Di là andarono alla Festa dello Spirito Santo. Il
cieco sapeva bene il tempo d'ogni festa e l'itinerario da seguire
ed era lui che guidava il compagno.
Passando per Nuoro Efix lo condusse verso il Molino,
lo lasciò appoggiato a un muro e andò a salutare Giacinto.
«Parto per luoghi lontani. Addio. Ricorda la tua
promessa.»
Giacinto pesava un sacco di orzo macinato; sollevò
gli occhi con le palpebre bianche di farina e sorrise.
«Che promessa?»
«Di pesar bene», disse Efix, e se ne andò.
Pesato il sacco, Giacinto balzò fuori e vide i due
mendicanti allontanarsi tenendosi per mano pallidi e tremuli
tutti e due come malati. Chiamò, ma Efix gli fece solo un segno
di addio senza voltarsi.
Appena fuori del paese cominciarono le questioni,
perché il cieco, sebbene avesse la bisaccia colma di roba,
voleva chiedere l'elemosina ai passanti, mentre Efix osservava:
«Perché chiedere, se ce ne abbiamo?».
«E domani? Tu non pensi al domani? E che mendicante
sei tu? Si vede che sei nuovo.»
Allora Efix s'accorse che non voleva chiedere perché
si vergognava, e arrossì della sua vergogna.
Il tempo s'era fatto cattivo. Verso sera cominciò a
piovere e i due compagni s'avvicinarono a una capanna di pastori;
ma dentro non li vollero, e dovettero ripararsi sotto una tettoia
di frasche a fianco della mandria. I cani abbaiavano, un velo
triste circondava tutta la pianura umida, e la pioggia e il vento
smorzavano il fuocherello che Efix tentava di accendere.
Il cieco restava impassibile, fermo sotto la sua
maschera dolorosa. Seduto - non si coricava mai - con le braccia
intorno alle ginocchia, coi grandi denti gialli lucidi al
riflesso del fuoco, le palpebre violette abbassate, continuava a
raccontare le sue storie.
«Tu devi sapere che tredici anni belli e lunghi
occorsero per fabbricare la casa del Re Salomone. Era in un bosco
chiamato il Libano, per le piante alte di cedro che là
crescevano. Luogo fresco. E tutta questa casa era fatta di
colonne d'oro e d'argento, con le travi di legno forte lavorato,
e il pavimento di marmo come nelle chiese; in mezzo alla casa
c'era un cortile con una fontana che dava acqua giorno e notte, e
i muri erano tutti di pietre fini, segate a pezzi uguali come
mattoni. Le ricchezze che c'eran dentro non si possono contare: i
piatti erano d'oro, i vasi d'oro, e tutta la casa era ornata di
melagrane e di gigli d'oro; anche i collari dei cani eran d'oro e
le bardature dei cavalli d'argento e le coperte di scarlatto. E
venne la regina Saba, la quale aveva sentito raccontare di queste
cose fino all'altro capo del mondo, ed era gelosa, perché ricca
anche lei, e voleva vedere chi era più ricco. Le donne son
curiose...»
Uno dei pastori, attirato dai racconti del cieco,
s'avvicinò alla tettoia correndo curvo per non bagnarsi. I
compagni lo imitarono.
Eccitato dal successo il cieco si animò, si
sollevò, raccontò la storia di Tamar e delle frittelle.
I pastori ridevano, dandosi qualche gomitata sui
fianchi: portarono latte, pane, diedero monete al cieco.
Ma Efix era triste, e appena furono soli sgridò il
compagno per la sua malizia e il cattivo esempio.
«Tu parli come parlava mia madre», disse il cieco,
e si addormentò sotto la pioggia.
Alla Festa dello Spirito Santo c'era poca gente ma
scelta. Erano ricchi pastori con le mogli grasse e le belle
figlie svelte: arrivavano a cavallo, fieri e bruni gli uomini,
coi lunghi coltelli infilati alla cintura nelle guaine di cuoio
inciso, i giovani alti, coi denti e il bianco degli occhi
scintillante, agili come beduini: le fanciulle pieghevoli, soavi
come le figure bibliche evocate dal cieco.
Il tempo era sempre nebbioso, e intorno alla
chiesetta, bruna fra le pietre e le macchie della pianura era un
silenzio infinito, un odore aspro di boschi. Il correre delle
nuvole sul cielo grigio, dava al luogo un aspetto ancora più
fantastico.
Per tutta la mattina fu uno sbucare di uomini a
cavallo, dal sentiero nebbioso; smontavano taciturni, come per un
convegno segreto in quel punto lontano del mondo. Ad Efix, seduto
col cieco sull'ingresso della chiesa, pareva di sognare.
Anche qui non c'erano altri mendicanti, ed egli
provava un vago senso di paura quando gli uomini forti e superbi,
dalla cui bocca e dalle narici usciva un vapore di vita, gli
passavano davanti: un senso di paura e di vergogna, e anche
d'invidia. Quelli erano uomini; le loro mani sembravano artigli
pronti ad afferrare la fortuna al suo passaggio. Parevano tutti
banditi, esseri superiori alla legge: non si pentivano certo
delle loro colpe, se ne avevano, non si tormentavano se si erano
fatta giustizia da sé, nella vita. Gli pareva che lo guardassero
con disdegno, buttandogli la moneta, che si vergognassero di lui
come uomo e stessero per rimuoverlo col piede al loro passaggio,
come uno straccio sporco.
Ma poi guardava lontano: al di là della nebbia gli
sembrava cominciasse un altro mondo, e si aprisse la porta di cui
parlava il cieco; la grande porta dell'eternità. E si pentiva
della sua vergogna.
Al suo fianco il compagno continuava a chiedere
l'elemosina declamando, o si rivolgeva a lui perché i passanti
ascoltassero:
«Che facciamo noi in questa vita, di peso ai pietosi
che ci danno l'elemosina?».
«Che facciamo, fratello caro?»
«Ebbene, compagno mio, tutto succede per ordine del
Signore: noi siamo strumenti ed Egli si serve di noi per provare
il cuore degli uomini, come il contadino si serve della zappa per
smuovere la terra e vedere se è feconda. Cristiani, non guardate
in noi due creature povere; più tristi delle foglie cadute, più
luride dei lebbrosi; guardate in noi gli strumenti del Signore
per smuovere il vostro cuore!»
Le monete di rame cadevano davanti a loro come fiori
duri e sonanti. C'erano due giovani nuoresi bellissimi che per
farsi notare dalle fanciulle cominciarono a buttar soldi al
cieco, mirando da lontano al petto, e ridendo ogni volta che
colpivano giusto. Poi s'avvicinarono e presero di mira Efix,
divertendosi come al bersaglio. Efix trasaliva ad ogni colpo e
gli pareva lo lapidassero, ma raccoglieva le monete con una certa
avidità, e in ultimo, finito il giuoco, di nuovo si pentì e si
vergognò.
Intanto le donne preparavano il pranzo. Avevano
acceso il fuoco sotto un albero solitario e il fumo si confondeva
con la nebbia. La macchia dei loro corsetti rossi spiccava fra il
grigio più viva della fiamma. Non c'erano né canti, né suoni
in questa piccola festa che ad Efix pareva riunione di banditi e
di pastori radunatisi là per il desiderio di rivedere le loro
donne e di ascoltare la santa messa.
A mezzogiorno tutti si riunirono sotto l'albero,
intorno al fuoco, e il prete sedette in mezzo a loro. Il tempo si
schiariva, un raggio dorato di sole allo zenit filtrava
attraverso le nuvole e cadeva dritto sopra l'albero del
banchetto: e sotto, i pastori seduti per terra, le donne coi
canestri in mano, il sacerdote con una bisaccia gettata sulle
spalle a modo di scialle per ripararsi dall'umido, i fanciulli
ridenti, i cani che scuotevano la coda e guardavano fisso negli
occhi i loro padroni aspettando l'osso da rosicchiare, tutto
ricordava la dolce serenità di una scena biblica.
Le donne pietose portavano grandi piatti di carne e
di pane ai due mendicanti, e nel sentire il fruscìo dei loro
passi sull'erba il cieco alzava la voce e raccontava.
«Sì, c'era un re che faceva adorare gli alberi e
gli animali: e persino il fuoco. Allora Dio, offeso, fece sì che
i servi di questo re diventassero tanto cattivi da congiurare fra
loro per uccidere il padrone. E così fecero. Sì, egli faceva
adorare un Dio tutto d'oro: per questo è rimasto nel mondo tanto
amore del denaro, e i parenti, persino, uccidono i parenti per il
denaro. Così a me, i miei parenti, vedendomi privo di luce, mi
spogliarono come il vento spoglia l'albero in autunno.»
La gente partì presto e i due uomini rimasero
un'altra volta soli nella tristezza del luogo deserto.
La nebbia si diradava, apparivano profili di boschi
neri sull'azzurro pallido dell'orizzonte; poi tutto fu sereno,
come se mani invisibili tirassero di qua e di là i veli del mal
tempo, e un grande arcobaleno di sette vivi colori e un altro
più piccolo e più scialbo s'incurvarono sul paesaggio. La
primavera nuorese sorrise allora al povero Efix seduto sulla
porta della chiesetta. Grandi ranuncoli gialli, umidi come di
rugiada, brillarono nei prati argentei, e le prime stelle apparse
al cadere della sera sorrisero ai fiori: il cielo e la terra
parevano due specchi che si riflettessero.
Un usignuolo cantò sull'albero solitario ancora
soffuso di fumo. Tutta la frescura della sera, tutta l'armonia
delle lontananze serene, e il sorriso delle stelle ai fiori e il
sorriso dei fiori alle stelle, e la letizia fiera dei bei giovani
pastori e la passione chiusa delle donne dai corsetti rossi, e
tutta la malinconia dei poveri che vivono aspettando l'avanzo
della mensa dei ricchi, e i dolori lontani e le speranze di là,
e il passato, la patria perduta, l'amore, il delitto, il rimorso,
la preghiera, il cantico del pellegrino che va e va e non sa dove
passerà la notte ma si sente guidato da Dio, e la solitudine
verde del poderetto laggiù, la voce del fiume e degli ontani
laggiù, l'odore delle euforbie, il riso e il pianto di Grixenda,
il riso e il pianto di Noemi, il riso e il pianto di lui, Efix,
il riso e il pianto di tutto il mondo, tremavano e vibravano
nelle note dell'usignuolo sopra l'albero solitario che pareva
più alto dei monti, con la cima rasente al cielo e la punta
dell'ultima foglia ficcata dentro una stella.
Ed Efix ricominciò a piangere. Non sapeva perché,
ma piangeva. Gli pareva di essere solo nel mondo, con l'usignuolo
per compagno.
Sentiva ancora le monete dei giovani nuoresi
percuotergli il petto e trasaliva tutto come se lo lapidassero;
ma era un brivido di gioia, era la voluttà del martirio.
Il compagno, con le spalle appoggiate alla porta
chiusa e le mani intorno alle ginocchia, dormiva e russava.
Di là andarono a Fonni per la Festa dei Santi
Martiri. Camminavano sempre a piccole tappe, fermandosi negli
ovili dove il cieco riusciva a farsi ascoltare dai pastori: e
pareva riconoscerli «all'odore» diceva lui, raccontando gli
episodi più commoventi del Vecchio Testamento ai più semplici,
ai timorati di Dio, e quelli che male interpretati avevano un
sapore di scandalo, ai giovani ed ai libertini.
Questa condotta del compagno addolorava Efix: a volte
se ne sentiva tanto nauseato che si proponeva di abbandonarlo, ma
ripensandoci gli sembrava che la sua penitenza fosse più
completa così, e diceva a se stesso:
«E' come che conduca un malato, un lebbroso. Dio
terrà più in conto la mia opera di misericordia».
Per strada raggiunsero altri mendicanti che si
recavano alla festa: tutti salutarono il cieco come una vecchia
conoscenza, ma guardarono Efix con occhi diffidenti.
«Tu sei forte e potente ancora», gli disse un
giovane sciancato, «come va che chiedi l'elemosina?»
«Ho un male segreto che mi consuma e mi impedisce di
lavorare», rispose Efix, ma ebbe vergogna della sua bugia.
«Dio comanda di lavorare finché si può: potessi
lavorare, io; oh, come sono felici quelli che possono lavorare!»
Efix pensava a Giacinto, divenuto allegro e buono
dopo che aveva trovato da lavorare, e si domandava con rammarico
se non aveva ancora una volta errato abbandonando le sue povere
padrone.
Così andava andava ma non trovava pace; e il suo
pensiero era sempre laggiù, fra le canne e gli ontani del
poderetto. Specialmente alla sera, se un usignuolo cantava, la
nostalgia lo struggeva.
«Che penserà don Predu che mi aspetta con la
risposta di Noemi? Ma Dio provvederà: e provvederà bene, adesso
che io col mio peccato mortale e con la mia scomunica sono
lontano da loro.»
E andava, andava, in fila coi mendicanti, su, su,
attraverso la valle verde di Mamojada, su, su, verso Fonni, per i
sentieri sopra i quali, nella sera nuvolosa, i monti del
Gennargentu incombevano con forme fantastiche di muraglie, di
castelli, di tombe ciclopiche, di città argentee, di boschi
azzurri coperti di nebbia; ma gli sembrava che il suo corpo fosse
come un sacco vuoto, sbattuto dal vento, lacero, sporco, buono
solo da buttarsi fra i cenci.
E i suoi compagni non erano di più di lui.
Camminavano, camminavano, non sapevano dove, non sapevano
perché; i luoghi di spasso ove andavano erano per loro
indifferenti, non più lieti né tristi delle solitudini ove
facevano tappa per riposarsi o per mangiare.
Eppure litigavano fra loro, urlavano parole oscene,
parlavano male di Dio, si invidiavano: avevano tutte le passioni
degli uomini fortunati. Efix, stanco morto, con la febbre fin
dentro le ossa, non tentava di convertirli, e neppure sentiva
pietà di loro; ma gli pareva di camminare in sogno, portato via
da una compagnia di fantasmi, come tante volte laggiù nelle
notti del poderetto; era già morto ed errava ancora per il
mondo, scacciato dai regni di là.
A Fonni, dove i mendicanti si collocarono nel
cortiletto intorno alla Basilica piena di gente di lontani paesi,
egli cominciò a provare un nuovo tormento. Aveva paura di esser
riconosciuto, e tentava di nascondersi dietro il suo compagno.
Accanto a loro stavano altri due mendicanti, un
vecchio cieco e un giovane che prima d'arrivare si era punto il
petto sotto la mammella destra sfregandovi su il latte di un'erba
velenosa per formarvi un gonfiore che esponeva alla folla come un
tumore maligno.
Efix provava rabbia per quest'inganno, e quando le
monete cadevano nel cappello del suo compagno, arrossiva
sembrandogli di ingannare anche lui i pietosi.
E le monete cadevano, cadevano. Egli non aveva mai
immaginato che ci fossero tanti pietosi, al mondo: le donne
soprattutto erano generose, e un'ombra dolce velava i loro occhi
ogni volta che il falso tumore del mendicante giovane appariva
gonfio e scuro come un fico tra le pieghe della camicia
slacciata.
Quasi tutte si fermavano, col viso reclinato,
interrogando. Alcune erano alte, sottili, fasciate di orbace, coi
grembiali ricamati di geroglifici gialli e verdi e i cappucci di
scarlatto, e pareva venissero di lontano, dall'antico Egitto:
altre avevano i fianchi potenti, il viso largo con due pomi
maturati per guance, la bocca carnosa, ardente e umida come
l'orlo d'un vaso di miele.
Efix rispondeva a occhi bassi alle loro domande, e
raccoglieva con tristezza l'elemosina.
Ma anche alcuni uomini si fermarono intorno al
vecchio cieco e al falso infermo, e uno si curvò per guardar
bene il tumore.
«Sì, così Dio mi assista», disse, «era proprio
così. Ed è campato solo un anno.»
«Un anno solo?», gridò un altro. «Ah, non mi
basterebbe neanche per condurre a termine tre delle mille cose
che penso. Su, prendi!»
E gettò all'infermo una moneta d'argento. Allora fu
una gara a chi più offriva al condannato a morir presto: le
monete piovevano sulla sua bisaccia, tanto che il compagno di
Efix diventò livido e la sua voce tremò per l'invidia. A
mezzogiorno rifiutò da mangiare; poi tacque e parve meditare
qualche cosa di fosco. Infatti, quando la folla si radunò
nuovamente nel cortile e le donne passando si frugavano in tasca
per dare l'elemosina al finto malato, egli cominciò a gridare:
«Ma guardatelo bene! E' più sano di voi. S'è punto
con un ago avvelenato».
Allora qualcuno si curvò a guardare meglio il falso
tumore, e il mendicante, pallido, immobile, non reagì, non
parlò; ma il vecchio cieco suo compagno s'alzò a un tratto,
alto, tentennante come un fusto d'albero scosso dal vento; mosse
qualche passo e s'abbatte: su Istène battendogli i pugni sulla
testa come due martelli.
Dapprima Istène chinò la testa fin quasi a
mettersela fra le ginocchia; poi si sollevò, afferrò le gambe
del suo assalitore e lo scosse tutto e non riuscendo ad
abbatterlo gli morsicò un ginocchio. Non parlavano e il loro
silenzio rendeva la scena più tragica: dopo un momento però un
grappolo di gente fu sopra di loro e gli strilli delle donne
s'unirono alle risate degli uomini.
«Io però vorrei sapere come ha fatto a vederlo!»
«Ma se non è cieco! Malanno li colga tutti, fingono
dal primo all'ultimo.»
«E io gli ho dato tre volte nove reali! Come te lo
hai fatto il tumore?... Dimmelo, ti do altri nove reali; che
così me lo faccio anch'io per non andare al servizio militare.»
«Guarda che vengono i soldati.»
«State zitti: roba da niente.»
La gente si divise per lasciar passare i carabinieri:
alti, col pennacchio rosso e azzurro svolazzante come un uccello
fantastico, stettero sopra i due mendicanti raggomitolati per
terra.
Il vecchio tremava di rabbia, ma non apriva bocca;
l'altro aveva ripreso la sua posizione e disse con voce triste
che non sapeva nulla, che non si era mosso, che aveva sentito un
uomo piombargli addosso come un muro che crolla.
Li fecero alzare, li portarono via. La folla andò
loro dietro come in processione. Efix seguiva anche lui, ma le
gambe gli tremavano, un velo gli copriva gli occhi.
«Adesso arrestano anche me, e vengono a sapere chi
sono, e vengono a sapere tutto e mi condannano.»
Ma nessuno badava a lui, e dopo che i due ciechi
furono dentro in caserma la gente se ne andò ed egli rimase
solo, a distanza, seduto su una pietra ad aspettare.
Aveva paura ma per nulla al mondo avrebbe abbandonato
il cieco. Rimase lì un'ora, due, tre. Il luogo era silenzioso:
la gente era giù alla festa e il villaggio in quell'angolo
pareva disabitato. Il sole batteva sui tetti di schegge delle
casette basse e umili come capanne, il vento del pomeriggio
portava un odore di erbe aromatiche e qualche grido, qualche
suono lontano.
Quella pace aumentava il turbamento di Efix. Per la
prima volta gli appariva chiaro, come la roccia là sui monti
attraverso l'aria diafana, l'errore della sua penitenza. No, non
era questo ch'egli aveva sognato.
E le sue povere padrone che pativano laggiù, sole,
abbandonate? Per la prima volta pensò di tornare, di finire i
suoi giorni ai loro piedi come un cane fedele. Tornare,
condannarsi anche l'anima, ma non farle soffrire: questa era la
vera penitenza. Ma non poteva abbandonare il compagno. Ed ecco
che la porta della caserma si apre e i due ciechi ne escono,
tenendosi per mano come fratelli.
Efix andò loro incontro, prese per mano il suo
compagno. Così in fila tornarono al cortile della Basilica, e vi
fecero il giro cercando il falso malato. La gente ballava e
suonava, il tramonto tingeva di rosa il campanile, i tetti, gli
alberi intorno; dalla chiesa usciva un salmodiare di laudi che
accompagnava il motivo della danza, e un profumo d'incenso che si
mescolava all'odore degli orti.
Ma per quanto lo cercassero, il finto malato non si
trovò nel cortile, né in chiesa e neppure nelle strade attorno.
Qualcuno disse che era scappato per paura dei carabinieri. Così
Efix rimase con tutti e due i ciechi.