All'alba partì, lasciando il ragazzo a guardare
il podere.
Lo stradone, fino al paese era in salita ed egli
camminava piano perché l'anno passato aveva avuto le febbri di
malaria e conservava una gran debolezza alle gambe: ogni tanto si
fermava volgendosi a guardare il poderetto tutto verde fra le due
muraglie di fichi d'India; e la capanna lassù nera fra il glauco
delle canne e il bianco della roccia gli pareva un nido, un vero
nido. Ogni volta che se ne allontanava lo guardava così, tenero
e melanconico, appunto come un uccello che emigra: sentiva di
lasciar lassù la parte migliore di se stesso, la forza che dà
la solitudine, il distacco dal mondo; e andando su per lo
stradone attraverso la brughiera, i giuncheti, i bassi ontani
lungo il fiume, gli sembrava di essere un pellegrino, con la
piccola bisaccia di lana sulle spalle e un bastone di sambuco in
mano, diretto verso un luogo di penitenza: il mondo.
Ma sia fatta la volontà di Dio e andiamo avanti.
Ecco a un tratto la valle aprirsi e sulla cima a picco d'una
collina simile a un enorme cumulo di ruderi, apparire le rovine
del Castello: da una muraglia nera una finestra azzurra vuota
come l'occhio stesso del passato guarda il panorama melanconico
roseo di sole nascente, la pianura ondulata con le macchie grigie
delle sabbie e le macchie giallognole dei giuncheti, la vena
verdastra del fiume, i paesetti bianchi col campanile in mezzo
come il pistillo nel fiore, i monticoli sopra i paesetti e in
fondo la nuvola color malva e oro delle montagne Nuoresi.
Efix cammina, piccolo e nero fra tanta grandiosità
luminosa. Il sole obliquo fa scintillare tutta la pianura; ogni
giunco ha un filo d'argento, da ogni cespuglio di euforbia sale
un grido d'uccello; ed ecco il cono verde e bianco del monte di
Galte solcato da ombre e da strisce di sole, e ai suoi piedi il
paese che pare composto dei soli ruderi dell'antica città
romana.
Lunghe muriccie in rovina, casupole senza tetto, muri
sgretolati, avanzi di cortili e di recinti, catapecchie intatte
più melanconiche degli stessi ruderi fiancheggiano le strade in
pendìo selciate al centro di grossi macigni; pietre vulcaniche
sparse qua e là dappertutto danno l'idea che un cataclisma abbia
distrutto l'antica città e disperso gli abitanti; qualche casa
nuova sorge timida fra tanta desolazione, e pinte di melograni e
di carrubi, gruppi di fichi d'India e palmizi danno una nota di
poesia alla tristezza del luogo.
Ma a misura che Efix saliva questa tristezza
aumentava, e a incoronarla si stendevano sul ciglione, all'ombra
del Monte, fra siepi di rovi e di euforbie, gli avanzi di un
antico cimitero e la Basilica pisana in rovina. Le strade erano
deserte e le rocce a picco del Monte apparivano adesso come torri
di marmo.
Efix si fermò davanti a un portone attiguo a quello
dell'antico cimitero. Erano quasi eguali, i due portoni,
preceduti da tre gradini rotti invasi d'erba; ma mentre il
portone dell'antico cimitero era sormontato appena da un'asse
corrosa, quello delle tre dame aveva un arco in muratura e
sull'architrave si notava l'avanzo di uno stemma: una testa di
guerriero con l'elmo e un braccio armato di spada; il motto era: quis
resistit hujas?
Efix attraversò il vasto cortile quadrato,
lastricato al centro, come le strade, da una specie di solco in
macigni per lo scolo delle acque piovane, e si tolse la bisaccia
dalle spalle guardando se qualcuna delle sue padrone
s'affacciava. La casa, a un sol piano oltre il terreno, sorgeva
in fondo al cortile, subito dominata dal Monte che pareva
incomberle sopra come un enorme cappuccio bianco e verde.
Tre porticine s'aprivano sotto un balcone di legno a
veranda che fasciava tutto il piano superiore della casa, al
quale si saliva per una scala esterna in cattivo stato. Una corda
nerastra, annodata e fermata a dei piuoli piantati agli angoli
degli scalini, sostituiva la ringhiera scomparsa. Le porte, i
sostegni e la balaustrata del balcone erano in legno finemente
scolpito: tutto però cadeva, e il legno corroso, diventato nero,
pareva al minimo urto sciogliersi in polvere come sgretolato da
un invisibile trivello.
Qua e là però, nella balaustrata del balcone, oltre
le colonnine svelte ancora intatte, si osservavano avanzi di
cornice su cui correva una decorazione di foglie, di fiori e di
frutta in rilievo, ed Efix ricordava che fin da bambino quel
balcone gli aveva destato un rispetto religioso, come il pulpito
e la balaustrata che circondava l'altare della Basilica.
Una donna bassa e grossa, vestita di nero e con un
fazzoletto bianco intorno al viso duro nerastro, apparve sul
balcone; si curvò, vide il servo, e i suoi occhi scuri a
mandorla scintillarono di gioia.
«Donna Ruth, buon giorno, padrona mia!»
Donna Ruth scese svelta, lasciando vedere le grosse
gambe coperte di calze turchine: gli sorrideva, mostrando i denti
intatti sotto il labbro scuro di peluria.
«E donna Ester? E donna Noemi?»
«Ester è andata a messa, Noemi s'alza adesso. Bel
tempo, Efix! Come va laggiù?»
«Bene, bene, grazie a Dio, tutto bene.»
Anche la cucina era medioevale: vasta, bassa, col
soffitto a travi incrociate nere di fuliggine; un sedile di legno
lavorato poggiava lungo la parete al di qua e al di là del
grande camino; attraverso l'inferriata della finestra verdeggiava
lo sfondo della montagna. Sulle pareti nude rossicce si notavano
ancora i segni delle casseruole di rame scomparse; e i piuoli
levigati e lucidi ai quali un tempo venivano appese le selle, le
bisacce, le armi, parevano messi lì per ricordo.
«Ebbene, donna Ruth?...», interrogò Efix, mentre
la donna metteva una piccola caffettiera di rame sul fuoco. Ma
ella volse il gran viso nero incorniciato di bianco e ammiccò
accennandogli di pazientare.
«Vammi a prendere un po' d'acqua, intanto che scende
Noemi...»
Efix prese il secchio di sotto al sedile; s'avviò,
ma sulla porta si volse timido, guardando il secchio che
dondolava.
«La lettera è di don Giacintino?»
«Lettera? E' un telegramma...»
«Gesù grande! Non gli e accaduto nulla di male?»
«Nulla, nulla! Va'...»
Era inutile insistere, prima che scendesse donna
Noemi; donna Ruth, sebbene fosse la più vecchia delle tre
sorelle e tenesse le chiavi di casa (del resto non c'era più
nulla da custodire) non prendeva mai nessuna iniziativa e nessuna
responsabilità.
Egli andò al pozzo che pareva un nuraghe
scavato in un angolo del cortile e protetto da un recinto di
macigni sui quali, entro vecchie brocche rotte, fiorivano piante
di violacciocche e cespugli di gelsomini: uno di questi si
arrampicava sul muro e vi si affacciava come per guardare cosa
c'era di là, nel mondo.
Quanti ricordi destava nel cuore del servo
quest'angolo di cortile, triste di musco, allegro dell'oro
brunito delle violacciocche e del tenero verde dei gelsomini!
Gli sembrava di veder ancora donna Lia, pallida e
sottile come un giunco, affacciata al balcone, con gli occhi
fissi in lontananza a spiare anch'essa cosa c'era di là, nel
mondo. Così egli l'aveva veduta il giorno della fuga, immobile
lassù, simile al pilota che esplora con lo sguardo il mistero
del mare...
Come pesano questi ricordi! Pesano come il secchio
pieno d'acqua che tira giù, giù nel pozzo.
Ma sollevando gli occhi Efix vide che non era Lia la
donna alta che si affacciava agile al balcone agganciandosi i
polsi della giacca nera a falde.
«Donna Noemi, buon giorno, padrona mia! Non
scende?»
Ella si chinò alquanto, coi folti capelli neri
dorati splendenti intorno al viso pallido come due bande di raso:
rispose al saluto con gli occhi anch'essi neri dorati sotto le
lunghe ciglia, ma non parlò e non scese.
Spalancò porte e finestre - tanto non c'era pericolo
che la corrente sbattesse e rompesse i vetri (mancavano da tanti
anni!) - e portò fuori stendendola bene al sole una coperta
gialla.
«Non scende, donna Noemi?», ripetè Efix a testa in
su sotto il balcone.
«Adesso, adesso.»
Ma ella stendeva bene la coperta e pareva
s'indugiasse a contemplare il panorama a destra, il panorama a
sinistra, tutti e due d'una bellezza melanconica, con la pianura
sabbiosa solcata dal fiume, da file di pioppi, di ontani bassi,
da distese di giunchi e d'euforbie, con la Basilica nerastra di
rovi, l'antico cimitero coperto d'erba in mezzo al cui verde
biancheggiavano come margherite le ossa dei morti; e in fondo la
collina con le rovine del Castello.
Nuvole d'oro incoronavano la collina e i ruderi, e la
dolcezza e il silenzio del mattino davano a tutto il paesaggio
una serenità di cimitero. Il passato regnava ancora sul luogo;
le ossa stesse dei morti sembravano i suoi fiori, le nuvole il
suo diadema.
Noemi non s'impressionava per questo; fin da bambina
era abituata a veder le ossa che in inverno pareva si scaldassero
al sole e in primavera scintillavano di rugiada. Nessuno pensava
a toglierle di lì: perché avrebbe dovuto pensarci lei? Donna
Ester, invece, mentre risale a passo lento e calmo la strada su
dalla chiesa nuova del villaggio (quando è in casa ha sempre
fretta, ma fuori fa le cose con calma perché una donna nobile
dev'essere ferma e tranquilla) giunta davanti all'antico cimitero
si fa il segno della croce e prega per le anime dei morti...
Donna Ester non dimentica mai nulla e non trascura di
osservar nulla: così, appena nel cortile, s'accorge che qualcuno
ha attinto acqua al pozzo e rimette a posto la secchia; toglie
una pietruzza da un vaso di violacciocche, ed entrata in cucina
saluta Efix domandandogli se gli han già dato il caffè.
«Dato, dato, donna Ester, padrona mia!»
Intanto donna Noemi era scesa col telegramma in mano,
ma non si decideva a leggerlo, quasi prendesse gusto ad
esasperare l'ansia curiosa del servo.
«Ester», disse, sedendosi sulla panca accanto al
camino, «perché non ti levi lo scialle?»
«C'è messa nella Basilica, stamattina; esco ancora.
Leggi.»
Sedette anche lei sulla panca e donna Ruth la imitò;
così sedute le tre sorelle si rassomigliavano in modo
straordinario; solo che rappresentavano tre età differenti:
donna Noemi ancora giovane, donna Ester anziana e donna Ruth già
vecchia, ma d'una vecchiaia forte, nobile, serena. Gli occhi di
donna Ester, un po' più chiari di quelli delle sorelle, d'un
color nocciola dorato, scintillavano però infantili e maliziosi.
Il servo s'era messo davanti a loro, aspettando; ma
donna Noemi dopo aver spiegato il foglio giallo lo guardava fisso
quasi non riuscisse a decifrarne le parole, e infine lo scosse
indispettita.
«Ebbene, dice che fra pochi giorni arriverà. E'
questo!»
Sollevò, gli occhi e arrossì guardando severa il
viso di Efix: anche le altre due lo guardavano.
«Capisci? Così, senz'altro, quasi venga a casa
sua!»
«Che ne dici?», domandò donna Ester, mettendo un
dito fuor dell'incrociatura dello scialle.
Efix aveva un viso beato: le fitte rughe intorno ai
suoi occhi vivaci sembravano raggi, ed egli non cercava di
nascondere la sua gioia.
«Sono un povero servo, ma dico che la provvidenza sa
quello che fa!»
«Signore, vi ringrazio! C'è almeno qualcuno che
capisce la ragione», disse donna Ester.
Ma Noemi era ridiventata pallida: parole di protesta
le salivano alle labbra, e sebbene come sempre riuscisse a
dominarsi davanti al servo al quale pareva non desse molta
importanza, non poté fare a meno di ribattere:
«Qui non c'entra la provvidenza, e non si tratta di
questo. Si tratta...», aggiunse dopo un momento di esitazione,
«si tratta di rispondergli netto e chiaro che in casa nostra non
c'è posto per lui!».
Allora Efix aprì le mani e reclinò un poco la testa
come per dire: e allora perché mi consultate? - ma donna Ester
si mise a ridere e alzò sbattendo con impazienza le due ali nere
del suo scialle.
«E dove vuoi che vada, allora? In casa del Rettore
come i forestieri che non trovano alloggio?»
«Io piuttosto non gli risponderei niente», propose
donna Ruth, togliendo di mano a Noemi il telegramma che quella
piegava e ripiegava nervosamente. «Se arriva, ben arrivato. Lo
si potrebbe accogliere appunto come un forestiere. Ben venuto
l'ospite!», aggiunse, come salutando qualcuno che entrasse dalla
porta. «Va bene. E se si comporta male è sempre a tempo ad
andarsene.»
Ma donna Ester sorrideva, guardando la sorella che
era la più timida e irresoluta delle tre; e curvandosi le batté
una mano sulle ginocchia:
«A cacciarlo via, vuoi dire? Bella figura, sorella
cara. E ne avrai il coraggio, tu, Ruth?».
Efix pensava. D'improvviso alzò la testa e appoggiò
una mano sul petto.
«Per questo ci penserei io!», promise con forza.
Allora i suoi occhi incontrarono quelli di Noemi, ed
egli, che aveva sempre avuto paura di quegli occhi liquidi e
freddi come un'acqua profonda, comprese come la padrona giovane
prendeva sul serio la sua promessa.
Ma non si pentì di averla fatta. Ben altre
responsabilità s'era assunte nella sua vita.
Egli restò in paese tutta la giornata.
Era inquieto per il podere - sebbene in quel tempo ci
fosse poco da rubare - ma gli sembrava che un segreto dissidio
turbasse le sue padrone, e non voleva ripartire se prima non le
vedeva tutte d'accordo.
Donna Ester, dopo aver rimesso qualche oggetto in
ordine, uscì di nuovo per andare nella Basilica; Efix promise di
raggiungerla, ma mentre donna Noemi risaliva al piano superiore,
egli rientrò in cucina e sottovoce pregò donna Ruth, che si era
inginocchiata per terra e gramolava un po' di pasta su una tavola
bassa, di dargli il telegramma. Ella sollevò la testa e col
pugno rivolto bianco di farina si tirò un po' indietro il
fazzoletto.
«L'hai sentita?», disse sottovoce accennando a
Noemi. «E' sempre lei! L'orgoglio la regge...»
«Ha ragione!», affermò Efix pensieroso. «Quando
si è nobili si è nobili, donna Ruth. Trova lei una moneta
sotterra? Le sembra di ferro perché è nera, ma se lei la
pulisce vede che è oro... L'oro è sempre oro...»
Donna Ruth capì che con Efix era inutile scusare
l'orgoglio fuori posto di Noemi, e sempre pronta a seguire
l'opinione altrui, se ne rallegrò.
«Ti ricordi com'era superbo mio padre?», disse
ricacciando fra la pasta pallida le sue mani rosse venate di
turchino. «Anche lui parlava così. Lui, certo, non avrebbe
permesso a Giacintino neppure di sbarcare. Che ne dici, Efix?»
«Io? Io sono un povero servo, ma dico che don
Giacintino sarebbe sbarcato lo stesso.»
«Figlio di sua madre, vuoi dire?», sospirò donna
Ruth, e il servo sospirò anche lui. L'ombra del passato era
sempre lì, intorno a loro.
Ma l'uomo fece un gesto appunto come per allontanare
quest'ombra e seguendo con gli occhi il movimento delle mani
rosse che tiravano, piegavano e battevano la pasta bianca,
riprese con calma:
«Il ragazzo è bravo e la provvidenza lo aiuterà.
Bisogna però stare attenti che non prenda le febbri. Poi
bisognerà comprargli un cavallo, perché in continente non si
usa andare a piedi. Ci penserò io. L'importante è che le loro
signorie vadano d'accordo».
Ma ella disse subito con fierezza:
«E non siamo d'accordo? Ci hai forse sentito a
questionare? Non vai a messa, Efix?».
Egli capì che lo congedava e uscì nel cortile, ma
guardò se si poteva parlare anche con donna Noemi. Eccola
appunto che ritira la coperta dal balcone: inutile pregarla di
scendere, bisogna salire fino a lei.
«Donna Noemi, mi permette una domanda? E'
contenta?»
Noemi lo guardò sorpresa, con la coperta
abbracciata.
«Di che cosa?»
«Che venga don Giacintino. Vedrà, è un bravo
ragazzo.»
«Tu, dove lo hai conosciuto?»
«Si vede da come scrive. Potrà far molto.
Bisognerà però comprargli un cavallo...»
«Ed anche gli sproni allora!»
«...Tutto sta che le loro signorie vadano d'accordo.
Questo è l'importante. »
Ella tolse un filo dalla coperta e lo buttò nel
cortile: il suo viso s'era oscurato.
«Quando non siamo andate d'accordo? Finora sempre.»
«Sì... ma... pare che lei non sia contenta
dell'arrivo di don Giacintino.»
«Devo mettermi a cantare? Non è il Messia!», ella
disse, passando di traverso nella porticina dal cui vano si
vedeva l'interno d'una camera bianca con un letto antico, un
cassettone antico, una finestruola senza vetri aperta sullo
sfondo verde del Monte.
Efix scese, staccò una piccola violacciocca rosea e
tenendola fra le dita intrecciate sulla schiena si diresse alla
Basilica.
Il silenzio e la frescura del Monte incombente
regnavano attorno: solo il gorgheggio delle cingallegre in mezzo
ai rovi animava il luogo, accompagnando la preghiera monotona
delle donne raccolte nella chiesa. Efix entrò in punta di piedi,
con la violacciocca fra le dita, e s'inginocchiò dietro la
colonna del pulpito.
La Basilica cadeva in rovina; tutto vi era grigio,
umido e polveroso: dai buchi del tetto di legno piovevan raggi
obliqui di polviscolo argenteo che finivano sulla testa delle
donne inginocchiate per terra, e le figure giallognole che
balzavano dagli sfondi neri screpolati dei dipinti che ancora
decoravano le pareti somigliavano a queste donne vestite di nero
e viola, tutte pallide come l'avorio e anche le più belle, le
più fini, col petto scarno e lo stomaco gonfio dalle febbri di
malaria. Anche la preghiera aveva una risonanza lenta e monotona
che pareva vibrasse lontano, al di là del tempo: la messa era
per un trigesimo e un panno nero a frange d'oro copriva la
balaustrata dell'altare; il prete bianco e nero si volgeva
lentamente con le mani sollevate, con due raggi di luce che gli
danzavano attorno e parevano emanati dalla sua testa di profeta.
Senza lo squillo del campanello agitato dal piccolo sacrista che
pareva scacciasse gli spiriti d'intorno. Efix, nonostante la
luce, il canto degli uccelli, avrebbe creduto di assistere ad una
messa di fantasmi. Eccoli, son tutti lì; c'è don Zame
inginocchiato sul banco di famiglia e più in là donna Lia
pallida nel suo scialle nero come la figura su nel quadro antico
che tutte le donne guardano ogni tanto e che pare affacciata
davvero a un balcone nero cadente. E la figura della Maddalena,
che dicono dipinta dal vero: l'amore, la tristezza, il rimorso e
la speranza le ridono e le piangon negli occhi profondi e nella
bocca amara...
Efix la guarda e sente, come sempre davanti a questa
figura che s'affaccia dall'oscurità di un passato senza limiti,
un capogiro come se fosse egli stesso sospeso in un vuoto nero
misterioso... Gli sembra di ricordare una vita anteriore,
remotissima. Gli sembra che tutto intorno a lui si animi, ma
d'una vita fantastica di leggenda; i morti risuscitano, il Cristo
che sta dietro la tenda giallastra dell'altare, e che solo due
volte all'anno viene mostrato al popolo, scende dal suo
nascondiglio e cammina: anche Lui è magro, pallido, silenzioso:
cammina e il popolo lo segue, e in mezzo al popolo è lui, Efix,
che va, va, col fiore in mano, col cuore agitato da un sussulto
di tenerezza... Le donne cantano, gli uccelli cantano; donna
Ester sgambetta accanto al servo, col dito fuori
dell'incrociatura dello scialle. La processione esce fuori dal
paese, e il paese è tutto fiorito di melograni e di vitalbe; le
case son nuove, il portone della famiglia Pintor è nuovo, di
noce, lucido, il balcone è intatto... Tutto è nuovo, tutto è
bello. Donna Maria Cristina è viva e s'affaccia al balcone ove
sono stese le coperte di seta. Donna Noemi è giovanissima, è
fidanzata a don Predu, e don Zame, che segue anche lui la
processione, finge d'esser come sempre corrucciato, ma è molto
contento...
Ma il canto delle donne cessò e alcune s'alzarono
per andarsene. Efix, che aveva appoggiato la testa alla colonna
del pulpito, si scosse dal suo sogno e seguì donna Ester che
usciva per tornarsene a casa.
Il sole alto sferzava adesso il paesetto più che mai
desolato nella luce abbagliante del mattino già caldo: le donne
uscite di chiesa sparvero qua e là, tacite come fantasmi, e
tutto fu di nuovo solitudine e silenzio intorno alla casa delle
dame Pintor. Donna Ester s'avvicinò, al pozzo per coprire con
un'assicella una piantina di garofani, salì svelta le scale,
chiuse porte e finestre. Al suo passare il ballatoio
scricchiolava e dal muro e dal legno corroso pioveva una
polverina grigia come cenere.
Efix aspettò ch'ella scendesse. Seduto al sole sugli
scalini, con la berretta ripiegata per farsi un po' d'ombra sul
viso, appuntava col suo coltello a serramanico un piuolo che
donna Ruth desiderava piantare sotto il portico; ma lo
scintillare della lama al sole gli faceva male agli occhi e la
violacciocca già appassita tremolava sul suo ginocchio. Egli
sentiva le idee confuse e pensava alla febbre che lo aveva
tormentato l'anno scorso.
«Già di ritorno quella diavola?»
Donna Ester ridiscese, con un vasetto di sughero in
mano: egli si tirò in là per lasciarla passare e sollevò il
viso ombreggiato dalla berretta.
«Padrona mia, non esce più?»
«E dove vuoi che vada, a quest'ora? Nessuno mi ha
invitato a pranzo!»
«Vorrei dirle una cosa. E' contenta?»
«Di che, anima mia?»
Ella lo trattava maternamente, senza famigliarità
però; lo aveva sempre considerato un uomo semplice.
«Che... che sieno tutte d'accordo per la venuta di
don Giacintino?»
«Son contenta, sì. Doveva esser così.»
«E' un bravo ragazzo. Farà fortuna. Bisogna
comprargli un cavallo. Però...»
«Però?»
«Non bisognera dargli molta libertà, in principio.
I ragazzi son ragazzi... Io ricordo quando ero ragazzo, se uno mi
permetteva di stringergli il dito mignolo io gli torcevo tutta la
mano. Eppoi gli uomini della razza Pintor, lei lo sa... donna
Ester... sono superbi...»
«Se mio nipote arriverà, Efix, io gli dirò come
all'ospite: siediti, sei come in casa tua. Ma egli capirà che
qui lui è ospite...»
Allora Efix si alzò, scuotendosi dalle brache la
segatura del piuolo. Tutto andava bene, eppure un senso di
inquietudine lo agitava: aveva da dire ancora una cosa ma non
osava.
Seguì passo passo la donna, si tolse la berretta per
piantar con più forza il piuolo, attese di nuovo pazientemente
finché donna Ester tornò per attinger acqua.
«Dia! Dia a me», disse togliendole di mano la
secchia, e mentre tirava su l'acqua guardava dentro il pozzo, per
non guardare in viso la padrona, poiché si vergognava di
chiederle i denari che ella gli doveva.
«Donna Ester, non vedo più i fasci di canne. Le ha
poi vendute?»
«Sì, le ho vendute in parte a un Nuorese, in parte
le ho adoperate per accomodare il tetto, e così ho pagato anche
il muratore. Sai che l'ultimo giorno di quaresima il vento portò
via le tegole.»
Egli non insisté dunque. Ci son tanti modi di
aggiustar le cose, senza mortificar la gente a cui si vuol bene!
Andò quindi da Kallina l'usuraia, fermandosi a salutare la nonna
del ragazzo rimasto a guardia del poderetto. Alta e scarna, col
viso egizio inquadrato dal fazzoletto nero con le cocche
ripiegate alla sommità del capo, la vecchia filava seduta sullo
scalino della sua catapecchia di pietre nerastre. Una fila di
coralli le circondava il lungo collo giallo rugoso, due pendenti
d'oro tremolavano alle sue orecchie come gocce luminose che non
si decidevano a staccarsi. Pareva che invecchiando ella avesse
dimenticato di togliersi quei gioielli di giovinetta.
«Ave Maria, zia Pottoi; come ve la passate? Il
ragazzo è rimasto lassù, ma stasera sarà di ritorno.»
Ella lo fissava coi suoi occhi vitrei.
«Ah, sei Efix? Dio ti aiuti. Ebbene, la lettera di
chi era? Di don Giacintino? Se egli arriva accoglietelo bene.
Dopo tutto torna a casa sua. E' l'anima di don Zame, perché le
anime dei vecchi rivivono nei giovani. Vedi Grixenda mia nipote!
E' nata sedici anni fa, per la festa del Cristo, mentre la madre
moriva. Ebbene, guardala: non è sua madre rinata? Eccola...»
Ecco infatti Grixenda che torna su dal fiume con un
cestino di panni sul capo, alta, le sottane sollevate sulle gambe
lucide e dritte di cerbiatta. E di cerbiatta aveva anche gli
occhi lunghi, umidi nel viso pallido di medaglia antica: un
nastro rosso le attraversava il petto, da un lembo all'altro del
corsettino aperto sulla camicia, sostenendole il seno acerbo.
«Zio Efix!», gridò carezzevole e crudele,
mettendogli il cestino sul capo e frugandogli le saccocce.
«Anima mia bella! Sempre penso a voi, e voi non
avete nulla da darmi... Neanche una mandorla!»
Efix lasciava fare, rallegrato dalla grazia di lei.
Ma la vecchia, col viso immobile e gli occhi vitrei, disse con
dolcezza:
«Don Zame bonanima ritorna».
Allora Grixenda s'irrigidì, e il suo bel viso e i
suoi begli occhi rassomigliavano vagamente a quelli della nonna.
«Ritorna?»
«Lasciate queste storie!», disse Efix deponendo il
cestino ai piedi della fanciulla, ma ella ascoltava come
incantata le parole della nonna, e anche lui discendendo la
strada credeva di rivedere il passato in ogni angolo di muro.
Ecco, laggiù, seduto sulla panchina di pietra addossata alla
casa grigia del Milese un grosso uomo vestito di velluto la cui
tinta marrone fa spiccare meglio il colore del viso rosso e della
barba nera.
Non è don Zame? Come lui sporge il petto, coi
pollici nei taschini del corpetto, le altre dita rosse
intrecciate alla catena d'oro dell'orologio. Egli sta lì tutto
il giorno a guardare i passanti e a beffarsi di loro: molti
cambiano strada per paura di lui, e altrettanto fa Efix per
raggiungere non visto la casa dell'usuraia.
Una siepe di fichi d'India recingeva come una
muraglia pesante il cortile di zia Kallina: anche lei filava,
piccola, con le scarpette ricamate, senza calze, col visetto
bianco e gli occhi dorati di uccello da preda lucidi all'ombra
del fazzoletto ripiegato sul capo.
«Efix, fratello caro! Come stai? E le tue
padroncine? E questa visita? Siedi, siedi, indugiati.»
Galline sonnolente che si beccavano sotto le ali,
gattini allegri che correvano appresso ad alcuni porcellini
rosei, colombi bianchi e azzurrognoli, un asino legato a un
piuolo e le rondini per aria davano al recinto l'aspetto
dell'arca di Noè: la casetta sorgeva sullo sfondo della vecchia
casa riattata del Milese, alta, quest'ultima, col tetto nuovo, ma
qua e là scrostata e come graffiata dal tempo indispettito
contro chi voleva togliergli la sua preda.
«Il podere?», disse Efix appoggiandosi al muro
accanto alla donna. «Va bene. Quest'anno avremo più mandorle
che foglie. Così ti pagherò tutto, Kallì! Non stare in
pensiero...»
Ella aggrottò le sopracciglia nude, seguendo con gli
occhi il filo del suo fuso.
«Non ci pensavo neanche, vedi! Tutti fossero come
te, e i sette scudi che tu mi devi fossero cento!»
«Saetta che ti sfiori!», pensava Efix. «M'hai dato
quattro scudi, a Natale, e ora son già sette!»
«Ebbene, Kallì», aggiunse a bassa voce, curvando
la testa come parlasse ai porcellini che gli fiutavano con
insistenza i piedi. «Kallì, dammi un altro scudo! Così fan
otto, e a luglio, come è vero il sole, ti restituirò fino
all'ultimo centesimo...»
L'usuraia non rispose; ma lo guardò a lungo da capo
a piedi e tese il pugno verso di lui facendo le fiche.
Efix sobbalzò e le afferrò il polso, mentre i
porcellini scappavano seguiti dai gattini e a tanto subbuglio le
galline starnazzavano.
«Kallì, saetta che ti sfiori, se non ci fossero gli
uomini come me, tu invece di praticar l'usura andresti a pescar
sanguisughe...»
«Meglio pescar sanguisughe che farsi succhiare il
sangue come te, malaugurato! Sì, Maccabeo, te lo do lo scudo;
dieci e cento te ne do, se li vuoi, come li do a gente più
ragguardevole di te, alle tue padroncine, ai nobili e ai parenti
dei Baroni, ma le fiche te le farò sempre finché sarai uno
stupido, cioè fino alla tua morte... Te li darò...»
E andò a prendere cinque lire d'argento.
Efix se ne andò, con la moneta nel pugno, seguito
dai saluti ironici della donna.
«Di' alle tue padroncine che si conservino bene.»
Ma egli era deciso a sopportare ogni pena pur di far
bella figura all'arrivo di don Giacintino. Voleva comprarsi una
berretta nuova per riceverlo, e scese quindi alla bottega del
Milese, rassegnandosi anche a salutare l'uomo seduto sulla
panchina. Era don Predu, il parente ricco delle sue padroncine.
Don Predu rispose con un cenno sprezzante del capo,
da sotto in su, ma non sdegnò di tender l'orecchio per sentire
cosa il servo comprava.
«Dammi una berretta, Antoni Franzì, ma che sia
lunga e che non sia tarlata...»
«Non l'ho presa in casa delle tue padrone», rispose
il Milese che aveva la lingua lunga. E fuori don Predu raschiò
in segno di approvazione, mentre il negoziante si arrampicava su
una scaletta a piuoli.
«Tutto invecchia e tutto può rinnovarsi, come
l'anno», replicò Efix, seguendo con gli occhi la figura smilza
del Milese ancora vestito con la lunga sopravveste di pelli del
suo paese.
La botteguccia era piccola ma piena zeppa come un
uovo: sulle scansie rosseggiavano le pezze dello scarlatto e
accanto brillava il verde delle bottiglie di menta; i sacchi di
farina sporgevano le loro pance bianche contro le gobbe nere
delle botti d'aringhe, e nella piccola vetrina le donne nude
delle cartoline illustrate sorridevano ai vasi di confetti
stantii ed ai rotoli di nastri scoloriti.
Mentre il Milese traeva da una scatola le lunghe
berrette di panno nero, ed Efix ne misurava con la mano aperta la
circonferenza, qualcuno apri la porticina che dava sul cortile; e
nello sfondo inghirlandato di viti apparve, seduta su una lunga
scranna, una donna imponente che filava placida come una regina
antica.
«Ecco mia suocera: domanda a lei se queste berrette
non costano a me nove pezzas», disse il Milese, mentre
Efix se ne misurava una tirandone giù sulla fronte il cerchio e
ripiegandone la punta alla sommità della testa. «Hai scelto la
migliore; non sei semplice come dicono! Non vedi che è una
berretta da sposo?»
«E' stretta.»
«Perché è nuova, figlio di Dio, prendila. Nove pezzas:
è come che sia buttata nella strada.»
Efix se la tolse e la lisciò, pensieroso; finalmente
mise sul banco la moneta dell'usuraia.
Don Predu sporgeva il viso dalla porta, e il fatto
che Efix comprava una berretta così di lusso richiamò anche
l'attenzione della suocera del Milese. Ella chiamò il servo con
un cenno del capo, e gli domandò con solennità come stavan le
sue padrone. Dopo tutto erano donne nobili e meritavano il
rispetto delle persone per bene: solo i giramondo arricchiti,
come il Milese suo genero, potevano mancar loro di rispetto.
«Salutale tanto e di' a donna Ruth che presto andrò
a farle una visita. Siamo sempre state buone amiche, con donna
Ruth, sebbene io non sia nobile.»
«Voi avete la nobiltà nell'anima», rispose
galantemente Efix, ma ella roteò lieve il fuso come per dire
«lasciamo andare!».
«Anche mio fratello il Rettore ha molta stima per le
tue padrone. Egli mi domanda sempre: "quando si va ancora
assieme con le dame alla festa del Rimedio?".»
«Sì», ella proseguì con accento di nostalgia,
«da giovani si andava tutti assieme alla festa: ci si divertiva
con niente. Adesso la gente pare abbia vergogna a ridere.»
Efix piegava accuratamente la sua berretta.
«Dio volendo quest'anno le mie padrone andranno alla
festa... per pregare, non per divertirsi...»
«Questo mi fa piacere. E dimmi una cosa, se è
lecito: è vero che viene il figlio di Lia? Lo dicevano
stamattina lì in bottega. »
Siccome il Milese s'era avvicinato alla porta e
rideva per qualche cosa che don Predu gli diceva sottovoce, Efix
esclamò con dignità:
«E' vero! Io sto qui appunto in paese perché devo
comprare un cavallo per lui».
«Un cavallo di canna?», domandò allora don Predu,
ridendo goffamente. «Ah, ecco perché ti ho visto uscire dalla
tana di Kallina.»
«A lei che importa? A lei non abbiamo domandato mai
niente!»
«Sfido, babbeo! Non vi darei mai niente! Un buon
consiglio però, sì! Lasciate quel ragazzo dov'è!»
Ma Efix era uscito dalla bottega a testa alta, con la
berretta sotto il braccio, e si allontanava senza rispondere.