Cuore
di Edmondo De Amicis
Una medaglia ben data
4, sabato
Questa mattina venne a dar le medaglie il Sovrintendente scolastico, un signore con la barba bianca, vestito di nero. Entrò col Direttore, poco prima del finis, e sedette accanto al maestro. Interrogò parecchi, poi diede la prima medaglia a Derossi, e prima di dar la seconda, stette qualche momento a sentire il maestro e il Direttore, che gli parlavano a voce bassa. Tutti domandavano: - A chi darà la seconda? - Il Sovrintendente disse a voce alta: - La seconda medaglia l'ha meritata questa settimana l'alunno Pietro Precossi: meritata per i lavori di casa, per le lezioni, per la calligrafia, per la condotta, per tutto. - Tutti si voltarono a guardar Precossi, si vedeva che ci avevan tutti piacere. Precossi s'alzò, confuso che non sapeva più dove fosse. - Vieni qua, - disse il Sovrintendente. Precossi saltò giù dal banco e andò accanto al tavolino del maestro. Il sovrintendente guardò con attenzione quel visino color di cera, quel piccolo corpo insaccato in quei panni rimboccati e disadatti, quegli occhi buoni e tristi, che sfuggivano i suoi, ma che lasciavano indovinare una storia di patimenti, poi gli disse con voce piena di affetto, attaccandogli la medaglia alla spalla: - Precossi, ti dò la medaglia. Nessuno è più degno di te di portarla. Non la dò soltanto alla tua intelligenza e al tuo buon volere, la dò al tuo cuore, la dò al tuo coraggio, al tuo carattere di bravo e buon figliuolo. Non è vero, - soggiunse, voltandosi verso la classe, - che egli la merita anche per questo? - Sì, sì, - risposero tutti a una voce. Precossi fece un movimento del collo come per inghiottire qualche cosa, e girò sui banchi uno sguardo dolcissimo, che esprimeva una gratitudine immensa. - Va', dunque, gli disse il Sovrintendente, - caro ragazzo! E Dio ti protegga! - Era l'ora d'uscire. La nostra classe uscì avanti le altre. Appena siamo fuori dell'uscio... chi vediamo lì nel camerone, proprio sull'entrata? Il padre di Precossi, il fabbro ferraio, pallido, come al solito, col viso torvo, coi capelli negli occhi, col berretto per traverso, malfermo sulle gambe. Il maestro lo vide subito e parlò nell'orecchio al Sovrintendente; questi cercò Precossi in fretta e, presolo per mano, lo condusse da suo padre. Il ragazzo tremava. Anche il maestro e il Direttore s'avvicinarono, molti ragazzi si fecero intorno. - Lei è il padre di questo ragazzo, è vero? - domandò il Sovrintendente al fabbro, con fare allegro, come se fossero amici. E senz'aspettar la risposta: - Mi rallegro con lei. Guardi: egli ha guadagnato la seconda medaglia, sopra cinquantaquattro compagni; l'ha meritata nella composizione, nell'aritmetica, in tutto. È un ragazzo pieno d'intelligenza e di buona volontà, che farà molto cammino: un bravo ragazzo, che ha l'affezione e la stima di tutti; lei ne può andar superbo, gliel'assicuro. - Il fabbro, che era stato a sentire con la bocca aperta, guardò fisso il Sovrintendente e il Direttore, e poi fissò il suo figliuolo, che gli stava davanti, con gli occhi bassi, tremando; e come se ricordasse e capisse allora per la prima volta tutto quello che aveva fatto soffrire a quel povero piccino, e tutta la bontà, tutta la costanza eroica con cui egli aveva sofferto, mostrò a un tratto nel viso una certa meraviglia stupida, poi un dolore accigliato, infine una tenerezza violenta e triste, e con un rapido gesto afferrò il ragazzo per il capo e se lo strinse sul petto. Noi gli passammo tutti davanti; io l'invitai a venir a casa giovedì, con Garrone e Crossi; altri lo salutarono; chi gli faceva una carezza, chi gli toccava la medaglia, tutti gli dissero qualche cosa. E il padre guardava stupito, tenendosi sempre serrato al petto il capo del figliuolo, che singhiozzava.
Buoni propositi
5, domenica
M'ha destato un rimorso quella medaglia data a Precossi. Io che non ne ho ancora guadagnata una! Io da un po' di tempo non studio, e sono scontento di me, e il maestro, mio padre e mia madre sono scontenti. Non provo più neppure il piacere di prima a divertirmi, quando lavoravo di voglia, e poi saltavo su dal tavolino e correvo ai miei giochi pieno d'allegrezza, come se non avessi più giocato da un mese. Neanche a tavola coi miei non mi siedo più con la contentezza d'una volta. Sempre ho come un'ombra nell'animo, una voce dentro che mi dice continuamente: - non va, non va. - Vedo la sera passar per la piazza tanti ragazzi che tornan dal lavoro, in mezzo a gruppi d'operai tutti stanchi ma allegri, che allungano il passo, impazienti di arrivar a casa a mangiare, e parlano forte, ridendo, e battendosi sulle spalle le mani nere di carbone o bianche di calce, e penso che hanno lavorato dallo spuntar dell'alba fino a quell'ora; e con quelli tanti altri anche più piccoli, che tutto il giorno son stati sulle cime dei tetti, davanti alle fornaci, in mezzo alle macchine, e dentro all'acqua, e sotto terra, non mangiando che un po' di pane; e provo quasi vergogna, io che in tutto quel tempo non ho fatto che scarabocchiare di mala voglia quattro paginuccie. Ah sono scontento, scontento! Io vedo bene che mio padre è di malumore, e vorrebbe dirmelo, ma gli rincresce, e aspetta ancora; caro padre mio, che lavori tanto! Tutto è tuo, tutto quello che mi vedo intorno in casa, tutto quello che tocco, tutto quello che mi veste e che mi ciba, tutto quello che mi ammaestra e mi diverte, tutto è frutto del tuo lavoro, ed io non lavoro, tutto t'è costato pensieri, privazioni, dispiaceri, fatiche, e io non fatico! Ah no, è troppo ingiusto e mi fa troppa pena. Io voglio cominciare da oggi, voglio mettermi a studiare, come Stardi, coi pugni serrati e coi denti stretti, mettermici con tutte le forze della mia volontà e del mio cuore; voglio vincere il sonno la sera, saltar giù presto la mattina, martellarmi il cervello senza riposo, sferzare la pigrizia senza pietà, faticare, soffrire anche, ammalarmi; ma finire una volta di trascinare questa vitaccia fiacca e svogliata che avvilisce me e rattrista gli altri. Animo, al lavoro! Al lavoro con tutta l'anima e con tutti i nervi! Al lavoro che mi renderà il riposo dolce, i giochi piacevoli, il desinare allegro; al lavoro che mi ridarà il buon sorriso del mio maestro e il bacio benedetto di mio padre.
Il vaporino
10, venerdì
Precossi venne a casa ieri, con Garrone. Io credo che se fossero stati due figliuoli di principi non sarebbero stati accolti con più festa. Garrone era la prima volta che veniva, perché è un po' orso, e poi si vergogna di lasciarsi vedere, che è così grande e fa ancora la terza. Andammo tutti ad aprir la porta, quando suonarono. Crossi non venne perché gli è finalmente arrivato il padre dall'America, dopo sei anni. Mia madre baciò subito Precossi mio padre le presentò Garrone, dicendo: - Ecco qui; questo non è solamente un buon ragazzo; questo è un galantuomo e un gentiluomo. - Ed egli abbassò la sua grossa testa rapata, sorridendo di nascosto con me. Precossi aveva la sua medaglia, ed era contento perché suo padre s'è rimesso a lavorare, e son cinque giorni che non beve più, lo vuol sempre nell'officina a tenergli compagnia, e pare un altro. Ci mettemmo a giocare, io tirai fuori tutte le cose mie; Precossi rimase incantato davanti al treno della strada ferrata, con la macchina che va da sé, a darle la corda; non n'aveva visto mai; divorava con gli occhi quei vagoncini rossi e gialli. Io gli diedi la chiavetta perché giocasse, egli s'inginocchiò a giocare, e non levò più la testa. Non l'avevo mai visto contento così. Sempre diceva: - Scusami, scusami, - a ogni proposito, facendoci in là con le mani, perché non fermassimo la macchina, e poi pigliava e rimetteva i vagoncini con mille riguardi, come se fossero di vetro, aveva paura di appannarli col fiato, e li ripuliva, guardandoli di sotto e di sopra, e sorridendo da sé. Noi, tutti in piedi, lo guardavamo; guardavamo quel collo sottile, quelle povere orecchine che un giorno io avevo visto sanguinare, quel giacchettone con le maniche rimboccate, da cui uscivano due braccini di malato, che s'erano alzati tante volte per difendere il viso dalle percosse... Oh! in quel momento io gli avrei gettato ai piedi tutti i miei giocattoli e tutti i miei libri, mi sarei strappato di bocca l'ultimo pezzo di pane per darlo a lui, mi sarei spogliato per vestirlo, mi sarei buttato in ginocchio per baciargli le mani - Almeno il treno glielo voglio dare, - pensai; ma bisognava chiedere il permesso a mio padre. In quel momento mi sentii mettere un pezzetto di carta in una mano; guardai: era scritto da mio padre col lapis; diceva: - A Precossi piace il tuo treno. Egli non ha giocattoli. Non ti suggerisce nulla il tuo cuore? - Subito io afferrai a due mani la macchina e i vagoni e gli misi ogni cosa sulle braccia dicendogli: - Prendilo, è tuo. - Egli mi guardò, non capiva. - È tuo, - dissi, - te lo regalo. - Allora egli guardò mio padre e mia madre, ancora più stupito, e mi domandò: - Ma perché? - Mio padre gli disse: - Te lo regala Enrico perché è tuo amico, perché ti vuol bene... per festeggiare la tua medaglia. - Precossi domandò timidamente: - Debbo portarlo via... a casa? - Ma sicuro! - rispondemmo tutti. Era già sull'uscio, e non osava ancora andarsene. Era felice! Domandava scusa, con la bocca che tremava e rideva. Garrone lo aiutò a rinvoltare il treno nel fazzoletto, e chinandosi, fece crocchiare i grissini che gli empivan le tasche. - Un giorno, - mi disse Precossi, - verrai all'officina a veder mio padre a lavorare. Ti darò dei chiodi. - Mia madre mise un mazzettino nell'occhiello della giacchetta a Garrone perché lo portasse alla mamma in nome suo. Garrone le disse col suo vocione: - Grazie, - senza alzare il mento dal petto. Ma gli splendeva tutta negli occhi l'anima nobile e buona.
Superbia
11, sabato
E dire che Carlo Nobis si pulisce la manica con affettazione quando Precossi lo tocca, passando! Costui è la superbia incarnata perché suo padre è un riccone. Ma anche il padre di Derossi è ricco! Egli vorrebbe avere un banco per sé solo, ha paura che tutti lo insudicino, guarda tutti dall'alto al basso, ha sempre un sorriso sprezzante sulle labbra: guai a urtargli un piede quando s'esce in fila a due a due! Per un nulla butta in viso una parola ingiuriosa o minaccia di far venire alla scuola suo padre. E sì che suo padre gli ha dato la sua brava polpetta quando trattò da straccione il figliuolo del carbonaio! Io non ho mai visto una muffa compagna! Nessuno gli parla, nessuno gli dice addio quando s'esce, non c'è un cane che gli suggerisce quando non sa la lezione. E lui non può patir nessuno, e finge di disprezzar sopra tutti Derossi, perché è il primo, e Garrone perché tutti gli voglion bene. Ma Derossi non lo guarda neppure quant'è lungo, e Garrone, quando gli riportarono che Nobis sparlava di lui, rispose: - Ha una superbia così stupida che non merita nemmeno i miei scapaccioni. - Coretti pure, un giorno ch'egli sorrideva con disprezzo del suo berretto di pel di gatto, gli disse: - Va' un poco da Derossi a imparare a far il signore! - Ieri si lamentò col maestro perché il calabrese gli toccò una gamba col piede. Il maestro domandò al calabrese: - L'hai fatto apposta? - No, signore, - rispose franco. E il maestro: - Siete troppo permaloso, Nobis. - E Nobis, con quella sua aria: - Lo dirò a mio padre. - Allora il maestro andò in collera: - Vostro padre vi darà torto, come fece altre volte. E poi non c'è che il maestro, in iscuola, che giudichi e punisca. - Poi soggiunse con dolcezza: - Andiamo, Nobis, cambiate modi, siate buono e cortese coi vostri compagni. Vedete, ci sono dei figliuoli d'operai e di signori, dei ricchi e dei poveri, e tutti si voglion bene, si trattan da fratelli, come sono. Perché non fate anche voi come gli altri? Vi costerebbe così poco farvi benvolere da tutti, e sareste tanto più contento voi pure!... Ebbene, non avete nulla da rispondermi? - Nobis, ch'era stato a sentire col suo solito sorriso sprezzante, rispose freddamente: - No, signore. - Sedete, - gli disse il maestro. - Vi compiango. Siete un ragazzo senza cuore. - Tutto pareva finito così; ma il muratorino, che è nel primo banco, voltò la sua faccia tonda verso Nobis, che è nell'ultimo, e gli fece un muso di lepre così bello e così buffo, che tutta la classe diede in una sonora risata. Il maestro lo sgridò; ma fu costretto a mettersi una mano sulla bocca per nascondere il riso. E Nobis pure fece un riso; ma di quello che non si cuoce.
I feriti del lavoro
13, lunedì
Nobis può fare il paio con Franti: non si commossero né l'uno né l'altro, questa mattina, davanti allo spettacolo terribile che ci passò sotto gli occhi. Uscito dalla scuola, stavo con mio padre a guardar certi birbaccioni della seconda, che si buttavan ginocchioni per terra a strofinare il ghiaccio con le mantelline e con le berrette, per far gli sdruccioloni più lesti, quando vedemmo venir d'in fondo alla strada una folla di gente, a passo affrettato, tutti seri e come spaventati, che parlavano a voce bassa. Nel mezzo c'erano tre guardie municipali, dietro alle guardie, due uomini che portavano una barella. I ragazzi accorsero da ogni parte. La folla s'avanzava verso di noi. Sulla barella c'era disteso un uomo, bianco come un cadavere, con la testa ripiegata sopra una spalla, coi capelli arruffati e insanguinati, che perdeva sangue dalla bocca e dalle orecchie; e accanto alla barella camminava una donna con un bimbo in braccio che pareva pazza e gridava di tratto in tratto: - È morto! È morto! È morto! - Dietro alla donna veniva un ragazzo, che aveva la cartella sotto il braccio, e singhiozzava. - Cos'è stato? - domandò mio padre. Un vicino rispose che era un muratore, caduto da un quarto piano, mentre lavorava. I portatori della barella si soffermarono un momento. Molti torsero il viso inorriditi. Vidi la maestrina della penna rossa che sorreggeva la mia maestra di prima superiore quasi svenuta. Nello stesso tempo mi sentii urtare nel gomito: era il muratorino, pallido, che tremava da capo a piedi. Egli pensava a suo padre, certo. Anch'io ci pensai. Io sto con l'animo in pace, almeno, quando sono a scuola, io so che mio padre è a casa, seduto a tavolino, lontano da ogni pericolo; ma quanti miei compagni pensano che i loro padri lavorano sopra un ponte altissimo o vicino alle ruote d'una macchina, e che un gesto, un passo falso può costar loro la vita! Sono come tanti figliuoli di soldati, che abbiano i loro padri in battaglia. Il muratorino guardava, guardava, e tremava sempre più forte, e mio padre se n'accorse e gli disse: - Vattene a casa, ragazzo, va subito da tuo padre, che lo troverai sano e tranquillo; va'! - Il muratorino se n'andò voltandosi indietro a ogni passo. E intanto la folla si rimise in moto, e la donna gridava, da straziar l'anima: - È morto! È morto! È morto! - No, no, non è morto, - le dicevan da tutte la parti. Ma essa non ci badava e si strappava i capelli. Quando sentii una voce sdegnata che disse: - Tu ridi! - e vidi nello stesso tempo un uomo barbuto che guardava in faccia Franti, il quale sorrideva ancora. Allora l'uomo gli cacciò in terra il berretto con un ceffone, dicendo: - Scopriti il capo, malnato, quando passa un ferito del lavoro! - La folla era già passata tutta, e si vedeva in mezzo alla strada una lunga striscia di sangue.
Il prigioniero
17, venerdì
Ah! questo è certamente il caso più strano di tutto l'anno! Mio padre mi condusse ieri mattina nei dintorni di Moncalieri, a vedere una villa da prendere a pigione per l'estate prossima, perché quest'anno non andiamo più a Chieri; e si trovò che chi aveva le chiavi era un maestro, il quale fa da segretario al padrone. Egli ci fece vedere la casa, e poi ci condusse nella sua camera, dove ci diede da bere. C'era sul tavolino, in mezzo ai bicchieri, un calamaio di legno, di forma conica, scolpito in una maniera singolare. Vedendo che mio padre lo guardava, il maestro gli disse: - Quel calamaio lì mi è prezioso: se sapesse, signore, la storia di quel calamaio! - E la raccontò: Anni sono, egli era maestro a Torino, e andò per tutto un inverno a far lezione ai prigionieri, nelle Carceri giudiziarie. Faceva lezione nella chiesa delle carceri, che è un edificio rotondo, e tutt'intorno, nel muri alti e nudi, ci son tanti finestrini quadrati, chiusi da due sbarre di ferro incrociate, a ciascuno dei quali corrisponde di dentro una piccolissima cella. Egli faceva lezione passeggiando per la chiesa fredda e buia, e i suoi scolari stavano affacciati a quelle buche, coi quaderni contro le inferriate, non mostrando altro che i visi nell'ombra, dei visi sparuti e accigliati, delle barbe arruffate e grigie, degli occhi fissi d'omicidi e di ladri. Ce n'era uno, fra gli altri, al numero 78, che stava più attento di tutti, e studiava molto, e guardava il maestro con gli occhi pieni di rispetto e di gratitudine. Era un giovane con la barba nera, più disgraziato che malvagio, un ebanista, il quale, in un impeto di collera, aveva scagliato una pialla contro il suo padrone, che da un pezzo lo perseguitava, e l'aveva ferito mortalmente al capo; e per questo era stato condannato a vari anni di reclusione. In tre mesi egli aveva imparato a leggere e a scrivere, e leggeva continuamente, e quanto più imparava, tanto più pareva che diventasse buono e che fosse pentito del suo delitto. Un giorno, sul finire della lezione, egli fece cenno al maestro che s'avvicinasse al finestrino, e gli annunziò, con tristezza, che la mattina dopo sarebbe partito da Torino, per andare a scontare la sua pena nelle carceri di Venezia; e dettogli addio, lo pregò con voce umile e commossa che si lasciasse toccare la mano. Il maestro ritirò la mano: era bagnata di lacrime. Dopo d'allora non lo vide più. Passarono sei anni. - «Io pensavo a tutt'altro che a quel disgraziato, - disse il maestro, - quando ieri l'altro mattina mi vedo capitare a casa uno sconosciuto, con una gran barba nera, già un po' brizzolata, vestito malamente; il quale mi dice: - È lei signore, il maestro tale dei tali? - Chi siete? - gli domando io - Sono il carcerato del numero 78, - mi riponde; - m'ha insegnato lei a leggere e a scrivere, sei anni fa: se si rammenta, all'ultima lezione m'ha dato la mano: ora ho scontato la mia pena e son qui... a pregarla che mi faccia la grazia d'accettare un mio ricordo, una cosuccia che ho lavorato in prigione. La vuol accettare per mia memoria, signor maestro? - Io rimasi lì, senza parola. Egli credette che non volessi accettare, e mi guardò, come per dire: - Sei anni di patimenti non sono dunque bastati a purgarmi le mani! - ma con espressione così viva di dolore mi guardò, che tesi subito la mano e presi l'oggetto. Eccolo qui.» Guardammo attentamente il calamaio: pareva stato lavorato con la punta d'un chiodo, con lunghissima pazienza; c'era su scolpita una penna a traverso a un quaderno, e scritto intorno: «Al mio maestro. - Ricordo del numero 78 - Sei anni» - E sotto, in piccoli caratteri: - «Studio e speranza...». Il maestro non disse altro; ce n'andammo. Ma per tutto il tragitto da Moncalieri a Torino, io non potei più levarmi dal capo quel prigionero affacciato al finestrino, quell'addio al maestro, quel povero calamaio lavorato in carcere, che diceva tante cose, e lo sognai la notte, e ci pensavo ancora questa mattina... quanto lontano dall'immaginare la sorpresa che m'aspettava alla scuola! Entrato appena nel mio nuovo banco, accanto a Derossi, e scritto il problema d'aritmetica dell'esame mensile, raccontai al mio compagno tutta la storia del prigioniero e del calamaio e come il calamaio era fatto, con la penna a traverso al quaderno, e quell'iscrizione intorno: - Sei anni! - Derossi scattò a quelle parole, e cominciò a guardare ora me ora Crossi, il figliuolo dell'erbivendola, che era nel banco davanti, con la schiena rivolta a noi, tutto assorto nel suo problema. - Zitto! - disse poi, a bassa voce, pigliandomi per un braccio. - Non sai? Crossi mi disse avant'ieri d'aver visto di sfuggita un calamaio di legno tra le mani di suo padre ritornato dall'America: un calamaio conico, lavorato a mano, con un quaderno e una penna: - è quello; - sei anni! - egli diceva che suo padre era in America: - era invece in prigione; - Crossi era piccolo al tempo del delitto, non si ricorda, sua madre lo ingannò, egli non sa nulla; non ci sfugga una sillaba di questo! - Io rimasi senza parola, con gli occhi fissi su Crossi. E allora Derossi risolvette il problema e lo passò sotto il banco a Crossi; gli diede un foglio di carta; gli levò di mano L'Infermiere di Tata, il racconto mensile, che il maestro gli aveva dato a ricopiare, per ricopiarlo lui in sua vece; gli regalò dei pennini, gli accarezzò la spalla, mi fece promettere sul mio onore che non avrei detto nulla a nessuno; e quando uscimmo dalla scuola mi disse in fretta: - Ieri suo padre è venuto a prenderlo, ci sarà anche questa mattina: fa come faccio io. Uscimmo nella strada, il padre di Crossi era là, un po' in disparte: un uomo con la barba nera, già un po' brizzolata, vestito malamente, con un viso scolorito e pensieroso. Derossi strinse la mano a Crossi; in modo da farsi vedere, e gli disse forte: - A riverderci, Crossi, - e gli passò la mano sotto mento, io feci lo stesso. Ma facendo quello, Derossi diventò color di porpora, io pure; e il padre di Crossi ci guardò attentamente, con uno sguardo benevolo; ma in cui traluceva un'espressione d'inquietudine e di sospetto, che ci mise freddo nel cuore.
L'infermiere di Tata
Racconto mensile
La mattina d'un giorno piovoso di marzo, un ragazzo vestito da
campagnuolo, tutto inzuppato d'acqua e infangato, con un involto
di panni sotto il braccio, si presentava al portinaio
dell'Ospedale maggiore di Napoli e domandava di suo padre,
presentando una lettera. Aveva un bel viso ovale d'un bruno
pallido, gli occhi pensierosi e due grosse labbra semiaperte, che
lasciavan vedere i denti bianchissimi. Veniva da un villaggio dei
dintorni di Napoli. Suo padre, partito di casa l'anno addietro
per andare a cercar lavoro in Francia, era tornato in Italia e
sbarcato pochi dì prima a Napoli, dove, ammalatosi
improvvisamente, aveva appena fatto in tempo a scrivere un rigo
alla famiglia per annunziarle il suo arrivo e dirle che entrava
all'ospedale. Sua moglie, desolata di quella notizia, non potendo
moversi di casa perché aveva una bimba inferma e un'altra al
seno, aveva mandato a Napoli il figliuolo maggiore, con qualche
soldo, ad assistere suo padre, il suo Tata, come là si
dice; il ragazzo aveva fatto dieci miglia di cammino.
Il portinaio, data un'occhiata alla lettera, chiamò un
infermiere e gli disse che conducesse il ragazzo dal padre.
- Che padre? - domandò l'infermiere.
Il ragazzo, tremante per il timore d'una trista notizia, disse il
nome.
L'infermiere non si rammentava quel nome.
- Un vecchio operaio venuto di fuori? - domandò.
- Operaio sì, - rispose il ragazzo, sempre più ansioso; non
tanto vecchio. Venuto di fuori, sì.
- Entrato all'ospedale quando? - domandò l'infermiere.
Il ragazzo diede uno sguardo alla lettera. - Cinque giorni fa,
credo.
L'infermiere stette un po' pensando; poi, come ricordandosi a un
tratto: - Ah! - disse, - il quarto camerone, il letto in fondo.
- È malato molto? Come sta? - domandò affannosamente il
ragazzo.
L'infermiere lo guardò, senza rispondere. Poi disse: - Vieni con
me.
Salirono due branche di scale, andarono in fondo a un largo
corridoio e si trovarono in faccia alla porta aperta d'un
camerone, dove s'allungavano due file di letti. - Vieni, -
ripeté l'infermiere, entrando. Il ragazzo si fece animo e lo
seguitò, gettando sguardi paurosi a destra e a sinistra, sui
visi bianchi e smunti dei malati, alcuni dei quali avevan gli
occhi chiusi, e parevano morti, altri guardavan per aria con gli
occhi grandi e fissi, come spaventati. Parecchi gemevano, come
bambini. Il camerone era oscuro, l'aria impregnata d'un odore
acuto di medicinali. Due suore di carità andavano attorno con
delle boccette in mano.
Arrivato in fondo al camerone, l'infermiere si fermò al
capezzale d'un letto, aperse le tendine e disse: - Ecco tuo
padre.
Il ragazzo diede in uno scoppio di pianto, e lasciato cadere
l'involto, abbandonò la testa sulla spalla del malato,
afferrandogli con una mano il braccio che teneva disteso immobile
sopra la coperta. Il malato non si scosse.
Il ragazzo si rialzò e guardò il padre, e ruppe in pianto
un'altra volta. Allora il malato gli rivolse uno sguardo lungo e
parve che lo riconoscesse. Ma le sue labbra non si muovevano.
Povero Tata, quanto era mutato! Il figliuolo non l'avrebbe
mai riconosciuto. Gli s'erano imbiancati i capelli, gli era
cresciuta la barba, aveva il viso gonfio, d'un color rosso
carico, con la pelle tesa e luccicante, gli occhi rimpiccioliti,
le labbra ingrossate, la fisionomia tutta alterata: non aveva
più di suo che la fronte e l'arco delle sopracciglia. Respirava
con affanno. - Tata, tata mio! - disse il ragazzo. - Son io, non
mi riconoscete? Sono Cicillo, il vostro Cicillo, venuto dal
paese, che m'ha mandato la mamma. Guardatemi bene, non mi
riconoscete? Ditemi una parola.
Ma il malato, dopo averlo guardato attentamente, chiuse gli
occhi.
- Tata! Tata! che avete? Sono il vostro figliuolo, Cicillo
vostro.
Il malato non si mosse più, e continuò a respirare
affannosamente.
Allora, piangendo, il ragazzo prese una seggiola, sedette e
stette aspettando, senza levar gli occhi dal viso di suo padre. -
Un medico passerà bene a far la visita, - pensava. - Egli mi
dirà qualche cosa. - E s'immerse ne' suoi pensieri tristi,
ricordando tante cose del suo buon padre, il giorno della
partenza, quando gli aveva dato l'ultimo addio sul bastimento, le
speranze che aveva fondato la famiglia su quel suo viaggio, la
desolazione di sua madre all'arrivo della lettera; e pensò alla
morte, vide suo padre morto, sua madre vestita di nero, la
famiglia nella miseria. E stette molto tempo così. Quando una
mano leggiera gli toccò una spalla, ed ei si riscosse: era una
monaca. - Che cos'ha mio padre? - le domandò subito. - È tuo
padre? - disse la suora, dolcemente. - Sì, è mio padre, son
venuto. Che cos'ha? - Coraggio, ragazzo, - rispose la suora; -
ora verrà il medico. - E s'allontanò, senza dir altro.
Dopo mezz'ora, sentì il tocco d'una campanella, e vide entrare
in fondo al camerone il medico, accompagnato da un assistente; la
suora e un infermiere li seguivano. Cominciaron la visita,
fermandosi a ogni letto. Quell'aspettazione pareva eterna al
ragazzo, e ad ogni passo del medico gli cresceva l'affanno.
Finalmente arrivò al letto vicino. Il medico era un vecchio alto
e curvo, col viso grave. Prima ch'egli si staccasse dal letto
vicino, il ragazzo si levò in piedi, e quando gli s'avvicinò,
si mise a piangere.
Il medico lo guardò.
- È il figliuolo del malato - disse la suora; - è arrivato
questa mattina dal suo paese.
Il medico gli posò una mano sulla spalla, poi si chinò sul
malato, gli tastò il polso, gli toccò la fronte, e fece qualche
domanda alla suora, la quale rispose: - nulla di nuovo. Rimase un
po' pensieroso, poi disse: - Continuate come prima.
Allora il ragazzo si fece coraggio e domandò con voce di pianto:
- Che cos'ha mio padre?
- Fatti animo, figliuolo, - rispose il medico, rimettendogli una
mano sulla spalla. - Ha una risipola facciale. È grave, ma c'è
ancora speranza. Assistilo. La tua presenza gli può far del
bene.
- Ma non mi riconosce! - esclamò il ragazzo in tuono desolato.
- Ti riconoscerà... domani, forse. Speriamo bene, fatti
coraggio.
Il ragazzo avrebbe voluto domandar altro; ma non osò. Il medico
passò oltre. E allora egli cominciò la sua vita d'infermiere.
Non potendo far altro accomodava le coperte al malato, gli
toccava ogni tanto la mano, gli cacciava i moscerini, si chinava
su di lui ad ogni gemito, e quando la suora portava da bere, le
levava di mano il bicchiere o il cucchiaio, e lo porgeva in sua
vece. Il malato lo guardava qualche volta; ma non dava segno di
riconoscerlo. Senonché il suo sguardo si arrestava sempre più a
lungo sopra di lui, specialmente quando si metteva agli occhi il
fazzoletto. E così passò il primo giorno. La notte il ragazzo
dormì sopra due seggiole, in un angolo del camerone, e la
mattina riprese il suo ufficio pietoso. Quel giorno parve che gli
occhi del malato rivelassero un principio di coscienza. Alla voce
carezzevole del ragazzo pareva che un'espressione vaga di
gratitudine gli brillasse un momento nelle pupille, e una volta
mosse un poco le labbra come se volesse dir qualche cosa. Dopo
ogni breve assopimento, riaprendo gli occhi, sembrava che
cercasse il suo piccolo infermiere. Il medico, ripassato due
volte, notò un poco di miglioramento. Verso sera, avvicinandogli
il bicchiere alle labbra, il ragazzo credette di veder guizzare
sulle sue labbra gonfie un leggerissimo sorriso. E allora
cominciò a riconfortarsi, a sperare. E con la speranza d'essere
inteso, almeno confusamente, gli parlava, gli parlava a lungo,
della mamma, delle sorelle piccole, del ritorno a casa, e lo
esortava a farsi animo, con parole calde e amorose. E benché
dubitasse sovente di non esser capito, pure parlava, perché gli
pareva che, anche non comprendendo, il malato ascoltasse con un
certo piacere la sua voce, quell'intonazione insolita di affetto
e di tristezza. E in quella maniera passò il secondo giorno, e
il terzo, e il quarto, in una vicenda di miglioramenti leggieri e
di peggioramenti improvvisi; e il ragazzo era così tutto assorto
nelle sue cure, che appena sbocconcellava due volte al giorno un
po' di pane e un po' di formaggio, che gli portava la suora, e
non vedeva quasi quel che seguiva intorno a lui, i malati
moribondi, l'accorrere improvviso delle suore di notte, i pianti
e gli atti di desolazione dei visitatori che uscivano senza
speranza, tutte quelle scene dolorose e lugubri della vita d'un
ospedale, che in qualunque altra occasione l'avrebbero sbalordito
e atterrito. Le ore, i giorni passavano, ed egli era sempre là
col suo Tata, attento, premuroso, palpitante ad ogni suo
sospiro e ad ogni suo sguardo, agitato senza riposo tra una
speranza che gli allargava l'anima e uno sconforto che gli
agghiacciava il cuore.
Il quinto giorno, improvvisamente, il malato peggiorò.
Il medico, interrogato, scrollò il capo, come per dire che era
finita, e il ragazzo s'abbandonò sulla seggiola, rompendo in
singhiozzi. Eppure una cosa lo consolava. Malgrado che
peggiorasse, a lui sembrava che il malato andasse riacquistando
lentamente un poco d'intelligenza. Egli guardava il ragazzo
sempre più fissamente e con un'espressione crescente di
dolcezza, non voleva più prender bevanda o medicina che da lui,
e sempre più spesso faceva quel movimento forzato delle labbra,
come se volesse pronunciare una parola; e lo faceva così
spiccato qualche volta, che il figliuolo gli afferrava il braccio
con violenza, sollevato da una speranza improvvisa, e gli diceva
con accento quasi di gioia: - Coraggio, coraggio, Tata, guarirai,
ce n'andremo, torneremo a casa con la mamma, ancora un po' di
coraggio!
Erano le quattro della sera, e allora appunto il ragazzo s'era
abbandonato a uno di quegli impeti di tenerezza e di speranza,
quando di là dalla porta più vicina del camerone udì un rumore
di passi, e poi una voce forte, due sole parole: - Arrivederci,
suora! - che lo fecero balzare in piedi, con un grido strozzato
nella gola. Nello stesso momento entrò nel camerone un uomo, con
un grosso involto alla mano, seguito da una suora.
Il ragazzo gettò un grido acuto e rimase inchiodato al suo
posto.
L'uomo si voltò, lo guardò un momento, gittò un grido
anch'egli: - Cicillo! - e si slanciò verso di lui.
Il ragazzo cadde fra le braccia di suo padre, soffocato. Le
suore, gl'infermieri, l'assistente accorsero, e rimasero lì,
pieni di stupore.
Il ragazzo non poteva raccogliere la voce.
- Oh Cicillo mio! - esclamò il padre, dopo aver fissato uno
sguardo attento sul malato, baciando e ribaciando il ragazzo. -
Cicillo, figliuol mio, come va questo? T'hanno condotto al letto
d'un altro. E io che mi disperavo di non vederti, dopo che mamma
scrisse: l'ho mandato. Povero Cicillo! Da quanti giorni sei qui?
Com'è andato questo imbroglio? Io me la son cavata con poco. Sto
bene in gamba, sai! E la mamma? E Concettella? E 'u nennillo,
come vanno? Io me n'esco dall'ospedale. Andiamo dunque. O signore
Iddio! Chi l'avrebbe mai detto!
Il ragazzo stentò a spiccicar quattro parole per dar notizie
della famiglia. - Oh come sono contento! - balbettò. - Come sono
contento! Che brutti giorni ho passati! E non rifiniva di baciar
suo padre.
Ma non si muoveva.
- Vieni dunque - gli disse il padre. - Arriveremo ancora a casa
stasera. Andiamo. - E lo tirò a sé.
Il ragazzo si voltò a guardare il suo malato.
- Ma... vieni o non vieni? - gli domandò il padre, stupito.
Il ragazzo diede ancora uno sguardo al malato, il quale, in quel
momento, aperse gli occhi e lo guardò fissamente.
Allora gli sgorgò dall'anima un torrente di parole. - No, Tata,
aspetta... ecco... non posso. C'è quel vecchio. Da cinque giorni
son qui. Mi guarda sempre. Credevo che fossi tu. Gli volevo bene.
Mi guarda, io gli do da bere, mi vuol sempre accanto, ora sta
molto male, abbi pazienza, non ho coraggio, non so, mi fa troppo
pena, tornerò a casa domani, lasciami star qui un altro po', non
va mica bene che lo lasci, vedi in che maniera mi guarda, io non
so chi sia, ma mi vuole, morirebbe solo, lasciami star qui, caro
Tata!
- Bravo, piccerello! - gridò l'assistente.
Il padre rimase perplesso, guardando il ragazzo; poi guardò il
malato. - Chi è? - domandò.
- Un contadino come voi - rispose l'assistente, - venuto di
fuori, entrato all'ospedale lo stesso giorno che c'entraste voi.
Lo portaron qui ch'era fuor di senso, e non poté dir nulla.
Forse ha una famiglia lontana, dei figliuoli. Crederà che sia un
dei suoi, il vostro.
Il malato guardava sempre il ragazzo.
Il padre disse a Cicillo: - Resta.
- Non ha più da restar che per poco, - mormorò l'assistente.
- Resta -, ripeté il padre. - Tu hai cuore. Io vado subito a
casa a levar di pena la mamma. Ecco uno scudo pei tuoi bisogni.
Addio, bravo figliuolo mio. A rivederci.
Lo abbracciò, lo guardò fisso, lo ribaciò in fronte, e partì.
Il ragazzo tornò accanto al letto, e l'infermo parve
racconsolato. E Cicillo ricominciò a far l'infermiere, non
piangendo più, ma con la stessa premura, con la stessa pazienza
di prima; ricominciò a dargli da bere, ad accomodargli le
coperte, a carezzargli la mano, a parlargli dolcemente, per
fargli coraggio. Lo assistette tutto quel giorno, lo assistette
tutta la notte, gli restò ancora accanto il giorno seguente. Ma
il malato s'andava sempre aggravando; il suo viso diventava color
violaceo, il suo respiro ingrossava, gli cresceva l'agitazione,
gli sfuggivan dalla bocca delle grida inarticolate, l'enfiagione
si faceva mostruosa. Alla visita della sera, il medico disse che
non avrebbe passata la notte. E allora Cicillo raddoppiò le sue
cure e non lo perdette più d'occhio un minuto. E il malato lo
guardava, lo guardava, e muoveva ancora le labbra, tratto tratto,
con un grande sforzo, come se volesse dir qualche cosa, e
un'espressione di dolcezza straordinaria passava a quando a
quando nei suoi occhi, che sempre più si rimpiccolivano e
s'andavano velando. E quella notte il ragazzo lo vegliò fin che
vide biancheggiare alle finestre il primo barlume di giorno, e
comparire la suora. La suora s'avvicinò al letto, diede
un'occhiata al malato e andò via a rapidi passi. Pochi momenti
dopo ricomparve col medico assistente e con un infermiere, che
portava una lanterna.
- È all'ultimo momento, - disse il medico.
Il ragazzo afferrò la mano del malato. Questi aprì gli occhi,
lo fissò, e li richiuse.
In quel punto parve al ragazzo di sentirsi stringere la mano.
- M'ha stretta la mano! - esclamò.
Il medico rimase un momento chino sul malato, poi s'alzò. La
suora staccò un crocifisso dalla parte.
- E morto! - gridò il ragazzo.
- Va', figliuolo, - disse il medico. - La tua santa opera è
compiuta. Va' e abbi fortuna, che la meriti. Dio ti proteggerà.
Addio.
La suora che s'era allontanata un momento, tornò con un
mazzettino di viole, tolte da un bicchiere sulla finestra, e lo
porse al ragazzo, dicendo: - Non ho altro da darti. Tieni questo
per memoria dell'ospedale.
- Grazie, - rispose il ragazzo, - pigliando il mazzetto con una
mano e asciugandosi gli occhi con l'altra; - ma ho tanta strada
da fare a piedi... lo sciuperei. - E sciolto il mazzolino
sparpagliò le viole sul letto, dicendo: - Le lascio per ricordo
al mio povero morto. Grazie, sorella. Grazie, signor dottore. -
Poi, rivolgendosi al morto: - Addio... - E mentre cercava un nome
da dargli, gli rivenne dal cuore alle labbra il dolce nome che
gli aveva dato per cinque giorni: - Addio, povero Tata!
Detto questo, si mise sotto il braccio il suo involtino di panni,
e a lenti passi, rotto dalla stanchezza, se n'andò. L'alba
spuntava.
L'officina
18, sabato
Precossi venne ieri sera a rammentarmi che andassi a vedere la sua officina, che è sotto nella strada, e questa mattina, uscendo con mio padre, mi ci feci condurre un momento. Mentre noi ci avvicinavamo all'officina, ne usciva di corsa Garoffi, con un pacco in mano, facendo svolazzare il suo gran mantello, che copre le mercanzie. Ah! ora lo so dove va a raspare la limatura di ferro, che vende per dei giornali vecchi, quel trafficone di Garoffi! Affacciandoci alla porta, vedemmo Precossi, seduto sur una torricella di mattoni, che studiava la lezione, col libro sulle ginocchia. S'alzò subito e ci fece entrare: era uno stanzone pien di polvere di carbone, colle pareti tutte irte di martelli, di tanaglie, di spranghe, di ferracci d'ogni forma, e in un angolo ardeva il fuoco d'un fornello, in cui soffiava un mantice, tirato da un ragazzo. Precossi padre era vicino all'incudine, e un garzone teneva una spranga di ferro nel fuoco. - Ah! eccolo qui, - disse il fabbro appena ci vide, levandosi la berretta, - il bravo ragazzo che regala i treni delle strade ferrate! È venuto a vedere un po' lavorare, non è vero? Eccolo servito sul momento. - E dicendo questo sorrideva, non aveva più quella faccia torva, quegli occhi biechi dell'altre volte. Il garzone gli porse una lunga spranga di ferro arroventata da un capo, e il fabbro l'appoggiò sull'incudine. Faceva una di quelle spranghe a voluta per le ringhiere a gabbia dei terrazzini. Alzò un grosso martello e cominciò a picchiare, spingendo la parte rovente ora di qua ora di là tra una punta dell'incudine e il mezzo, e rigirandola in vari modi, ed era una meraviglia a vedere come sotto ai colpi rapidi e precisi del martello il ferro s'incurvava, s'attorceva, pigliava via via la forma graziosa della foglia arricciata d'un fiore, come un cannello di pasta, ch'egli avesse modellato con le mani. E intanto il suo figliuolo ci guardava, con una cert'aria altera, come per dire: - Vedete come lavora mio padre! - Ha visto come si fa, il signorino? - mi domandò il fabbro, quand'ebbe finito, mettendomi davanti la spranga, che pareva il pastorale d'un vescovo. Poi la mise in disparte e ne ficcò un'altra nel fuoco. - Ben fatto davvero, - gli disse mio padre. E soggiunse: - Dunque... si lavora, eh? La buona voglia è tornata. - È tornata, sì - rispose l'operaio, asciugandosi il sudore, e arrossendo un poco. - E sa chi me l'ha fatta tornare? - Mio padre finse di non capire. - Quel bravo ragazzo, - disse il fabbro, accennando il figliuolo col dito, - quel bravo figliuolo là, che studiava e faceva onore a suo padre mentre suo padre... faceva baldoria e lo trattava come una bestia. Quando ho visto quella medaglia... Ah! il piccinetto mio, alto come un soldo di cacio, vieni un po' qua che ti guardi bene nel muso! - Il ragazzo corse subito, il fabbro lo prese e lo mise diritto sull'incudine, tenendolo sotto le ascelle, e gli disse: - Pulite un poco il frontespizio a questo bestione di babbo. - E allora Precossi coprì di baci il viso nero di suo padre fin che fu anche lui tutto nero. - Così va bene, - disse il fabbro, e lo rimise in terra. - Così va bene davvero, Precossi! - esclamò mio padre, contento. E detto a rivederci al fabbro e al figliuolo, mi condusse fuori. Mentre uscivo, Precossino mi disse: - Scusami, - e mi cacciò in tasca un pacchetto di chiodi; io l'invitai a venir a vedere il carnevale da casa mia. - Tu gli hai regalato il tuo treno di strada ferrata, - mi disse mio padre per la strada; - ma se fosse stato d'oro e pieno di perle, sarebbe stato ancora un piccolo regalo per quel santo figliuolo che ha rifatto il cuore a suo padre.
Il piccolo pagliaccio
20, lunedì
Tutta la città è in ribollimento per il carnevale, che è sul finire, in ogni piazza si rizzan baracche di saltimbanchi e giostre, e noi abbiamo sotto le finestre un circo di tela, dove dà spettacolo una piccola compagnia veneziana, con cinque cavalli. Il circo è nel mezzo della piazza, e in un angolo ci son tre carrozzoni grandi, dove i saltimbanchi dormono e si travestono; tre casette con le ruote, coi loro finestrini e un caminetto ciascuna, che fuma sempre; e tra finestrino e finestrino sono stese delle fasce da bambini. C'è una donna che allatta un putto, fa da mangiare e balla sulla corda. Povera gente! Si dice saltimbanco come un'ingiuria; eppure si guadagnano il pane onestamente, divertendo tutti; e come faticano! Tutto il giorno corrono tra il circo e i carrozzoni, in maglia, con questi freddi; mangian due bocconi a scappa e fuggi, in piedi, tra una rappresentazione e l'altra, e a volte, quando hanno già il circo affollato, si leva un vento che strappa le tele e spegne i lumi, e addio spettacolo! debbon rendere i denari e lavorar tutta la sera a rimetter su la baracca. Ci hanno due ragazzi che lavorano; e mio padre riconobbe il più piccolo mentre attraversava la piazza: è il figliuolo del padrone lo stesso che vedemmo fare i giochi a cavallo l'anno passato, in un circo di piazza Vittorio Emanuele. È cresciuto, avrà otto anni, è un bel ragazzo, un bel visetto rotondo e bruno di monello, con tanti riccioli neri che gli scappan fuori dal cappello a cono. È vestito da pagliaccio, ficcato dentro a una specie di saccone con le maniche, bianco ricamato di nero, e ha le scarpette di tela. È un diavoletto. Piace a tutti. Fa di tutto. Lo vediamo ravvolto in uno scialle, la mattina presto, che porta il latte alla sua casetta di legno; poi va a prendere i cavalli alla rimessa di via Bertola; tiene in braccio il bimbo piccolo; trasporta cerchi cavalletti, sbarre, corde; pulisce i carrozzoni, accende il fuoco, e nei momenti di riposo è sempre appiccicato a sua madre. Mio padre lo guarda sempre dalla finestra, e non fa che parlar di lui e dei suoi, che han l'aria di buona gente, e di voler bene ai figliuoli. Una sera ci siamo andati, al circo; faceva freddo, non c'era quasi nessuno; ma tanto il pagliaccino si dava un gran moto per tener allegra quella po' di gente: faceva dei salti mortali, s'attaccava alla coda dei cavalli, camminava con le gambe per aria, tutto solo, e cantava, sempre sorridente, col suo visetto bello e bruno; e suo padre che aveva un vestito rosso e i calzoni bianchi, con gli stivali alti e la frusta in mano, lo guardava; ma era triste. Mio padre n'ebbe compassione, e ne parlò il dì dopo col pittore Delis, che venne a trovarci. Quella povera gente s'ammazza a lavorare e fa così cattivi affari! Quel ragazzino gli piaceva tanto! Che cosa si poteva fare per loro? Il pittore ebbe un'idea. - Scrivi un bell'articolo sulla Gazzetta, - gli disse, - tu che sai scrivere: tu racconti i miracoli del piccolo pagliaccio e io faccio il suo ritratto; la Gazzetta la leggon tutti, e almeno per una volta accorrerà gente. - E così fecero. Mio padre scrisse un articolo, bello e pieno di scherzi, che diceva tutto quello che noi vediamo dalla finestra, e metteva voglia di conoscere e di carezzare il piccolo artista; e il pittore schizzò un ritrattino somigliante e grazioso, che fu pubblicato sabato sera. Ed ecco, alla rappresentazione di domenica, una gran folla che accorre al circo. Era annunziato: Rappresentazione a beneficio del pagliaccino; del pagliaccino, com'era chiamato nella Gazzetta. Mio padre mi condusse nei primi posti. Accanto all'entrata avevano affisso la Gazzetta. Il circo era stipato; molti spettatori avevano la Gazzetta in mano, e la mostravano al pagliaccino, che rideva e correva or dall'uno or dall'altro, tutto felice. Anche il padrone era contento. Figurarsi! Nessun giornale gli aveva mai fatto tanto onore, e la cassetta dei soldi era piena. Mi padre sedette accanto a me. Tra gli spettatori trovammo delle persone di conoscenza. C'era vicino all'entrata dei cavalli, in piedi, il maestro di Ginnastica, quello che è stato con Garibaldi; e in faccia a noi, nei secondi posti, il muratorino, col suo visetto tondo, seduto accanto a quel gigante di suo padre... e appena mi vide, mi fece il muso di lepre. Un po' più in là vidi Garoffi, che contava gli spettatori, calcolando sulle dita quanto potesse aver incassato la Compagnia. C'era anche nelle seggiole dei primi posti, poco lontano da noi, il povero Robetti, quello che salvò il bimbo dall'omnibus, con le sue stampelle fra le ginocchia, stretto al fianco di suo padre, capitano d'artiglieria, che gli teneva una mano sulla spalla. La rappresentazione cominciò. Il pagliaccino fece meraviglie sul cavallo, sul trapezio e sulla corda, e ogni volta che saltava giù, tutti gli battevan le mani e molti gli tiravano i riccioli. Poi fecero gli esercizi vari altri, funamboli, giocolieri e cavallerizzi, vestiti di cenci e scintillanti d'argento. Ma quando non c'era il ragazzo, pareva che la gente si seccasse. A un certo punto vidi il maestro di ginnastica, fermo all'entrata dei cavalli, che parlò nell'orecchio del padrone del circo, e questi subito girò lo sguardo sugli spettatori, come se cercasse qualcuno. Il suo sguardo si fermò su di noi. Mio padre se ne accorse, capì che il maestro aveva detto ch'era lui l'autor dell'articolo, e per non esser ringraziato se ne scappò via, dicendomi: - Resta, Enrico; io t'aspetto fuori. - Il pagliaccino, dopo aver scambiato qualche parola col suo babbo, fece ancora un esercizio: ritto sul cavallo che galoppava, si travestì quattro volte, da pellegrino, da marinaio, da soldato, da acrobata, e ogni volta che mi passava vicino, mi guardava. Poi, quando scese, cominciò a fare il giro del circo col cappello da pagliaccio tra le mani, e tutti ci gettavan dentro soldi e confetti. Io tenni pronti due soldi; ma quando fu in faccia a me, invece di porgere il cappello, lo tirò indietro, mi guardò e passò avanti. Rimasi mortificato. Perché m'aveva fatto quello sgarbo? La rappresentazione terminò, il padrone ringraziò il pubblico, e tutta la gente s'alzò, affollandosi verso l'uscita. Io ero confuso tra la folla, e stavo già per uscire, quando mi sentii toccare una mano. Mi voltai: era il pagliaccino, col suo bel visetto bruno e i suoi riccioli neri, che mi sorrideva: aveva le mani piene di confetti. Allora capii. - Voresistu - mi disse - agradir sti confeti del pagiazzeto? - Io accennai di sì, e ne presi tre o quattro. - Alora, - soggiunse - ciapa anca un baso. - Dammene due -, risposi, e gli porsi il viso. Egli si pulì con la manica la faccia infarinata, mi pose un braccio intorno al collo, e mi stampò due baci sulle guance, dicendomi: - Tò, e portighene uno a to pare.
L'ultimo giorno di carnevale
21, martedì
Che triste scena vedemmo oggi al corso delle maschere! Finì bene; ma poteva seguire una grande disgrazia. In piazza San Carlo, tutta decorata di festoni gialli, rossi e bianchi, s'accalcava una grande moltitudine; giravan maschere d'ogni colore; passavano carri dorati e imbandierati, della forma di padiglioni di teatrini e di barche, pieni d'arlecchini e di guerrieri, di cuochi, di marinai e di pastorelle; era una confusione da non saper dove guardare; un frastuono di trombette, di corni e di piatti turchi che lacerava le orecchie; e le maschere dei carri trincavano e cantavano, apostrofando la gente a piedi e la gente alle finestre, che rispondevano a squarciagola, e si tiravano a furia arancie e confetti; e al di sopra delle carrozze e della calca, fin dove arrivava l'occhio, si vedevano sventolar bandierine, scintillar caschi, tremolare pennacchi, agitarsi testoni di cartapesta, gigantesche cuffie, tube enormi, armi stravaganti, tamburelli, crotali, berrettini rossi e bottiglie: parevan tutti pazzi. Quando la nostra carrozza entrò nella piazza, andava dinanzi a noi un carro magnifico, tirato da quattro cavalli coperti di gualdrappe ricamate d'oro, e tutto inghirlandato di rose finte, sul quale c'erano quattordici o quindici signori, mascherati da gentiluomini della corte di Francia, tutti luccicanti di seta, col parruccone bianco, un cappello piumato sotto il braccio e lo spadino, e un arruffio di nastri e di trine sul petto: bellissimi. Cantavano tutti insieme una canzonetta francese, e gettavan dolci alla gente, e la gente batteva le mani e gridava. Quando a un tratto, sulla nostra sinistra, vedemmo un uomo sollevare sopra le teste della folla una bambina di cinque o sei anni, una poverella che piangeva disperatamente, agitando le braccia, come presa dalle convulsioni. L'uomo si fece largo verso il carro dei signori, uno di questi si chinò, e quell'altro disse forte: - Prenda questa bimba, ha perduto sua madre nella folla, la tenga in braccio; la madre non può essere lontana, e la vedrà, non c'è altra maniera. - Il signore prese la bimba in braccio; tutti gli altri cessarono di cantare, la bimba urlava e si dibatteva, il signore si tolse la maschera; il carro continuò a andare lentamente. In quel mentre, come ci fu detto poi, all'estremità opposta della piazza, una povera donna mezzo impazzita rompeva la calca a gomitate e a spintoni, urlando: - Maria! Maria! Maria! Ho perduto la mia figliuola! Me l'hanno rubata! Mi hanno soffocato la mia bambina! - E da un quarto d'ora smaniava, si disperava a quel modo, andando un po' di qua e un po' di là, oppressa dalla folla, che stentava ad aprirle il passo. Il signore del carro, intanto, si teneva la bimba stretta contro i nastri e le trine del petto, girando lo sguardo per la piazza, e cercando di quietare la povera creatura, che si copriva il viso con le mani, non sapendo dove fosse, e singhiozzava da schiantarsi il cuore. Il signore era commosso, si vedeva che quelle grida gli andavano all'anima; tutti gli altri offrivano alla bimba arancie e confetti; ma quella respingeva tutto, sempre più spaventata e convulsa. - Cercate la madre! gridava il signore alla folla, - cercate la madre! - E tutti si voltavano a destra e a sinistra; ma la madre non si trovava. Finalmente, a pochi passi dall'imboccatura di via Roma, si vide una donna slanciarsi verso il carro... Ah! mai più la dimenticherò! Non pareva più una creatura umana, aveva i capelli sciolti, la faccia sformata, le vesti lacere, si slanciò avanti mettendo un rantolo che non si capì se fosse di gioia, d'angoscia o di rabbia, e avventò le mani come due artigli per afferrar la figliuola. Il carro si fermò. - Eccola qui -, disse il signore, porgendo la bimba, dopo averla baciata, e la mise tra le braccia di sua madre, che se la strinse al seno come una furia... Ma una delle due manine restò un minuto secondo tra le mani del signore, e questi strappatosi dalla destra un anello d'oro con un grosso diamante, e infilatolo con un rapido movimento in un dito della piccina: - Prendi, - le disse, - sarà la tua dote di sposa. - La madre restò lì come incantata, la folla proruppe in applausi, il signore si rimise la maschera, i suoi compagni ripresero il canto, e il carro ripartì lentamente in mezzo a una tempesta di battimani e d'evviva.
I ragazzi ciechi
23, giovedì
Il maestro è molto malato e mandarono in vece sua quello
della quarta, che è stato maestro nell'Istituto dei ciechi; il
più vecchio di tutti, così bianco che par che abbia in capo una
parrucca di cotone, e parla in un certo modo, come se cantasse
una canzone malinconica; ma bene, e sa molto. Appena entrato
nella scuola, vedendo un ragazzo con un occhio bendato,
s'avvicinò al banco e gli domandò che cos'aveva. - Bada agli
occhi, ragazzo, - gli disse. - E allora Derossi gli domandò: -
È vero, signor maestro, che è stato maestro dei ciechi? - Sì,
per vari anni, - rispose. E Derossi disse a mezza voce: - Ci dica
qualche cosa.
Il maestro s'andò a sedere a tavolino.
Coretti disse forte: - L'istituto dei ciechi è in via Nizza.
- Voi dite ciechi, ciechi, - disse il maestro, - così, come
direste malati e poveri o che so io. Ma capite bene il
significato di quella parola? Pensateci un poco. Ciechi! Non
veder nulla, mai! Non distinguere il giorno dalla notte, non
veder né il cielo né il sole né i propri parenti, nulla di
tutto quello che s'ha intorno e che si tocca; essere immersi in
una oscurità perpetua, e come sepolti nelle viscere della terra!
Provate un poco a chiudere gli occhi e a pensare di dover
rimanere per sempre così: subito vi prende un affanno, un
terrore, vi pare che vi sarebbe impossibile di resistere, che vi
mettereste a gridare, che impazzireste o morireste. Eppure...
poveri ragazzi, quando s'entra per la prima volta nell'Istituto
dei ciechi, durante la ricreazione, a sentirli suonar violini e
flauti da tutte le parti, e parlar forte e ridere, salendo e
scendendo le scale a passi lesti, e girando liberamente per i
corridoi e pei dormitori, non si direbbe mai che son quegli
sventurati che sono. Bisogna osservarli bene. C'è dei giovani di
sedici o diciott'anni, robusti e allegri, che portano la cecità
con una certa disinvoltura, con una certa baldanza quasi; ma si
capisce dall'espressione risentita e fiera dei visi, che debbono
aver sofferto tremendamente prima di rassegnarsi a quella
sventura. Ce n'è altri, dei visi pallidi e dolci, in cui si vede
una grande rassegnazione; ma triste, e si capisce che qualche
volta, in segreto, debbono piangere ancora. Ah! figliuoli miei.
Pensate che alcuni di essi hanno perduto la vista in pochi
giorni, che altri l'han perduta dopo anni di martirio, e molte
operazioni chirurgiche terribili, e che molti son nati così,
nati in una notte che non ebbe mai alba per loro, entrati nel
mondo come in una tomba immensa, e che non sanno come sia fatto
il volto umano! Immaginate quanto debbono aver sofferto e quanto
debbono soffrire quando pensano così, confusamente, alla
differenza tremenda che passa fra loro e quelli che ci vedono, e
domandano a sé medesimi: - Perché questa differenza se non
abbiamo alcuna colpa? - Io che son stato vari anni fra loro,
quando mi ricordo quella classe, tutti quegli occhi suggellati
per sempre, tutte quelle pupille senza sguardo e senza vita, e
poi guardo voi altri... mi pare impossibile che non siate tutti
felici. Pensate: ci sono circa ventisei mila ciechi in Italia!
Ventisei mila persone che non vedono luce, capite; un esercito
che c'impiegherebbe quattro ore a sfilare sotto le nostre
finestre!
Il maestro tacque; non si sentiva un alito nella scuola. Derossi
domandò se era vero che i ciechi hanno il tatto più fino di
noi.
Il maestro disse: - È vero. Tutti gli altri sensi si raffinano
in loro, appunto perché, dovendo supplire fra tutti a quello
della vista, sono più e meglio esercitati di quello che non
siano da chi ci vede. La mattina, nei dormitori, l'uno domanda
all'altro: - C'è il sole? - e chi è più lesto a vestirsi
scappa subito nel cortile ad agitar le mani per aria, per sentire
se c'è il tepore del sole, e corre a dar la buona notizia: -
C'è il sole! - Dalla voce d'una persona si fanno un'idea della
statura; noi giudichiamo l'animo d'un uomo dall'occhio, essi
dalla voce; ricordano le intonazioni e gli accenti per anni.
S'accorgono se in una stanza c'è più d'una persona, anche se
una sola parla, e le altre restano immobili. Al tatto s'accorgono
se un cucchiaio è poco o molto pulito. Le bimbe distinguono la
lana tinta da quella di color naturale. Passando a due a due per
le strade, riconoscono quasi tutte le botteghe all'odore, anche
quelle in cui noi non sentiamo odori. Tirano la trottola, e a
sentire il ronzìo che fa girando, vanno diritti a pigliarla
senza sbagliare. Fanno correre il cerchio, giocano ai birilli,
saltano con la funicella, fabbricano casette coi sassi, colgono
le viole come se le vedessero, fanno stuoie e canestrini
intrecciando paglia di vari colori, speditamente e bene; tanto
hanno il tatto esercitato! Il tatto è la loro vista, è uno dei
più grandi piaceri per loro quello di toccare, di stringere,
d'indovinare la forma delle cose tastandole. È commovente
vederli, quando li conducono al museo industriale, dove li
lascian toccare quello che vogliono, veder con che festa si
gettano sui corpi geometrici, sui modellini di case, sugli
strumenti, con che gioia palpano, stropicciano, rivoltano fra le
mani tutte le cose, per vedere come son fatte. Essi dicono vedere!
Garoffi interruppe il maestro per domandargli se era vero che i
ragazzi ciechi imparano a far di conto meglio degli altri.
Il maestro rispose: - È vero. Imparano a far di conto e a
leggere. Hanno dei libri fatti apposta, coi caratteri rilevati;
ci passano le dita sopra, riconoscon le lettere, e dicon le
parole; leggono corrente. E bisogna vedere, poveretti, come
arrossiscono quando commettono uno sbaglio. E scrivono pure,
senza inchiostro. Scrivono sur una carta spessa e dura con un
punteruolo di metallo che fa tanti punticini incavati e
aggrappati secondo un alfabeto speciale; i quali punticini
riescono in rilievo sul rovescio della carta per modo che
voltando il foglio e strisciando le dita su quei rilievi, essi
possono leggere quello che hanno scritto, ed anche la scrittura
d'altri, e così fanno delle composizioni, e si scrivono delle
lettere fra loro. Nella stessa maniera scrivono i numeri e fanno
i calcoli. E calcolano a mente con una facilità incredibile, non
essendo divagati dalla vista delle cose, come siamo noi. E se
vedeste come sono appassionati per sentir leggere, come stanno
attenti, come ricordano tutto, come discutono fra loro, anche i
piccoli, di cose di storia e di lingua, seduti quattro o cinque
sulla stessa panca, senza voltarsi l'un verso l'altro, e
conversando il primo col terzo, il secondo col quarto, ad alta
voce e tutti insieme, senza perdere una sola parola, da tanto che
han l'orecchio acuto e pronto! E danno più importanza di voi
altri agli esami, ve lo assicuro, e s'affezionano di più ai loro
maestri. Riconoscono il maestro al passo e all'odore; s'accorgono
se è di buono o cattivo umore, se sta bene o male, nient'altro
che dal suono d'una sua parola; vogliono che il maestro li
tocchi, quando gli incoraggia e li loda, e gli palpan le mani e
le braccia per esprimergli la loro gratitudine. E si voglion bene
anche fra loro, sono buoni compagni. Nel tempo della ricreazione
sono quasi sempre insieme quei soliti. Nella sezione delle
ragazze, per esempio, formano tanti gruppi, secondo lo strumento
che suonano, le violiniste, le pianiste, le suonatrici di flauto,
e non si scompagnano mai. Quando hanno posto affetto a uno, è
difficile che se ne stacchino. Trovano un gran conforto
nell'amicizia. Si giudicano rettamente, fra loro. Hanno un
concetto chiaro e profondo del bene e del male. Nessuno s'esalta
come loro al racconto d'un'azione generosa o d'un fatto grande.
Votini domandò se suonano bene.
- Amano la musica ardentemente, - rispose il maestro. - È la
loro gioia, è la loro vita la musica. Dei ciechi bambini, appena
entrati nell'Istituto, son capaci di star tre ore immobili in
piedi a sentir sonare. Imparano facilmente, suonano con passione.
Quando il maestro dice a uno che non ha disposizione alla musica,
quegli ne prova un grande dolore, ma si mette a studiare
disperatamente. Ah! se udiste la musica là dentro se li vedeste
quando suonano colla fronte alta col sorriso sulle labbra, accesi
nel viso, tremanti dalla commozione, estatici quasi ad ascoltar
quell'armonia che rispandono nell'oscurità infinita che li
circonda, come sentireste che è una consolazione divina la
musica! E giubilano, brillano di felicità quando un maestro dice
loro: - Tu diventerai un artista. - Per essi il primo nella
musica, quello che riesce meglio di tutti al pianoforte o al
violino, è come un re; lo amano, lo venerano. Se nasce un
litigio fra due di loro, vanno da lui; se due amici si guastano,
è lui che li riconcilia. I più piccini, a cui egli insegna a
sonare, lo tengono come un padre. Prima d'andare a dormire, vanno
tutti a dargli la buona notte. E parlano continuamente di musica.
Sono già a letto, la sera tardi, quasi tutti stanchi dallo
studio e dal lavoro, e mezzo insonniti; e ancora discorrono a
bassa voce di opere, di maestri, di strumenti, d'orchestre. Ed è
un castigo così grande per essi l'esser privati della lettura o
della lezione di musica, ne soffrono tanto dolore, che non s'ha
quasi mai il coraggio di castigarli in quel modo. Quello che la
luce è per i nostri occhi, la musica è per il loro cuore.
Derossi domandò se non si poteva andarli a vedere.
- Si può, - rispose il maestro; - ma voi, ragazzi, non ci dovete
andare per ora. Ci andrete più tardi, quando sarete in grado di
capire tutta la grandezza di quella sventura, e di sentire tutta
la pietà che essa merita. È uno spettacolo triste, figliuoli.
Voi vedete là qualche volta dei ragazzi seduti di contro a una
finestra spalancata, a godere l'aria fresca, col viso immobile,
che par che guardino la grande pianura verde e le belle montagne
azzurre che vedete voi...; e a pensare che non vedon nulla, che
non vedranno mai nulla di tutta quella immensa bellezza, vi si
stringe l'anima come se fossero diventati ciechi in quel punto. E
ancora i ciechi nati, che non avendo mai visto il mondo, non
rimpiangono nulla, perché hanno l'immagine d'alcuna cosa, fanno
meno compassione. Ma c'è dei ragazzi ciechi da pochi mesi, che
si ricordano ancora di tutto, che comprendono bene tutto quello
che han perduto, e questi hanno di più il dolore di sentirsi
oscurare nella mente, un poco ogni giorno, le immagini più care,
di sentirsi come morire nella memoria le persone più amate. Uno
di questi ragazzi mi diceva un giorno con una tristezza
inesprimibile: - Vorrei ancora aver la vista d'una volta, appena
un momento, per rivedere il viso della mamma, che non lo ricordo
più - E quando la mamma va a trovarli, le mettono le mani sul
viso, la toccano bene dalla fronte al mento e alle orecchie, per
sentir com'è fatta, e quasi non si persuadono di non poterla
vedere, e la chiamano per nome molte volte come per pregarla che
si lasci, che si faccia vedere una volta. Quanti escono di là
piangendo, anche uomini di cuor duro! E quando s'esce, ci pare
un'eccezione la nostra, un privilegio quasi non meritato di veder
la gente, le case, il cielo. Oh! non c'è nessuno di voi, ne son
certo, che uscendo di là non sarebbe disposto a privarsi d'un
po' della propria vista per darne un barlume almeno a tutti quei
poveri fanciulli, per i quali il sole non ha luce e la madre non
ha viso!
Il maestro malato
25, sabato
Ieri sera, uscendo dalla scuola, andai a visitare il mio maestro malato. Dal troppo lavorare s'è ammalato. Cinque ore di lezione al giorno, poi un'ora di ginnastica, poi altre due ore di scuola serale, che vuol dire dormir poco, mangiare di scappata e sfiatarsi dalla mattina alla sera: s'è rovinata la salute. Così dice mia madre. Mia madre m'aspettò sotto il portone, io salii solo, e incontrai per le scale il maestro della barbaccia nera, - Coatti, - quello che spaventa tutti e non punisce nessuno, egli mi guardò con gli occhi larghi e fece la voce del leone, per celia, ma senza ridere. Io ridevo ancora tirando il campanello, al quarto piano; ma rimasi male subito, quando la serva mi fece entrare in una povera camera, mezz'oscura, dove era coricato il mio maestro. Era in un piccolo letto di ferro, aveva la barba lunga. Si mise una mano alla fronte, per vederci meglio, ed esclamò con la sua voce affettuosa: - Oh Enrico! - Io m'avvicinai al letto, egli mi pose una mano sulla spalla, e disse: - Bravo, figliuolo. Hai fatto bene a venir a trovare il tuo povero maestro. Son ridotto a mal partito, come vedi, caro il mio Enrico. E come va la scuola? come vanno i compagni? Tutto bene, eh? anche senza di me. Ne fate di meno benissimo, è vero? del vostro vecchio maestro. - Io volevo dir di no; egli m'interruppe: - Via, via, lo so che non mi volete male. - E mise un sospiro. Io guardavo certe fotografie attaccate alla parete. - Vedi? - egli mi disse. - Son tutti ragazzi che m'han dato i loro ritratti, da più di vent'anni in qua. Dei buoni ragazzi, son le mie memorie quelle. Quando morirò, l'ultima occhiata la darò lì, a tutti quei monelli, fra cui ho passata la vita. Mi darai il ritratto tu pure, non è vero, quando avrai finito le elementari? Poi prese un'arancia sul tavolino da notte e me la mise in mano. - Non ho altro da darti, - disse, - è un regalo da malato. - Io lo guardavo e avevo il cuor triste, non so perché. - Bada eh... - riprese a dire - io spero di cavarmela; ma se non guarissi più... vedi di fortificarti nell'aritmetica, che è il tuo debole; fa' uno sforzo! non si tratta che d'un primo sforzo perché, alle volte, non è mancanza di attitudine, è un preconcetto, è come chi dicesse una fissazione. - Ma intanto respirava forte, si vedeva che soffriva. - Ho una febbraccia, - sospirò, - son mezz'andato. Mi raccomando, dunque. Battere sull'aritmetica, sui problemi. Non riesce alla prima? Si riposa un po' e poi si ritenta. Non riesce ancora? Un altro po' di riposo e poi daccapo. E avanti, ma tranquillamente, senza affannarsi, senza montarsi la testa. Va'. Saluta la mamma. E non rifar più le scale, ci rivedremo alla scuola. E se non ci rivedremo, ricordati qualche volta del tuo maestro di terza, che t'ha voluto bene. - A quelle parole mi venne da piangere. - China la testa, - egli mi disse. Io chinai la testa sul cappezzale; egli mi baciò sui capelli. Poi mi disse: - Va', - e voltò il viso verso il muro. E io volai giù per le scale perché avevo bisogno d'abbracciar mia madre.
La strada
25, sabato
Io t'osservavo dalla finestra, questa sera, quando tornavi
da casa del maestro, tu hai urtato una donna. Bada meglio a come
cammini per la strada. Anche lì ci sono dei doveri. Se misuri i
tuoi passi e i tuoi gesti in una casa privata, perché non
dovresti far lo stesso nella strada, che è la casa di tutti?
Ricordati, Enrico. Tutte le volte che incontri un vecchio
cadente, un povero, un donna con un bimbo in braccio, uno storpio
con le stampelle, un uomo curvo sotto un carico, una famiglia
vestita a lutto, cedile il passo con rispetto: noi dobbiamo
rispettare la vecchiaia, la miseria, l'amor materno,
l'infermità, la fatica, la morte.
Ogni volta che vedi una persona a cui arriva addosso una
carrozza, tiralo via, se è un fanciullo, avvertilo, se è un
uomo; domanda sempre che cos'ha al bambino che piange, raccogli
il bastone al vecchio che l'ha lasciato cadere. Se due fanciulli
rissano, dividili, se son due uomini allontànati, non assistere
allo spettacolo della violenza brutale, che offende e indurisce
il cuore. E quando passa un uomo legato fra due guardie, non
aggiungere la tua alla curiosità crudele della folla: egli può
essere un innocente. Cessa di parlar col tuo compagno e di
sorridere quando incontri una lettiga d'ospedale, che porta forse
un moribondo, o un convoglio mortuario, ché ne potrebbe uscir
uno domani di casa tua. Guarda con riverenza tutti quei ragazzi
degli istituti che passano a due a due: i cechi, i muti, i
rachitici, gli orfani, i fanciulli abbandonati: pensa che è la
sventura e la carità umana che passa. Fingi sempre di non vedere
chi ha una deformità ripugnante o ridicola. Spegni sempre ogni
fiammifero acceso che tu trovi sui tuoi passi, che potrebbe
costar la vita a qualcuno. Rispondi sempre con gentilezza al
passeggiero che ti domanda la via. Non guardar nessuno ridendo,
non correre senza bisogno, non gridare. Rispetta la strada.
L'educazione d'un popolo si giudica innanzi tutto dal contegno
ch'egli tien per la strada. Dove troverai la villania per le
strade, troverai la villania nelle case. E studiale, le strade,
studia la città dove vivi; se domani tu ne fossi sbalestrato
lontano, saresti lieto d'averla presente bene alla memoria, di
poterla ripercorrere tutta col pensiero, - la tua città, la tua
piccola patria, - quella che è stata per tanti anni il tuo
mondo, - dove hai fatto i primi passi al fianco di tua madre,
provato le prime commozioni, aperto la mente alle prime idee,
trovato i primi amici. Essa è stata una madre per te: t'ha
istruito, dilettato, protetto. Studiala nelle sue strade e nella
sua gente, - ed amala, - e quando la senti ingiuriare, difendila.
TUO PADRE
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