da rialzare, là una vite da buttar via. Ma io sono
il padrone: mi faccio ubbidire anche dal grano, e mi volto alla
luce per dire: domani tornerai e seguiterai a maturarmi l'uva. Io
assaggerò il mosto.
Come odiai uno de' miei pavoni, che capii più orgoglioso di me!
* * *
La mia anima, per aver dovuto vivere a Siena, sarà triste per
sempre: piange, pure ch'io abbia dimenticato le piazze dove il
sole è peggio dell'acqua dentro un pozzo, e dove ci si tormenta
fino alla disperazione.
Ma i miei brividi al tremolio bianco degli olivi! E quando io
stavo fermo, anche più di un'ora, senza saper perché, allo
svolto di una strada, e la gente mi passava accanto e mi pareva
di non vederla né meno!
Città, dove la mia anima chiedeva l'elemosina, ma non alla
gente! Città, il cui azzurro mi pareva sangue!
Dal podere, le mie viti scendevano fino a una sua strada; e
l'anima di quella che sarà per sempre la mia fidanzata mi teneva
compagnia, nel silenzio folle; e qualche mia parola, che le
scrivevo in fretta, era stata il mio respiro più di una lunga
settimana.
Siena, da sotto il mio ciliegio, pareva un arco che non si
potesse aprire di più, e le sue case, giù per le sue strade a
pendio, parevano frane che mi mettevano paura; con i tetti legati
dall'edere cresciute su per le mura della cinta, le mura che non
si apriranno mai. Ed io allora andavo a guardare la città da
un'altra parte, quasi da quella opposta, dalla Porta Ovile. E
vedevo i suoi orti squadrati entrare, con un angolo più alto
degli altri, tra le case più rade; oppure, l'uno appresso
all'altro, farsi largo e posto, ma fermati da una fila di
cipressi la cui ombra oscurava il verde dell'erba; e qualche
pesco fiorire e maturare accanto alle campane d'una chiesola, e
qualche olivo chiamarsi dietro tutta la campagna soave, che
impallidiva lontano, rasente i monti chiarissimi, talvolta più
luminosa del sole; con una tenerezza che mi commoveva.
E, se guardavo la città da un'altra altura, da Vignanone, le
voci degli uccelli s'allargavano nell'azzurro come il vento. E
tal'altra volta le campane tutte insieme mi parevano un'armonia
discorde, e mi veniva voglia di morir subito. Le rose dei
giardini, senza colore e senza profumo, la cingevano tutta: le
finestre erano aperte.
Da parecchie miglia lontano, io vedevo in vece le sue torri come
tizzi ritti che si spegnevano ultimi nella cenere del crepuscolo.
E i temporali con tutto il cielo addosso! Pareva che i lampi la
dovessero schiantare; ma, dopo, l'aria era più fresca e si
respirava meglio; gli uccelli la varcavano a frotte, e il sole la
rasciugava.
Perché, dunque, io vi soffrivo? Perché la mia anima non vi è
mai voluta stare?
Lo sapeva, forse, quella mia tartaruga che riuscii a tener chiusa
in casa una sera, e la mattina dopo non la trovai più.
* * *
A Vico Alto i vecchi cipressi si fermano all'abside della
chiesa di pietre. L'Osservanza non è lontana, e si vedono le
strade prima sparire e poi ritornare verso Siena, quasi
aspettate. Le strade sciupano i bei verdi simmetrici, ma l'erba
riescirà a rinascerci un'altra volta sopra. Se di quassù si
sentisse crosciare il torrente, che si tiene con sé i salici e i
gelsi! Ma, siccome è domenica, la gente passa proprio per il
viottolo che lo rasenta; gente vestita bene e che si sofferma di
quando in quando, forse incuriosita, a guardare attorno. Alcuni
merendano, con un giornale steso nel mezzo. Vengono, per
quell'altra strada che fa il giro lungo, le sordomute e poi le
convittrici.
Un contadino, appoggiato a un cipresso, fuma.
Oh, anch'io voglio fare all'amore e voglio passare lungo il
torrente, perché m'annoio a guardare le salamandre che scendono
e risalgono dentro questa fonte dove le alghe mollicce e viscide
intasano l'acqua!
* * *
Era una mattina d'estate, calda e accecante. Camminavo piano,
e sempre di più la natura mi pareva un sogno immenso della mia
anima. Il cuore mi batteva di contentezza. I cipressi, uscenti
dalle siepi dei poderi, attorno alle case tutte impergolate, in
Toscana, parevano piantati lì dall'aria stessa.
Odori di ginepri, di marruche, di sanguinelle, di mentastri!
Sopra un muricciolo, vidi un ramarro. Mi fermai, perché non
scappasse. Allora, guardando i suoi occhi paurosi e intelligenti,
provai una delusione dolorosa: e feci il viso rosso di vergogna.
* * *
Chi non ricorda come si trascina una farfalla ferita, toccando
la terra con le ali tremanti!
Ma chi può vedere, ne' suoi occhi, l'espressione del suo dolore
violento e improvviso?
La farfalla va presto a rincantucciarsi, sapendo sparire dalla
nostra curiosità. &EGRAVE come qualche cosa, allora, che
riesce a non aver contatto con noi, ad evitarci.
* * *
Era di settembre, e l'uva cominciava a maturare, ma i chicchi parevano trasparenti quando i raggi del sole entravano tra i pampini. Ero in mezzo a una vallata, vicino ai pioppi, tutti contorti, di un borro. Mi pareva che la vallata si sollevasse su, attratta dalle due colline piene di oliveti e di vigne. Le pesche erano mature, e pensavo di mangiarne almeno una. Ma esitavo a muovermi. Tra due viti, vidi una ragnatela: era un poco umida, e mi venne voglia di toccarla con la punta di un dito, ma senza romperla. La peluria della prima donna ch'io ebbi non era così morbida.
* * *
Non so ancora spiegarmi, da otto anni, perché la mia amante,
una volta, dopo aver bevuto la birra, chiudesse con il ventaglio
aperto, dentro il suo bicchiere, una vespa che v'era entrata.
Prima era entrata nel mio; ed ella l'aveva guardata sorridendo,
divertendocisi quasi.
Io cercai di farle muovere il braccio, ma ella, con tutta la sua
forza, non mi dette retta. Mi disse:
- Parliamo d'altro.
* * *
Al podere, che ora ho dovuto vendere, tenevo molte galline, insieme con alcuni tacchini e i loci. Quando non avevo voglia di far niente o quando soffrivo troppo non saprei di che, andavo nel pollaio e mi mettevo a guardare. Un locio, che pesava parecchi chili, dondolandosi tutto per camminare, saliva a ogni momento sopra la sua femmina. Vi restava, dopo un poco, come stordito; e poi cadeva svenuto, battendo il dorso, con le gambe per aria e immobili, con gli occhi velati come quando muoiono. Tutte le galline parevano spaventate, e non si avvicinavano.
* * *
M'era venuto il tifo, e la febbre cresceva sempre. La mamma
non poteva tenermi compagnia a tutte l'ore e quanto avrebbe
voluto: e io dovevo restarmene a letto solo solo, ad aspettarla.
Vedevo, dalla finestra socchiusa, con i vetri non più lavati da
quando stavo male, passare le nuvole e la cima d'un ciliegio che
rabbrividiva come me quando sentivo la febbre.
Una mattina avevo fame dopo aver preso la solita cucchiaiata di
medicina. E non veniva nessuno. Avevo voglia d'alzarmi, ma più
di piangere. Le coperte mi schiacciavano come le montagne; e mi
pareva che tutte quelle nuvole me le facessero più grevi. C'era
a capo del letto il campanello elettrico, ma non lo suonavo
perché il suo squillo mi faceva peggio. Ero proprio per gridare,
spaventato delle coperte alzate dai miei ginocchi, con
l'illusione che si alzassero fino al soffitto, per soffocarmi.
Entrò un'ape. Mossi la testa per guardarla meglio. Sbattendo
contro i vetri, cominciò a ronzare; ma con un ronzio così dolce
che mi fece subito un effetto di benessere. Allora, mi ricordai
dei fichi maturi e di tutte le altre frutta. Chi sa quale odore
giù nei campi! Mi pareva, perfino, di sentir sapore in bocca!
L'ape girò da un travicello all'altro, e poi tornò alla
finestra! Non piangevo più, assorto in quel suo rumore uguale,
che allora mi pareva una specie di musica, a cui avrei dovuto
trovar le parole. Quando venne la mamma, facendola fuggire, mi
dispiacque; e ci pensai tutto il giorno, sorpreso di non pensare
ad altro.
* * *
Era stato un temporale orribile, dopo mezzogiorno, d'agosto. I
lampi erano così fitti che non si faceva a tempo a respirare e a
segnarsi. La mamma s'era seduta nella sua poltrona, io m'ero
messo in ginocchio con la testa sopra a lei. Le sue mani mi
tappavano gli orecchi. Ma non avevo il coraggio di chiudere gli
occhi, e, piangendo, senza muovermi da quella posizione, mi
segnavo, cominciavo l'avemaria, senza mai finirla.
Il bosco, vicinissimo alla casa, quasi sopra il tetto, crosciava
con il vento e la grandine. Si era fatto così oscuro, che la
donna aveva acceso la lucernina d'ottone, mettendola nel mezzo
della tavola.
Diceva la mamma:
- Se avessi un poco d'olivo benedetto, per bruciarlo! Fa tanto
bene!
Due fulmini caddero nel bosco e io li vidi. La pioggia luccicava;
la grandine, sempre più grossa, empiva il davanzale della
finestra, e la campagna pareva tutta bianca.
Finalmente i tuoni si fecero sempre più lontani; l'aria tornò
serena. Lampeggiava ancora sopra la città; ma, dalla parte
opposta, era apparso l'arcobaleno così dolce!
Riaprimmo le finestre e poi le porte, per escire. Allora, un
contadino, venendo dalla strada, ci fece vedere una rondine,
ancor viva, che il temporale aveva abbattuta. Le sue penne eran
bagnate e lucide: pareva stordita, e stava da sé nel cavo della
mano, palpitando, ma quasi rassegnata.
Provai tanta gioia che battei le mani.
* * *
Con la mia moglie era un affar serio, ogni giorno di più!
Bastava un pretesto qualunque per leticare parecchie ore. Una
volta, la minestra mi parve sciocca; anzi, era certamente. Glielo
dissi. Mi rispose:
- Perché non vai a trattoria?
- Se fossi più furbo!
- Vai dunque.
- Me lo vorresti proibire tu?
E la guardai con tutto il mio odio; ed ella altrettanto. Ma io
non glielo volevo permettere. Allora, feci l'atto di darle uno
scapaccione. Si alzò, rigida come uno stecco; e si mise a
guardarmi fisso. Pareva che i suoi occhi si allargassero sempre
di più; ma mi sentivo tanto più forte di lei che non pensavo
né meno a offenderla. Mi disse:
- Vuoi scommettere che io vado dal procuratore del re?
- E perché no? Potevi esserci andata. Così mi sarei fatto fare
la minestra più salata, se non c'eri in casa!
Si slanciò; io mi riparai con un braccio piegato.
In questo mentre, vedemmo, tutti e due insieme, non so come, una
formica che dall'orlo del fiasco stava per scender dentro e
cadervi.
La rabbia finì subito. Ella la prese con le dita e la
scaraventò lontano. Io dissi:
- Per fortuna l'hai vista! Avremmo dovuto buttar via tutto il
vino!
E il pranzo finì bene quella volta.
* * *
Alla dottrina cristiana ci sarei andato volentieri, ma da quel
prete, no da vero! Quando entravo nel suo studio, siccome, avendo
cominciato più tardi degli altri comunicandi, dovevo rimettermi
in pari, sentivo una specie di freddo che m'agguantava l'anima
come uno per la giubba. C'era un tavolino con un tappeto rosso,
forse rovesciato; il ritratto del papa, quattro o cinque seggiole
che parevano tutte nere come le loro spalliere; e un odore tra
l'intingolo e l'incenso o la cera bruciata. C'era poca luce,
perché la finestra dava in un piccolo orto sotto certe mura
antiche ricoperte di edere; e mi veniva sempre la voglia di
andarmene prima che il prete fosse venuto. E quella zoppa che
m'apriva l'uscio! Certi occhi che mi facevano pensare alla panna
inacidita!
Ma tra le tende, tutte polverose e sbiadite, c'era una gabbia
appesa, con un canarino così giallo che pensavo fosse colorito
con i tuorli dell'uova che si davano al prete quando veniva a
benedire le case. Saltellando, faceva oscillare la gabbia e anche
un poco le tende, e a motivo delle quali mi scansavo in fretta;
quasi per paura. Io mi vergognavo di lui, che mi vedesse con il
mio libricciolo sotto il braccio lì ad aspettare. Ed ecco
perché l'osservavo sempre, quando il prete m'interrogava, prima
di rispondere!
Un giorno glielo portai via; e, piuttosto che ritrovarlo in
quella gabbia, lo schiacciai con il tacco delle scarpe.
* * *
Un mio amico era in agonia. Caduto da una scala aveva battuto
l'occipite, non riprendendo più i sensi. Siccome non l'aveva
potuto comunicare, il prete gli lasciò la stola sopra i piedi
dopo aver detto molte preghiere.
La mamma del moribondo stava nella stanza accanto, con l'uscio
aperto, a piangere; io, stringendo i ferri a piè del letto, lo
guardavo. Il suo volto acceso dalla febbre, aveva, di quando in
quando, una contrazione lunga e lenta; ma gli occhi restavano
chiusi, sempre più in dentro.
Una ragazza, dall'altra parte della strada, cominciò a cantare;
io la feci star zitta. Il rantolo diveniva sempre più forte,
alternandosi con un sibilo così dolce che mi ricordava, con
terrore, tutte le nostre allegrie. La febbre gli aveva seccato le
labbra. Io pensavo come bagnargliele, quando entrò una delle sue
due tortore. Prima che io facessi in tempo a rimandarla in
dietro, era già volata sul letto, proprio sopra il guanciale
molle di sudore. Allora, perché non si mettesse a svolazzare,
buttando in terra qualcosa, aspettai che tornasse via da sé,
come credevo che avrebbe fatto.
Gli montò su la fronte, che s'increspò; e, allungando tutto il
collo, gli diede una beccata tra le labbra. Egli era uso a farsi
prendere di bocca i chicchi di granturco o di granella.
Allora, troppo tardi, la scacciai. Ma, dal labbro di sotto,
dovetti asciugare con il cotone idrofilo le gocce di sangue, che
smisero soltanto all'ultimo respiro.
* * *
So che una vipera ha morso uno che m'odia. Pari e patta.
* * *
Ricordo sempre queste sensazioni: dopo la scuola attraversare il corridoio del seminario, fresco ed annaffiato allora; l'attesa d'un rimprovero; la prima comunione: parole alla fidanzata; un campo troppo verde; un'ape che esce da un fiore senza che mi fossi avvisto che c'era.
* * *
O ciliegie, sapore del maggio!
Farei ridere se raccontassi quanto le amo, ora che non ho altro
da amare. Ed io per poco non mi crederei sciocco.
Ma la mia bocca è cieca; e non è fatta che per mangiare.
Mettete un piatto grande di ciliegie sopra la mia anima: non le
lasciate troppo maturare, perché le passere le beccano tutte.
* * *
E quella finestra che vedevo dal mio podere scintillare tutte
le mattine quando il sole si levava; una finestra che è delle
prime case di Porta Camollia.
Non ho mai saputo chi ci sta; del resto, mi sarebbe stato
difficile, perché quell'abitazione è dalla parte degli orti tra
le mura e la chiesa di Fontegiusta; un orto dopo un altro che non
finiscono mai.
A entrar lì dentro bisognava anche attraversare un andito sempre
buio, con l'impiantito sempre molle; perché, in fondo, c'è un
pozzo e le donne vi vanno ad attingere l'acqua con le brocche e
le sbattono ai muri troppo stretti.
Le scale da una parte, tutte a pianerottoli, sudicie e sciupate.
Ho pensato che fosse di quella vecchia che tiene in casa il
nipote cieco che fa l'impagliatore di seggiole; poi, di quella
fruttivendola sorda; oppure della tabaccaia tisica o di quel
maestro impazzito.
E pure, quando sento cantare, e bisogna che il vento tiri da
Siena, specie la sera, e non so chi è, credo che sia dentro
quella stanza; e allora me la immagino con quei mobili vecchi ma
riverniciati di verdolino e con le righe attorno alle serrature e
alle maniglie di ottone, rosse e fatte a mano: più larghe e più
strette, brutte. E, a una parete di fianco, un gran crocifisso
doventato leggiero come una galla perché i tarli l'hanno tutto
vuotato; e, infilato tra i piedi, un ramicello di olivo che si è
seccato e che non si può smovere perché le foglie, color
tabacco, cadrebbero subito e sporcherebbero il pavimento; che
dev'essere spazzato ogni giorno e annaffiato con l'acqua a
pisciolo, facendoci quei disegni tutti intrecciati che si
allargano da sé.
E questo farfallino grigio scommetto viene di là; perché ha le
ali tinte di polvere.
* * *
Quel melo è il più bell'albero del mio campo, lo saluto
tutti i giorni dalla finestra.
So che l'ha piantato il mio zio Pellegro. Ma lo avevo visto la
prima volta quando mio padre dovette tagliare i legacci di salcio
perché lo stringevano troppo; e il fusto, ingrossando, s'era
quasi reciso.
Allora gli cambiarono il palo.
L'anno dopo fece tre mele: e mezza mi fu data ad assaggiare.
Per altri tre o quattro anni non lo vidi più.
Ma quando ripassai di lì, s'era fatto irriconoscibile: una
buccia lucida e tenera che veniva via a toccarla con l'unghia;
tanti rami e così alto che lo guardai rovesciando la testa in
dietro.
Vidi che era cresciuto prima di me e che mio padre ne faceva gran
conto. Gli avevano zappato la terra attorno come agli olivi; ma
siccome era autunno, gli erano rimaste poche foglie sbiadite; e
nelle punte dei suoi fuscelli i segni dove stavano le mele: una
sola, anzi, gialla e grinzosa. La guardai meglio, prima di
staccarla con una zollata; ma raccattatala, m'accorsi che dalla
parte di sotto c'era il buco di un bacherozzolo. Allora la tirai
lontano.
L'anno dopo, a primavera, lo ritrovai fiorito, tutto bianco, come
una gran festa.
L'avevano potato e i suoi rami facevano una specie di
circonferenza un poco vuota nel mezzo.
Ma uno dei suoi quattro rami che venivano su dal gambano era
gobbo e un poco più corto perciò.
Quasi tutti i contadini, passando sotto, ci ficcavano la punta
della falce per cercar meglio con tutte e due le mani nelle
saccocce del panciotto la cicca e i fiammiferi.
L'anno dopo ebbe la prima disgrazia: ogni fronda fu fasciata da
centinaia di ragnatele piene di bruchi, che gli mangiarono in
meno di una settimana i fiori e le foglioline. A maggio era già
per seccarsi. E per due anni non fiorì né meno più.
Allora mio padre lo fece scapitozzare e dentro una rigonfiatura,
a metà del gambano, lo trovarono pieno di bachi carnosi duri e
grossi più delle dita; ed avevano capocchie tonde e rosse più
del sangue. Furono uccisi con il coltello, a pezzi, e la pianta
si riebbe.
Ma di mele ne ha fatte sempre meno. Ora, cinque o sei sole, che
se le mangiano gli uccelli e le vespe.
* * *
La mattinata è fresca come le rose umide; ma tuttavia non
riesce a convincermi che io posso odorarla.
Tutti questi tetti attraventati addosso alla collina di Ovile si
abituano a farsi guardare di quassù, di sbieco, da questo
muricciolo così scalcinato che tra mattone e mattone c'entra un
dito. Se la primavera ci fosse già, potrei divertirmi a guardare
gli alberi fioriti; ma son venuto troppo presto, in vano,
impaziente. Scommetto che quando la primavera ci sarà da vero,
io non ci verrò né meno. Ma finalmente capisco perché mi ci
prenda questa dolcezza con la quale voglio prepararmi a scrivere
alla mia fidanzata. Là, da una parte della piazza, dove la
ghiaia è più consumata, c'è la porta del Seminario, verde e
sbiadita, con l'architrave di marmo doventato quasi giallo,
contenta di essere accanto a San Francesco, quasi sotto il
campanile. Mi pare ancora di entrarci per andare a scuola. Ma
c'entra il sole, con una striscia che va a ritrovarsi con quella
di dentro il chiostro.
Ed io resto nella piazza. Giù la Porta Ovile, poi campi di olivi
e viti; e, su in alto, la piccola stazione con i vagoni carichi
di sacchi e di legname; con una strada, per salirci, che gira
più di un esse fatto per ridere sopra un muro da qualche
ragazzo. &EGRAVE una dolcezza che, se qualche volta pare
stanca, tuttavia si sente anche lontano lontano, tra le pieghe
verdi dei colli dove non sono stato mai.
Il campanile con i grappoli delle campane che fanno escire per la
piazza i rondoni!
Ed i tetti hanno la pazienza di stare lì e l'abilità di non
lasciarsi andare per riposarsi un poco!
Qui, pensando alla fidanzata, ritrovo molta della mia vita, anche
quando andavo, d'estate, all'ombra, sotto il muraglione delle
Figlie di Maria ad imparare la chitarra, e dove m'ebbi un pugno e
riescii a non piangere; e ricordo il cavallo che scappò dalla
caserma dei carabinieri.
* * *
La siepe, addirittura, tagliava le spiazzate dei campi verdi o arati, l'uno accanto all'altro, l'uno addosso all'altro. Gli uccelli volavano con un volo sempre più basso, tremolando un poco, impauriti delle quattro nuvole, quasi quadrate, che avevano coperto il tramonto: le quattro carte da gioco. Nel Pian del Lago, c'era nebbia, a strisce sempre più sovrapposte e larghe; Montemaggio e la Montagnola di un verde più nero della siepe, e voli di colombacci che a stento proseguivano, randelloni, con le ali appiccicate nel cielo d'un turchino che voleva smettere.
* * *
Per tornare a casa, ci sono sempre nel mezzo della strada
quelle sette stelle dell'Orsa, che me l'hanno buttata là chi sa
perché.
Il vento, che batte la faccia, viene di lì.
E tutta la bellezza della sera vorrebbe entrare dopo di me e
spinge in qua l'uscio, sì che duro fatica a richiuderlo.
Perché la gatta miagola e si spenzola dalla grondaia?
* * *
All'ombra il carraio verniciava di cinabro mescolato al minio
le ruote dei carri da contadini; e poi, con un fusello infilato
nel mozzo e tenuto tra ambedue le palme, le portava al sole,
appoggiate al muro. Qualche volta andava a levare con il manico
del pennello una mosca che c'era rimasta attaccata. Tutte le
mattine passavo il tempo così, senza parlar mai al carraio,
sedendomi sopra un mucchio di breccia che lo stradino teneva già
pronta per l'inverno.
Mattinate dolci di sole, quando cominciavo a sbadigliare di fame;
e io ne provavo un senso indefinito, quasi di sonnolenza e di
piacere! Pensavo, allora, che da grande avrei scritto un libro
differente a tutti quelli che io conoscevo: qualche storia
ingenua e tragica che pareva uno di quei pampini che il vento mi
faceva cadere tra le ginocchia; ecco; come c'è questo pampino,
ci sarà il mio libro.
E sentivo un fremito.
Il carraio seguitava a verniciare; e, talvolta, m'illudevo che
anch'egli vedesse riempirsi la distanza tra me e lui, delle
persone che mi pareva di vedere.
Egli è buono, pensavo; egli non dice niente né a me né a loro
perché io non creda che gli si dia noia.
Tutta la strada era piena di persone, come un incubo trasparente
e leggero, che si movesse anche ad un alitare di vento; come si
moveva la mia anima.
Alla fine dovevo supplicare questa gente che mi desse un poco di
tregua: la sentivo attorno alla mia giovinezza come insetti
attorno ad un lume acceso allora allora. Qualcuno mi perseguitava
e mi faceva venire i brividi; un altro voleva stare in casa con
me, ed io non potevo mandarlo via.
Ecco che il mio libro doventava la vita stessa, la gente cioè
che conoscevo!
Ma soffrivo e sentivo una specie di malessere vertiginoso; e
m'invogliavo di pigliare a sassate, per scherzare.
In vece, i moscerini m'entravano negli occhi; e mi venivano le
lacrime.
* * *
Una strada scende, anche un'altra scende e le viene incontro:
si fermano insieme. Dalla prima, a metà, se ne parte un'altra
che scende per un altro verso e ne trova subito un'altra, più
bassa che fa lo stesso.
Su la prima se ne butta un'altra; poi la prima e la seconda, dopo
la fermata, se ne vanno giù insieme e a un certo punto
incontrano quella più bassa di tutte. Altre strade le tagliano e
scendono. Le case hanno paura a stare ritte tra questi precipizi
e si toccano con i tetti pendenti. Ma anche i tetti, a pendere
così, non potrebbero cadere tutti giù?
Le case, per fortuna, sono soltanto a due o tre piani; e la
gente, alle finestre, ha l'aria di far loro da contropeso;
perché non seguitino ad andare più in giù, tutte insieme,
verso la Porta Fontebranda, da dove certo non passerebbero
essendo così stretta. Le vie della città guardano queste quasi
per scendere loro addosso; con la Cattedrale nel mezzo e con San
Domenico sopra il tufo giallo. Ma la Fontebranda è ficcata giù
sotto terra, e i Macelli se ne stanno stretti stretti, rasente la
balza che regge metà di Siena. La vasca natatoria è verdastra
dietro le punte nere e taglienti del suo cancello; i lavatoi
hanno l'acqua saponata; gli archi delle conce piene di cuoia ad
asciugare. Quanta solitudine e quanto silenzio anche con il vocio
delle donne e dei ragazzi! Quando le donne di Fontebranda
cantano, con quelle cadenze d'una stanchezza tanto dolce!
&EGRAVE un silenzio che sta lì come le case; quasi assurdo.
E perché quel cadere perpetuo dei tetti insieme con le strade?
Non si ha, al contrario, il senso che le strade salgano; si sente
soltanto la discesa fatta in fretta, con ansia; e, dal punto più
basso, anche il meriggio è così lontano che resta soltanto per
gli altri rioni di Siena.
Cominciano le strida dei porci scannati, ognuno basta ad empire
di sangue due secchi.
* * *
Quel che vedo e penso è come se lo leggessi.
Leggerò, forse, fino a stasera; ma il libro non lo chiuderò;
resterà aperto tutta la notte e troverò i sogni su le pagine
come se fossero figure.
In vece, no. Allora percepisco solo le cose, che stanno vicino a
me: e, perché sono seduto sotto la mia pergola, mi metto a
guardare un pampino: forse, uno dei più larghi. Perché non
capisco quel che fo, lo strappo dal tralcio e lo butto dietro di
me, di là dal pancone verniciato di verde.
Il sole, tra gli altri pampini, taglia gli occhi con i suoi
pezzetti di vetro.
Una cavalletta mi salta su una mano.
Nel bosco cerco l'albero che, tagliato a bara, imputridirà sotto
terra con me.
Gli voglio tanto bene: forse, è quello dove ora c'è sopra un
merlo.
* * *
Quando ci sono io, tutto ciò che è nella mia casa vive con
me.
Io stesso ho insegnato a tutte le cose, scegliendole, come
dovevano fare per piacermi e perché io le amassi.
Queste pareti riconoscono la mia voce, e la loro fedeltà è
profonda.
Ma guardando, dalle mie finestre, chiuse o aperte, la fila degli
orfani che escono a prendere aria, capisco che i miei occhi non
vedono tutto. Mentre, se guardo lavorare i contadini, mi farei
aprire il cuore dai loro vomeri, per dar loro la gioia di
doventare anch'io terra da semina.
E se guardo i cavalli che tirano i barrocci, riparo in vano le
sferzate.
Se sento cantare i vagabondi e gli ubriachi, io mi rattristo; se
guardo gli orti mi piacciono le campane che fanno finta di
annaffiarli; e cambierei di posto volentieri con le stelle.
Ma la luce della luna si diverte a farmi sentire le civette.
* * *
Io m'ero messo in testa di trovare il violoncello che udivo
tra gli alberi del bosco: quando tira vento, non sta più zitto
niente! Credevo che fosse a pochi passi da me; e, allora, andavo
là, quasi di corsa. Non c'era più; più lontano ora, ma
distante da me quanto prima. Andavo lo stesso. Né meno!
Sempre, sempre vicino a me; ma non dovevo vederlo né trovarlo
mai! Così, sul fiume, il riflesso del sole camminava sempre
avanti a me; e, dove era stato prima, l'acqua tornava ombra
turchina, senza che vi fosse nessuna traccia di quell'incendio
finto.
Così i monti non erano più azzurri quando, dopo mezza giornata
di strada, vi ero giunto; ed allora vedevo altri monti; ma era
inutile che io camminassi a posta per questo!
Così le onde che il vento faceva sopra il prato: dov'ero io,
attorno alle mie gambe, tutto era fermo come me.
Così i miei sogni quando mi sono destato.
Né, da vicino, ho mai potuto guardare la trasparenza violacea
che aveva un piccolo padule del fiume: non c'era più.
Così, da ragazzo, l'eco della mia voce: un'altra voce, ma
senz'anima.
Così i pappi di certi fiori, quando volevo portarli in mano.
Il violoncello del bosco l'avrei voluto comprare, per darmi
l'aria di essere ricco. E suonarlo i giorni di festa della mia
anima; ammaestrando un liocorno, color di carta bianca, che
prenderei da qualche favola vecchia.
* * *
Dieci anni che abito nella mia casa, comincio soltanto da oggi
a sentirne la realtà. Tutto quel che vi avviene è la
compilazione d'una storia che riguarda me. Ma quando io stesso
non saprò dirla, nessuno ci penserà più.
Così come quella fonte che ho ritrovato morta, ed io non lo
sapevo.
Morta da due mesi, e nessuno me lo aveva detto.
Ma l'aria, oggi, è gaia; e mi sento bene. Forse, vivrò
parecchio tempo ancora; ché di me non sento nessun segno di
morte; e tutto quel che vedo fa parte della mia esistenza.
Il limone già tagliato, i bicchieri puliti, la tovaglia di
bucato; e la voglia di mangiare.
Sono impaziente; mi guardo le mani, mi specchio ai vetri della
finestra. Nessuna stanza è bella come questa; e la mia anima è
anche più gaia dell'aria: il limone, i bicchieri, i piatti sono
belli perché miei. Il senso di averli e loro stessi sono una
cosa sola. Ed è una sola realtà.
Ma, a pena mi sono seduto a tavola per il pranzo, sento cantare,
da un ragazzo, una canzone che io conosco senza averla ancora
imparata.
Mi vengono i brividi.
Portava gli agnelli a vendere.
Vorrei leggere come un ragazzo, vorrei capire come un ragazzo.
Là giù nel bosco fresco di verde e di ombre, ho lasciato il
giocattolo del mio passato, perché si sono rotti i fili. Ma io
mi metto a guardare fisso il turchino perché me ne venga un
altro; magari fatto come una nuvola. Anche la pioggia è il
giocattolo con il quale ruzzano le fontane del giardino; anche il
mio sorriso è un giocattolo, come il mio cuore che batte.
E la mia ombra è il giocattolo del sole; la mia voce è quello
della mia anima.
Quando siamo morti non si parla, e allora quel che s'è detto lo
ripetono gli altri.
Anche la bara è il giocattolo, che si mette sotto terra.
E, s'io fossi un ragazzo, vorrei chiedere a Dio che questa fresca
erba bella la lasciassero in pace; e mi scriverei da me il mio
libro di lettura.
Farei doventar buone anche le vipere.
* * *
Ecco la sera, quando le cose della stanza doventano pugnali
che affondano nella mia anima; maniche che mi attendono.
Qualche altra volta, mi erano sembrate - libri, tavoli, sedie,
tagliacarte, cuscini, lampade, pareti - poemi immensi.
Mai, in nessun modo, sono riescito ad essere indipendente dinanzi
a loro.
Ma questa sera hanno atteso tutte d'accordo.
Siete sicure di essere sincere? Ormai vi lascio.
La mia anima, se qualche volta si ricorderà di voi, crederà di
mettersi a suonare un organetto di Barberia per fare ridere le
serve e piangere chi non c'è.
Il cardellino morirà di fame: il pane intinto non glielo darà
più nessuno.
* * *
Il cielo sta per doventare uno specchio; è già impossibile
guardarlo.
Qualche uccello, che di rado vedo entrare in una boscaglia di
pini, fa credere che sia disseccato come quelli imbalsamati; e la
sua ombra affonda passando nella polvere della strada.
C'è una piccola sorgente che a pena è buona ad escire di tra i
ciuffi dell'erba verde, sotto l'ombra di una quercia. L'acqua, al
buco della sorgente, un ago che si spezza sempre, scintilla e poi
sparisce.
In giro c'è nata questi dieci metri quadri di erba che lustra, e
basta.
Il luogo è così silenzioso che par di udire l'erba. E la fonte,
con lunghi rigagnoli, che non smettono più, va giù per il prato
a fare la calligrafia.
Quando ritorno nella strada, la polvere scotta; e io cammino
adagio, per non sudare.
* * *
Anch'io ho avuto due carri verniciati di rosso, che mi
destavano la mattina, quando i contadini li portavano con i bovi
nel campo.Carri di concime o di uva, di granturco o di grano, di
saggine o di pomodori.
Li ebbi da mio padre, ed io li vendei perché avevo da pagare un
debito.
Io non avevo mai posseduto niente, che mi fosse durato molto. Mi
ci ero tanto abituato che anche i miei sentimenti, scambiandoli
per balocchi da pochi centesimi, li ascoltavo sempre con malevola
e giusta ironia. Non era, forse, l'unico modo per non ingannarmi
più? Impazzito per aver pensato subito che io potevo finalmente
credere; effetto del mio bisogno di credere. Dopo tanto tempo,
ecco che in vece di altre cose innumerevoli, di ogni genere, io
ripenso ai due miei carri. E alla mia vita quale avrebbe dovuto
essere.
A me non era lecito escire dal mio paese. Ascoltare là le
musiche della domenica, passeggiare con tutti gli altri le mezze
giornate intere per la strada che gira attorno alle case, amare
quache ricca fantoccia.
E, sopra a tutto, avere ancora i due carri verniciati di rosso.
Il gallo che la mattina fa tremare il cuore di gioia; le noci
mangiate con il pane, ancora in maniche di camicia; le cipolle
strofinate sul sale tenuto nel palmo della mano. La dolcissima
aia costruita bene e spazzata!
Fedeltà ed amicizia dei campi verdi!
Le prime pesche vendute, i vitelli comprati alla fiera, il vino
assaggiato dai tini, ancora caldo e torbido; e il suo afrore! Gli
acquazzoni che fanno ridere; la terra che sporca le mani!
E le feste di campagna con gli organetti briachi, a singhiozzare
lontano tra i campi; e fanno venir voglia di andarci anche noi,
dietro; le feste che restano per sempre nell'anima con i fuochi
artificiali e i palloni di carta che vanno a cadere quando
pigliano fuoco.
E la cometa che fa paura!
E il temporale livido, con la grandine bianca bianca; con i lampi
che accecano! E tutte queste case del paese, che ci sono non si
sa perché; con le strade lontane per la maremma di Grosseto e
verso Siena; e si sperdono, giù nelle vallate, dopo dieci o
quindici chilometri; le strade che aspettano. In vece, non l'ho
né meno più visto questo bernoccolo di case! I miei carri non
mi destano più; e il gallo, benché duro, l'ho mangiato.
* * *
Mi piacciono quelle persone che adoprano, parlando, modi di
dire differenti a tutti gli altri. Mi sembrano, le loro
conversazioni, riconoscibili, amicizie a cui ci si possa affidare
di più.
E, così , ho imparato che le cose hanno per ogni persona una
fisionomia differente.
Una persona si distingue più profondamente dal suo modo di
parlare che dal suo viso.
Con quale voce, per esempio, dovrei parlare di un bel prato
verde? E con quale altra di questa crocetta d'oro ritrovata per
caso e che la mia mamma portava?
Ed io ho la certezza che sia viva da vero, la mia mamma!
Sono venti anni che è morta? No; non è vero. &EGRAVE viva
ancora.
Ecco ancora le sue vesti, ch'ella si metterà. Ecco il suo
armadio, le bottiglie dei profumi, il suo cappello.
La porta della mia camera l'ha lasciata aperta lei; stasera non
mangerò, se non c'è lei insieme con me.
Le farò trovare un grande piatto di fichi maturi; ne è ghiotta.
Il pane fresco; e lo metterò al suo posto, su la tavola. Il suo
bicchiere alto e scannellato, di vetro un poco verde e con il
fondo rossiccio di vino che non si può lavare più.
Ho imparato a vivere con la mia anima! Ora devo imparare a vivere
con la mia mamma.
Non abiterò più nessuna casa dove non sia anche lei; io la
seguirò con un'obbedienza che i fanciulli non hanno.
Io non parlerò che alla mia mamma.
Ed ella mi ricomprerà un paio di piccioni a cui taglierà le
ali, perché non volino via.
* * *
Tutti quei fiori che ho sognato!
La mia anima , dunque, sapeva di qualche funerale che io non so.
La mia anima è stata a qualche funerale.
Infatti, tutt'oggi nella mia casa, vuota e deserta, c'era un
senso di cose tragiche, nascoste a me. Quand'io aprivo gli occhi
avevo paura, e la carta delle pareti aveva un'aria di silenzio
quasi timido; non canzonatore o vispo, come altre volte.
Tra le stanze c'era un'intesa e un accordo di non dirmi niente;
qualche parola che se la passavano quand'io voltavo le spalle. I
miei libri facevano di tutto perché io non li prendessi in mano;
le stoviglie nel salottino da pranzo erano mute e così tristi
che io non mi sarei arrischiato ad adoperarle né meno una;
perché mi sarebbero cadute.
E ricordandomi in vece, nettamente, qualche altra giornata
quand'ero stato tanto bene in casa mia, quando non me n'ero né
meno accorto di esserci!
Io, dopo tanto tempo, devo domandarmi ancora per chi erano quei
fiori. Ma le tortore hanno fame; e dico che comprino il miglio
perché mangino.
* * *
Ci si sta così bene a piangere con la faccia su l'erba fresca
che arriva fino all'anima!
L'allodola! Piglia la mia anima!
Finito di stampare
nel mese di settembre 1993 presso lo stabilimento
litografico Lito-Service di Roma per conto della Carlo
Mancosu Editore Roma "Bestie"
- Prima edizione - 1993 |